racconto

una lettera, forse

maggio 1979

chiarissimo (e carissimo) professore, forse ti stupirai del libro di cui desidero farti dono, un libro così serio che ci porta immediatamente fuori dalla nostra normale linea di condotta. Perché e implicito che chi dei due può permettersi di suggerire, o imporre, all’altro un libro serio non è la sottoscritta, anche se la goffa ragazza provinciale è adesso un individuo di città grazie alla mole di carta stampata penetrata con gli anni nel suo cervello. In sostanza, però, a guardar le cose secondo una diversa prospettiva, la mole ha edificato un muro tra la sottoscritta e la realtà. Son quasi certa che tu, professore, non sei d’accordo né sulla maniera di stendere questa lettera (prolissa e con sviamenti), né sulla conclusione a cui un interminabile orizzonte di libri mi ha trascinato mio malgrado; la conclusione ti sembrerà affrettata, benché io possa garantire che — sia pure improvvisa a causa di circostanze esterne e straordinarie — essa è il risultato di un travaglio. Mi accorgo che tutta la vita in comune ha accumulato una necessità di chiarimenti ingente come la mole di carta da noi (con opposti esiti) assorbita e deve ormai essere palese che, in qualunque direzione io mandi il discorso, la rivolta non è contro il libro, i libri, ma contro noi stessi, loro prigionieri. Il dono di oggi, ad esempio, costituisce una sorpresa per te: rompe una consuetudine: la tua condiscendenza e la mia passività. Per anni ho appena osato distrarti con pagine dall’aspetto più di giocattoli, o scherzi, che di interventi veri e propri nella tua costruzione mentale; dovevo limitarmi a cosucce frivole, benché preziose, abbastanza frivole quindi, ma sufficientemente preziose, onde non scadere troppo: e lo sa il diavolo se ho patito per mantenere l’equilibrio affidandomi a piccole storie istoriate, l’eleganza di una Monique-Alika Watteau, Leonora Box e i suoi ghirigori trasparenti, spiritosaggini alla Jacobsson, le leggende dei pirati Lafitte, cantilene infantili (Pov piti Lolotte à mouin) nonnulla di nonnulla, compreso Edward Lear. Non sfuggiva a te, senz’altro, che le cosucce avevano un’aria festosa e patetica, trasandata e artefatta, remota e vicina, non sarebbe stato facile per chiunque scovarle (in librerie, su bancarelle, blocchi all’asta), anche se, appena scovate, da l’ impressione di essere al vertice dell’evidenza. Occorrevano, per tale lavoro di ricerca, una disciplina lette-e dimestichezza con un mondo irreale, e gusto materia insipida portata al grado di stravagante e leziosa. Le minuzie, osservate da presso, lasciavano scoprire genealogie; come mettere specchi contro specchi, il niente che si moltiplicava. Ma, sia detto una volta per sempre, anche perché tu ne rimanga convinto, erano la frangia dei libri seri; solo il grande tirocinio su più ponderosi volumi concedeva di colpire con occhi bendati la frangia. La quale, dal suo carattere di inconsistenza, di grazia, di vecchia e corrotta civiltà, di bizantino virtuosismo, derivava il proprio decoro. Ma che a me fosse dato unicamente di esibirmi con essa, mascherando la forza che la reggeva — la forza mia, di divoratrice di altra civiltà —, era occasione di sconforto: non poter invadere il tuo nobile santuario, professore, con interventi massicci, trovarmi sempre come su uno sgabello ai tuoi piedi. Non che tu non accogliessi la frangia con la dovuta tenerezza e dolcezza a cui di solito finisce per approdare un ardente ma lungo vincolo coniugale. O che abbia mai ricusato di riconoscere la serietà delle mie letture, così vistosamente agivano, mutandomi giorno per giorno in meglio (o peggio), estraniandomi dai problemi e interessi immediati, facendo di me una farfalla preziosa nella misura di un disegno di Leonora Box. Ciò che voglio dire è che qualcosa si è perduto: la crepa di un attimo è ora aperta in una ferita immensa.

Vedi, avevamo cominciato insieme, noi due e i libri, e finché noi due e i libri stavamo insieme, era accettabile una vita sottomarina, riflessa, nel verde in fondo all’acqua, divisi e pur uniti, con il verde speciale che veniva dai libri, col respiro che ai libri comunicavamo noi, anche noi specchi dentro specchi, a moltiplicare il nulla, e ricordi Rafael Alberti, l’alta temperatura delle onde felici, i castelli caduti che risollevano i loro merli e stamattina, amore, abbiamo vent’anni?

Ma adesso il nobile santuario muove da una città all’altra (e perché non dire da un continente all’altro?). Tuttavia il punto non è questo. Il santuario ormai disterebbe chilometri quand’anche si trovasse nella stanza accanto. Così non è più solo questione di libri e sarebbe assurdo che — dopo la frattura dal mio dono arrecata — il nostro rapporto si mantenesse identico a prima. Non è un libro qualunque. Vale la pena che io ti spieghi come, scelto per un’altra persona, giunga invece a te. Già lo sai di quest’altra persona. Mi prendi il viso fra le mani, cerchi la verità in fondo ai miei occhi. Non saprei negartela, e anche che sono quasi calma; ti afferro le dita e te le torco; non c’è bisogno di andare così in fondo se tutto sta alla superficie. Ti dico di non avere paura.

 

Rispondi; non ho paura. Io sì, al contrario, ho paura. Per una vita coniugale da dover cementare con lettere e libri. Poiché, vedi, mi avevi sempre lasciata giovane; malgrado la mia età m’ero conservata intimamente ragazza. Ma con l’altra per-. sona le cose sono andate In maniera diversa. Certo, che i sentimenti sbandino non ha importanza purché alla fine si ritrovi un principio morale e affettivo. Ma è doloroso essere svegli, denudata la coscienza come su una mano, e qualcosa di più della coscienza a dare fitte cupe, il destarsi cioè del corpo, e non come si passa dalla notte al mattino, bensì dal letargo di una vita intera alla consapevolezza dello strumento fisico. Non sembra neppure possibile che da un inizio tanto sciocco abbia avuto origine tutta questa sofferenza. Perché l’inizio è stato sciocco. Io mi preoccupavo di ciò di cui non dovevo preoccuparmi. Siamo tutti alti, in famiglia, incluse le ragazze: venuti su con l’aria di collina, e il mangiare, e i dati somatici del ramo materno e paterno. La disperazione di noi ragazze o donne, ma il nostro orgoglio se ci aggruppiamo maschi e femmine, una compagnia di granatieri. E di sicuro l’uomo non avrebbe mai potuto indovinare che cosa mi spinse, quando, mossosi verso di me senza che avessi la forza di tirare il fiato, m’aveva circondato con le sue braccia, che cosa mi spinse a rovinargli come addosso. C’entrava, sì, una forma di abbandono infantile, oscuro stupore, o abbagliamento, e nell’insieme confusione assoluta. Ma soprattutto è stato questo: che non potevo — in quella circostanza — essere alta, Anche se, quando mi disse «guardami», m’ero sollevata con orgoglio (il vecchio nostro orgoglio di casa) ed ecco i miei occhi stavano sulla linea di quelli di lui, precisamente alla loro altezza; per cui le mie labbra, pur nella grande confusione, avevano avuto un tremito di gioia; poi tutto si era annientato nella confusione, di nuovo e più di prima, perché gli occhi nei quali guardavo, non dovendo né alzare né abbassare il capo, erano reali fino all’irreale; così vicini, posti al livello a cui erano posti quasi per creare un legame di perfetta orizzontalità con i miei, senza alcuna inclinazione da un verso o dall’altro. Ora io non potevo più sopportare quel legame tanto perfettamente orizzontale.

 

Era l’istinto a difendermi, ad organizzare una resistenza. Resistenza a che? non mi aveva chiesto niente: con quella sigaretta in una mano, la destra; della sigaretta lo avevo saputo dopo giorni, in una specie di ricostruzione; l’esame mi aveva affranta, avendo io. notato che via via col tempo ricordavo sempre di più: come s’era mosso verso di me, come, abbracciandomi, aveva tenuto la sigaretta per gettarla solo ‘alla fine, e i suoi polsi — glieli avevo stretti per allontanarlo —, e le mani, la cui conoscenza mi aveva trasmesso in qualche modo, e non per contatto, così impercettibilmente mi avevano sfiorata quando gli ero rimasta fra le braccia. E ancora ritorna la confusione, ancora dura l’offesa per aver lui camminato ignaro accanto alla poesia, con occhi ciechi, in un rapido falò incenerendo gli anni per la durata dei quali avremmo potuto davvero conoscerci. Perché non c’è speranza più che ci si conosca, a meno di non piegarsi al biglietto perentorio di oggi, alla proposta brutale con l’indicazione del treno da Roma, il treno che arriva alle 19,30 nella sua città al di là degli Appennini. Piegarsi, ma anche sfidarlo. Tu mi capisci, no? Avvicinando un uomo come lui si pongono in crisi tutti i valori in cui abbiamo creduto. Bisogna revisionare ogni cosa. Da una parte questa nostra esistenza, profonda e assorta; dall’altra una concretezza. Comprargli il libro è stato un atto di fede. Ma il libro è così grave, porta un così violento peso, che non posso donare ad altri ciò che appartiene esclusivamente a te. Perciò ora è tuo, se lo accetterai come accetterai che io mi pieghi al nuovo incontro. E’ in causa l’autenticità del nostro intero sistema di vita. Stabilire un rapporto con qualcuno significa méttersi nella posizione di misurare e lasciarsi misurare; niente che valga tale metro. Tu disquisirai sui doveri coniugali, su un opposto coraggio. Ma liberare le parole murate, fermarmi di nuovo sulla linea orizzontale del suo sguardo. Si vedrebbe allora chi dei due sarebbe a cedere. Se io, frantumandomi contro la virilità, l’esperienza, contro l’allegria, la smorfia scaltra e golosa, il cinismo appena fulgido, la malizia di un messicano d’Italia, tutte insieme energie troppo potenti perché ci si possa, illudere di resistervi. Oppure se prevarrebbe il blocco della difesa morale, dell’amicizia, profumo di terra, poesie scavate nell’animo, dolore e rabbia, se sarebbero questi miei sogni a chiudergli la bocca con un pugno, a imporgli di inginocchiarsi davanti a loro.

Roma, 1965