un’altra donna morta per la violenza privata e delle istituzioni

giugno 1977

a Campi Bisenzio una nostra compagna, Rina Petruzzi, è stata uccisa dal marito con una coltellata.
Questo è stato l’ultimo atto di una vita di violenze, sopraffazioni, e fatalismo a cui Rina aveva deciso di dire basta. Sposatasi a 16 anni, all’età di 36 si era trovata, dopo nove gravidanze, sei figli e tre aborti procurati all’insaputa del marito per il quale «metterla incinta» era un modo per tenerla soggiogata.
Rina era pugliese, la sua prima battaglia è stata quella dell’emigrazione. Sperava, in tal modo, di sottrarre se stessa e la famiglia ad un’ambiente dove la violenza e la repressione nei confronti della donna sono normali. Di fatto, a Campi, Rina al di fuori della solidarietà del movimento delle donne aveva trovato nell’ambiente e nelle istituzioni, meno evidente ma altrettanto radicata, la stessa violenza e la stessa repressione.
Rina manteneva col proprio lavoro di inserviente la famiglia continuando ad occuparsi della casa e della cura dei figli. Il marito la picchiava sistematicamente, era l’unico modo con cui cercava di imporsi ad una donna che diversamente da lui aveva capito tante cose della propria condizione ed aveva cercato attivamente di modificarla. Per lui era l’unica persona su cui scaricare la propria frustrazione.
Ancora una volta una donna paga per i problemi di un uomo. Quando Rina si decise a sporgere denuncia per i maltrattamenti continuati i carabinieri le dissero testualmente: «Signora, ci pensi bene, con questa denuncia Lei firma la sua morte». Con lo stesso atteggiamento con cui poche ore prima che fosse uccisa, quando, sentendosi in pericolo, aveva chiesto protezione ai carabinieri, le era stato risposto: «Non possiamo metterle una persona apposta, se vuole la guardia del corpo spenda 500.000 lire e paghi un poliziotto privato», ed ancora: «Signora, lasci fare a noi con le buone maniere, ma Lei non torni qui ogni giorno, perché noi abbiamo mille cose a cui pensare».
All’uscita della caserma, dopo la prima denuncia, il marito prima tentò d’investirla, poi la picchiò, tanto che fu necessario il ricovero in ospedale. Tutto questo sotto gli occhi dei carabinieri, che si limitarono a registrare il fatto alla Procura della Repubblica, guardandosi bene dall’intervenire.
Nei giorni successivi, quindi, giunsero alla Procura della Republica ben tre notizie di reato: la denuncia di lei, quella dei carabinieri, il referto dell’ospedale. Da questo momento comincia un carosello tra carabinieri, Pubblico Ministero, giudici della separazione; ognuno di loro interviene solo nella propria «sfera di competenza». È così che una donna finisce per bussare a cento porte con la sensazione di elemosinare quello che è solo il minimo dei diritti: una vita umana giusta.
«Signora, avete sei figli, sicché suo marito Le vuole bene…». Erano state le parole con cui il Presidente del Tribunale esperì il tentativo di riconciliazione, come se il concepimento irresponsabile soprattutto in una realtà di miseria, di violenza e di sopraffazione, come quella di Rina, fosse un «atto d’amore». È una volta di più incredibile vedere come la violenza, quando è all’interno della famiglia, diventi una «cosa normale» da risolversi con la .«comprensione», il «perdono». Non a caso il P.M. tende a colpevolizzare la donna quando le dice: «Signora, mi dica Lei cosa devo fare… perché sa… quando si tratta di reati familiari..,!» addossando su di lei tutta la responsabilità della persecuzione penale del marito. Cosa vuol dire tutto ciò, se non che tutti i problemi della famiglia debbono risolversi nel privato dove altro non può prevalere se non la violenza, la prevaricazione, la ghettizzazione nei ruoli, perché la famiglia rimanga istituzione chiusa e quindi sede degli assetti ideologici del sistema.
È così che ognuna delle persone che è investita di potere in questi casi può scaricare la propria responsabilità sul superiore gerarchico, sul collega investito di un’altro aspetto della cosa. I carabinieri sulla magistratura, che non ha dato ordini precisi, il P.M, sul Giudice Istruttore che doveva emanare lo ordine di cattura per il marito, il G.I. sul P.M., che se era così urgente, doveva agire direttamente, il P.M. sui carabinieri, che non gli hanno segnalato la pericolosità del caso. È così che una donna finisce uccisa, senza che nessuno se ne senta responsabile, ed è troppo facile dire che tutti possono esserlo. Una donna muore per la violenza privata e delle istituzioni. La burocrazia spersonalizza le responsabilità, si dice, ma la burocrazia è solo un paravento dietro il quale troppe persone direttamente, individualmente responsabili, stanno cercando di nascondersi.
Ciascuna delle persone, organi delle istituzioni con cui Rina ha avuto contatto, poteva interrompere il treno della burocrazia e non lo ha fatto. Tutti sono responsabili.
Alla violenza delle istituzioni si è aggiunta quella della stampa, della opinione pubblica, del prete che ha celebrato il rito funebre, voluto dai familiari. La stampa si è impossessata del fatto facendone esclusivamente un argomento scandalistico e di cronaca nera. I giornali lo hanno denunciato come un «dramma della gelosia» rendendo la donna responsabile della sua stessa morte. Le parole pronunciate dal marito quando è stato ripreso dai Carabinieri mentre cercava di fuggire sono state: «Dovevo farlo», mentre è stato chiaramente sottinteso che il vero motivo per il quale la donna si era allontanata da casa fosse stato «l’altro». I commenti riportati indicano nel marito la vera vittima «Povero ragazzo, una cosa così non la doveva proprio fare, ora si è rovinato», insistendo sul fatto che nessuno sapeva dove Rina avesse trovato alloggio nel periodo in cui non poteva stare più a casa sua. Le compagne di Prato che l’hanno ospitata sanno bene come son stati duri i mesi durante i quali è stata costretta a nascondersi nelle loro case per paura delle rappresaglie del marito e con la preoccupazione costante dei figli che il marito trascurava. Certo, l’opinione pubblica riesce forse a concepire che una donna possa lasciare il marito perché ha trovato un altro uomo, ma rifiuta violentemente che decida autonomamente della propria vita. Questa autonomia scuote violentemente la coscienza comune; il prete, durante il rito funebre ha commentato che un atto così grave, riferendosi all’omicidio, nasce da una profondissima sofferenza e per questo motivo può essere solo capito ma non giudicato; perciò dobbiamo rispondere con la solidarietà (!) e l’amore. Oggi, noi come donne dobbiamo interrogarci sul ruolo del movimento davanti a questi fatti. Rina non è stata uccisa come tante altre donne nel silenzio. Lei aveva già investito tutto il movimento della sua situazione nel senso più largo e più giusto, cioè dalle donne sue compagne di lavoro fino alle donne già organizzate nel movimento.
Qual è la nostra responsabilità e quale deve essere il nostro impegno?
Abbattere i muri del privato per denunciare tutte le violenze «normali» all’opinione pubblica perché non siano più normali, ma oggetto di continuo scandalo;
Smascherare sempre le prese di posizione unilaterali della stampa, della polizia, della Chiesa e della magistratura, che sono sempre in difesa della vecchia logica maschile; perché non sia più normale che la donna venga picchiata, che venga violentata all’oscuro nel letto coniugale, che venga sfruttata dentro e fuori casa, ma perché sia normale il diritto alla vita, alla gioia, alle scelte, a NON ESSERE PROPRIETÀ’ PRIVATA DI NESSUNO.