vogliamo che ” AAA offresi” sia visto da tutti

Documento delle sei autrici del film-inchiesta letto durante il dibattito organizzato a Roma dal giornale Arci «Unaltracosa», il 24 marzo scorso.

aprile 1981

La situazione che si è creata intorno al nostro lavoro A.A.A. OFFRESI ha ormai del grottesco.
Si è montato un “caso” che diventa spettacolo.
Nessuno ha resistito alla tentazione di esprimersi e sentenziare su un prodotto non visto, contribuendo, così alla sua demonizzazione. Ognuno ci ha costruito sopra una propria storia, svelando i propri fantasmi e le proprie prevenzioni, su un’ottica di donne chi si presumono anti-maschiliste e revanchiste della prim’ora, e ritorna anche il fantasma della femminista. Ma quello che più stupisce è che si sia entrati nel merito dei contenuti del film senza averlo visto; basandosi su brani di dialoghi apparsi sulla stampa, o sul racconto fatto da alcuni giornalisti, e quindi sulla loro lettura del film, sulla loro interpretazione. Si è dimenticato un fatto fondamentale: che un film è un insieme di significati che scaturiscono dall’associazione di suono e immagine, di forma e contenuto. Si è cioè dimenticato che è anche un prodotto estetico.
Invece di un’opera oggi c’è un caso. Il “caso” è diventato esso stesso produttore di significati, travalicando il senso originario del programma televisivo. A questo punto, il prodotto potrebbe anche non esistere. E, in effetti, rimane assente. Ad esso si è sostituito un “caso” che assume connotazioni politiche e giuridiche e che si ‘alimenta di pregiudizi e di paure, di moralismi di ogni colore e genere. Il che insospettisce. Rinvia a miti e tabù fissati nell’inconscio della cultura patriarcale.
Sarà che abbiamo colpito nel segno?
Ma vorremmo riportare il discorso sul prodotto del nostro lavoro, il cui dato dirompente deriva sia dall’ottica con cui abbiamo affrontato l’argomento, sia dall’uso del mezzo televisivo.
Se avessimo realizzato un film porno per i circuiti delle luci rosse o per qualche catena di televisioni private nessuno sarebbe insorto con tanto vigore a difendere la morale di milioni di italiani! E infatti i film a luci rosse vanno benissimo: salvano la gestione economica delle sale cinematografiche, danno lavoro ai malpagati che partecipano alla produzione e, soprattutto, si inseriscono perfettamente nelle politiche sessuali delle società a capitalismo avanzato.
Ma nel nostro caso mancava la compiacenza verso il consumo di immagini erotiche e stimolanti, utili a conservare la dimensione sessuale imperante. Nel nostro caso si trattava della rappresentazione di una realtà che è tollerabile finché rimane nascosta e censurata, tutt’al più oggetto di discussione nei convegni per la pianificazione delle “piaghe sociali”.
Quello che è risultato intollerabile è stato il fatto di aver ribaltato l’ottica con cui si è guardato sino ad ora al “fenomeno”. Non la donna, non la prostituta era il centro della nostra indagine, ma la domanda, il bisogno di prostituzione.
E allora il discorso si è spostato su altri piani per dimenticare il nodo della questione posta.
La società condanna, ancora una volta, lei, la puttana e noi, le autrici. Tutto questo per proteggere “il cliente”, del resto già abbastanza protetto nel suo anonimato dalle nostre doverose scelte, e comunque mai vittima del nostro presunto sguardo di “femministe-nemiche-del maschio”. E qui vogliamo ribadire che quest’etichetta non ci appartiene.
Se chi ha sollevato tanti problemi per censurare un discorso sgradito avesse visto il film, avrebbe potuto rilevare come l’insieme dei comportamenti — giocati da pure ombre private della loro stessa voce — sia rivelatore dell’isolamento sociale, della mancanza di circolazione di affettività, e un mondo dominato dal denaro e dalla merce. Non abbiamo voluto ridicolizzare gli uomini, abbiamo solo raccontato una particolare situazione della condizione umana. Il nostro discorso rimanda al senso dei rapporti basati sullo scambio, sul principio di prestazione di marcusiana memoria, sul “do ut des”, che non sono propri soltanto del rapporto sessuale mediato dal danaro, ma della quasi totalità dei rapporti che si sono instaurati nell’economia basata sul rapporto Merce-Denaro-Merce.
Ed è forse proprio questo che non si accetta: di ritrovare sul’piccolo schermo questa immagine — specchio del sociale, in cui ognuno potrebbe riconoscersi, immagine rappresentata attraverso quello che è considerato il più infimo dei rapporti ed è estensibile invece ad una serie di altri rapporti…
O forse quello che preoccupa di più è che quel lembo di giacca, quel pezzo di pantalone, la banalità di quella frase potrebbe essere di tutti, virtuali clienti e non, che quell’irriconoscibile padre di famiglia potrebbe essere tutti i padri di famiglia… e che quella donna potrebbe essere tutte le donne?
Sono note le elaborazioni del movimento delle donne che considera il matrimonio come una forma di prostituzione legalizzata… e non è la sola.
Così queste sei donne, che da anni portano sugli schermi le tematiche del movimento, che hanno già scandalizzato con “Processo per stupro” — ma chi poteva avere allora il coraggio di non assumersi quella vergogna? — devono essere “sputtanate”. Oggi che le direttive sono la moralizzazione, il ripristino della famiglia, l’abolizione di una delle poche conquiste delle donne, l’aborto, …oggi queste donne devono tacere. Il dito che esse puntano sulla società, diventa il dito della società e degli intellettuali contro di esse… Ma queste sei streghe hanno fatto di più: si sono appropriate di un mezzo di comunicazione e invece di fare una delle solite inchieste televisive, con interviste sapientemente tagliate e montate, con speaker che indica al pubblico cosa e come deve pensare, hanno tentato di svolgere un discorso sul mezzo.
E qui vorremmo fare un cenno alla nostra storia di professioniste. La nostra attività inizia nel ’67, quando una donna del nostro gruppo è fra i promotori e fondatori del Filmstudio 70 di cui cura per anni la programmazione. Sono note le attività di questa associazione culturale e i suoi scopi: diffondere il cinema escluso dai circuiti commerciali e far conoscere la cinematografia del passato, le nuove tendenze del cinema e la sperimentazione. Nei primi anni settanta siamo attiviste femministe e partecipiamo ad alcune elaborazioni teoriche del movimento delle donne. Il primo documentario femminista italiano, realizzato nel ’71 come tesi di laurea al Centro Sperimentale di Cinematografia è firmato da Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio che organizzano in quegli anni il primo Collettivo Femminista di Cinema con l’intento di usare il cinema come mezzo di lotta e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
In questi dieci anni ci siamo mosse in questo senso approfondendo contemporaneamente la nostra ricerca sul linguaggio televisivo e cinematografico. Il nostro lavoro è stato quindi anche teorico. Oltre a pubblicare saggi, abbiamo organizzato e curato varie rassegne e convegni patrocinati da enti pubblici, come Kinomata (La donna nel cinema) e Psicoanalisi. Del 16 è un altro film sulla maternità “Il rischio di vivere”, prodotto dalla seconda rete RAI. Per la RAI abbiamo anche curato con Danielle Turone “Ciak, le donne si raccontano”. Nel ’78 il nostro gruppo entra a far parte della Cooperativa Maestranze e Tecnici Cinema, la cui politica culturale pensiamo sia a conoscenza di tutti. Realizziamo all’interno della cooperativa il video-tape “Vita d’eroina”, un ritratto della poetessa Patrizia Vicinelli, che aveva fatto parte del gruppo *63. Subito dopo conosciamo Loredana Rotondo, regista e programmista della seconda rete TV, che da anni ha lavorato per creare spazi in cui si potesse affrontare il problema della condizione della donna. Cura rubriche (?) come “La donna e la salute” e “Riprendiamoci la vita”. E’ in questo contenitore che si inseriscono i nostri due ultimi lavori per la RAI: “Un processo per stupro” e “A.A.A. Offresi”. Vorremmo anche parlare della nostra prassi di lavoro.
Sin dal momento dell’elaborazione ci poniamo il problema di come rappresentare per immagini il tema e il discorso che intendiamo svolgere, in quale forma, in quale linguaggio. E infatti non vediamo l’inchiesta televisiva come un’ appendice del telegiornale. Fa parte della nostra ricerca dare al documentario una forma filmica, in cui il senso e i significanti nascono dal taglio delle inquadrature, dal montaggio, dalla scelta delle situazioni. Il risultato è un film al limite tra fiction e realtà.
Per il film incriminato si è trattato di un lavoro non analitico di ciascuna situazione, ma di un’elaborazione sintetica che riassume una serie di situazioni possibili. L’obiettivo ha un suo percorso autocensorio, l’ulteriore intervento di solarizzazione e l’elaborazione in fase di montaggio danno agli eventi filmati dal vero un risultato che sconfina nella finzione. L’insieme della narrazione tende a riprodurre un’atmosfera attraverso il susseguirsi di episodi montati in maniera differente: dai lunghi piani-sequenza in cui il campo visivo è spesso vuoto di personaggi a brevi scene in cui l’azione è descritta da una serie di inquadrature in cui le porte e gli stipiti fanno spesso da quinta. Quanto alla candida camera vorremmo risalire al suo significato etimologico. Camera candida, cioè sguardo candido, innocente, ingenuo, naif, che suppone il concetto di una realtà che parla da sé.
Ma il nostro sguardo è casto ma non candido! Casto in quanto non ci interessa soffermarci sull’aspetto erotico — quale erotismo poi! — né insistere morbosamente sugli atti sessuali. Di questi c’è solo un segno discreto e censurato dal nostro stesso sguardo. Che però non è candido, cioè non è ingenuo, in quanto c’è un discorso preciso che si svolge attraverso l’insieme di segni che compongono un film. Qualcuno che ha visto il nostro lavoro ha parlato di un film sul linguaggio. E qui vorremmo esporre l’elaborazione teorica sul testo filmico e sul rapporto schermo-spettatore che è alla base di A.A.A. Offresi. Purtroppo le teorie che si sono sviluppate intorno a questi argomenti rimangono spesso nell’ambito dei seminari per addetti ai lavori e delle riviste specializzate e non vengono quasi mai portate al grande pubblico, forse anche perché non trovano presso il pubblico la dovuta attenzione.
Non so se qui ci sia il tempo necessario per affrontare un discorso così vasto e complesso. Si corre il rischio di banalizzare e schematizzare. Tenteremo però di dare alcune indicazioni circa i nostri punti di riferimento teorici. Si tratta degli studi elaborati da Metz, Baudry, Bellour, raccolti fra l’altro nel n. 23 di Communications del 75. E’ una tendenza della teoria cinematografica che analizza il rapporto schermo-spettatore alla luce della teoria dell’inconscio elaborata da Freud e Lacan. In «Le signifiant immaginaire» C. Metz sostiene ohe l’identificazione dello spettatore con i personaggi dello schermo è secondaria rispetto alla “pura istanza di vedere”. Laura Mulvey, in Screen dell’autunno ’75 sostiene che il cinema, in quanto sistema di rappresentazione avanzato, pone degli interrogativi circa il modo in cui l’inconscio struttura il piacere di guardare. Uno dei nodi principali della sua tesi è che la forma filmica si è sviluppata sul piacere di guardare. Le implicazioni psicanalitiche del guardare senza essere visto sono state descritte da Freud in “Tre saggi sulla sessualità”. Il voyeurismo non è altro che questo: guardare senza essere visto. E, nell’interpretazione freudiana sarebbe una predisposizione presente nel nostro inconscio, ohe si sviluppa in relazione alla proibizione per il bambino di vedere quella che Freud ha definito la scena primaria”, cioè lo scoprire l’amplesso amoroso dei genitori. Ora secondo le tesi cui accennavo prima, la posizione dello spettatore rispetto alla visione filmica è esattamente questa: guardare senza essere visto. E la Mulvey conclude che la stessa forma filmica si è strutturata sulla manipolazione del piacere di guardare.
Si può essere d’accordo o no con questa teoria, ma ci sembra perlomeno scorretto ignorare ohe sia un punto di partenza del nostro lavoro. Dunque abbiamo infranto questo tabu?! e nello stesso tempo abbiamo espresso su quale meccanismo, su quale “spostamento” (in senso psicanalitico) si basa il dispositivo cinematografico e l’atto del guardare, la fascinazione dell’immagine. Era nelle nostre intenzioni svolgere questo discorso attraverso un’operazione filmica, piuttosto che in un saggio.
Non possiamo dimenticare che questa è una civiltà delle immagini. La comunicazione che fino al secolo scorso era affidata alla parola, oggi passa all’immagine. Questo implica che siano le immagini stesse a produrre senso.
Quello che chiediamo è che A.A.A. Offresi sia visto e un dibattito si sviluppi, se nascerà, in merito al prodotto.