breda: una promessa fallita

ottobre 1974

Lo chiamano Villaggio Breda: durante la guerra c’era una fabbrica di armi, che ora è chiusa, ma il nome è rimasto e sono rimaste le case operaie , spartite da un vialone centrale che naufraga in uno spiazzo di cemento scrostato. Doveva essere un villaggio operaio ma gli operai si contano sulla punta delle dita e ci abitano invece gli immigrati, i pendolari, i sottoccupati. Doveva essere un quartiere ed è invece una borgata: cioè una promessa fallita, il provvisorio che si cristallizza in definitivo, la proiezione geografica della discriminazione sociale della città. Di villaggi breda a Roma ce ne sono tanti, non si sa neppure quanti: continuano a crescere, a stringersi intorno alla città come un cappio di cemento. Dovunque è la stessa storia: le case abusive che si mangiano la campagna superstite, il verde lacerato, le marrane inquinate, le scuole, gli asili, gli ospedali che non esistono. Leggere le borgate, rintracciare in quest’urbanistica stravolta i segni del sistema che l’ha prodotta, in una parola capire perché ci sono, perché continuiamo a subirle è essenziale per non fare un discorso di ‘lamentazioni’ fine a se stesso, quindi non-politico, quindi che non ci serve.
In altri periodi storici, una classe politica sapeva — se non altro — esprimere Piazza Navona. Oggi chi è al potere non si cura neppure più di darsi un alibi, o una giustificazione, creando una città, una struttura urbana significativa: oggi la cultura si esprime con i supermarkets, le autostrade, i nuovi monumenti alla civiltà dei consumi. E con le borgate. Quello della città (e dell’anti-città) è un discorso lungo, che Effe affronterà più a fondo nei prossimi numeri: cerchiamo qui di iniziare a capirlo, partendo proprio dalla borgata che è l’espressione più brutale della anti-città.
Dice Giuliano Prasca, dell’Uisp (il centro sportivo che organizza i corri-per-il verde, le lotte di quartiere per i servizi età): «Il disordine urbanistico trae origine da uno sviluppo economico sbagliato. Il disegno
dei seminatori di borgate, anche se attualizzato alle esigenze di oggi, rimane quello di anni addietro. Ad una crescente ricerca di occupazione, di case, c’è stata solo la risposta provvisoria delle baracche.
In questo senso Roma non rifiuta nulla a nessuno: ma questo accettare tutto e tutti è servito solo ai seminatori di borgate, per i quali un insediamento di baracche o case provvisorie significa un vero investimento.
Le lotte di quelle popolazioni per una rete fognante, l’acqua ecc. hanno oggettivamente valorizzato le aree. Così, in questo meccanismo di Roma-mangia-Roma, è cresciuta la città, si sono arricchiti i ‘signori del metro cubo’». La formula che può riassumere lo sviluppo di Roma è dunque in fondo quella applicabile alle metropoli latino-americane: urbanizzazione senza industrializzazione. La popolazione è aumentata enormemente, (con un incremento del 3% all’anno contro lo 0,8% dell’Italia) mentre quella attiva è di solo 900.000 unità (il 33%) e per di più in continuo calo. Il piccolo commercio conta 130.000 addetti, 110.000 ne ha l’artigianato, mentre l’industria (esclusa l’edilizia) ne ha solo 80.000. Gli impiegati statali e parastatali sono 270.000, cioè un quarto della popolazione romana.
La ‘città sbagliata’ (sbagliata naturalmente di più per chi vive nelle borgate — e sono 830.000 cittadini romani) nasce, come osserva il sociologo Franco Ferrarotti, «dalla tensione tra rendita e profitto». La prima, derivata dalla proprietà fondiaria e dal controllo dei suoli si contrappone al secondo, inteso come frutto di una programmazione razionale e di investimenti produttivi a media e lunga scadenza. E quindi in questa chiave — e non in chiave puramente estetizzante o moralista — che va letta la geografia delle baraccopoli romane, che si devono interpretare i geroglifici di un’urbanistica stravolta. All’origine del fenomeno borgate sta uno scarto oggettivo tra le esigenze degli immigrati e le capacità della struttura economi- co-produttiva di farvi fronte. Roma, con il suo assetto socio-economico di tipo levantino, con le sue attività terziarie sgangherate , offre a chi viene dal Sud o dalle campagne soltanto una rete di cento mestieri che confinano con gli espedienti, condizioni di lavoro aleatorie, provvisorie, scarse possibilità di inserimento reale; apparentemente accetta, di fatto esclude. Quella di Roma è la bonarietà dell’indifferenza, la sua tanto conclamata ‘apertura’ è noncurante accettazione dello status quo.
All’immigrato si permette di rosicchiare la crosta della torta dei consumi, gli si offrono le squallide compensazioni di un consumismo in tono minore (quello vero è riservato agli altri): la famosa storia dei
televisori nelle baracche, unico segno di uno status diverso, di un approdo alla città che in realtà non c’è stato.
La situazione urbana di Roma ha quindi le sue radici in un tipo di sviluppo subordinato alla rendita, che ha contribuito a mantenerla in uno stato di pre-capitalismo, a darle una fisionomia socio-economica già decrepita prima di essere industrialmente matura.
Aggiungiamo gli squilibri tra Roma e Lazio, tra aree montane abbandonate e fasce costiere congestionate (il crollo dell’agricoltura, il degradamento dei centri minori, tutti i noti squilibri del distorto sviluppo nazionale) e avremo una città che sembra crescere ma in realtà si gonfia: un ventre enfiato pronto a scoppiare. Non ‘fatalità’ quindi, ma Roma come prodotto di una complicità criminale tra interessi economici tradizionalmente dominanti e una classe politica che si è arresa ad essi senza condizioni (tranne per qualche sussulto episodico).
Il prezzo che la comunità paga è alto, davvero troppo perché si continui ad accettare di pagarlo. Quelli che pagano di più sono i bambini e le donne. A Roma il 60% dei bambini è affetto da malformazioni per mancanza di verde e spazi; naturalmente la media sale nelle borgate. La mortalità infantile nei quartieri popolari è tre volte superiore a quella dei quartieri bene, sette volte nei suburbi. Roma ha il ‘record’ dei bambini che muoiono travolti dalle macchine: in una città in cui nascono più macchine che bambini (10.000 macchine e 5.000 bambini all’anno, per l’esattezza) e in cui la strada è spesso l’unico campo da gioco, i bambini sono ‘selvaggina per il traffico’. Sempre nelle borgate si trovano i più alti tassi di epatite e di tifo: non c’è da stupirsi viste le condizioni igieniche (‘marrane , fogne inesistenti, il 15% delle case sprovviste di gabinetti e topi a volontà). Tutti i mali di Roma, in altre parole, nelle borgate ci sono ‘di più’. ‘Di meno’ ci sono invece le cose belle, gli stimoli, le gioie (quelle poche rimaste) della vita nel centro storico: per le borgate e i quartieri popolari ci sono i canyons di cemento armato, l’ossessivo schieramento dei palazzoni, lo squallore delle lottizzazioni abusive. Sappiamo che la mancanza di stimoli, porta ad un scarso sviluppo «Un quartiere monotono — dice il medico Roberto Javicoli — fa un bambino imbecille».
Per le donne la borgata vuol dire, come mi ha detto una donna della Casilina, ‘dolori doppi e fatica doppia’. Le donne della Casilina lavorano (quelle che il lavoro riescono a trovarlo dato che il tasso d’occupazione a Roma è meno del 21% per le donne) in gran parte a servizio, qualcuna ha trovato un posto come commessa, poche in fabbrica. Per chi lavora e ha figli, vivere in borgata significa alzarsi alle 5 di mattina per depositare i bambini all’asilo di Torpignattara, perchè alla Casilina non c’è; stare due ore sui mezzi per arrivare a Roma, veder raddoppiati i problemi della casa (non c’è mercato e bisogna accontentarsi di quel che c’è nei negozi locali o andare a Centocelle, non c’è farmacia notturna, non ci sono spazi-gioco per i bambini ecc.), sentirsi escluse da ogni vita sociale e culturale. Vuol dire quasi sempre vivere in una casa abusiva, con l’acqua che va e viene, le strade provvisorie, la fogna improvvisata (a questo proposito, si può dire che mezza Roma è abusiva; soltanto tra il 69 e il 73 si sono insediati 210.000 abitanti su 50.000 lotti abusivi; da notare che un lottizzatore abusivo viene punito con una pena massima di sei mesi di arresto e due milioni di ammenda, mentre chi ruba una cravatta al supermercato può avere anche tre anni d’arresto). «Qui o bevi o t’affoghi — dice la proprietaria di un bar a Grotte Geloni, 20° km della Casilina, da dieci in borgata, combattiva, lucida — ma io ho sempre cercato di stare a galla. Mi hanno messa qui? Ma io in città ci vado e ci porto i bambini: perché loro non devono vedere il Colosseo, perché non devono essere romani pure loro?». Sono ‘perché’ che in borgata cominciano a chiedersi in molti: i casi di ‘rifiuto’ di questa logica di rapina del territorio, di questa espulsione dalla città (cominciata, non a caso, col fascismo che aveva prelevato di peso i proletari dal centro storico, per far posto agli sventramenti grandiosi del regime), diventano sempre più frequenti. Basta aprire i quotidiani romani: ogni giorno c’è una mobilitazione per il verde, perché venga osservato il Piano Regolatore, per l’asilo, etc. Il dominio dei ‘signori del metro cubo’ comincia ad incrinarsi: la coscienza del diritto sul territorio si fa strada, anche se penosamente, anche se le difficoltà non sono certo da sottovalutare. Gli episodi di «guerriglia urbana» fanno parte di un lungo processo per arrivare ad un modo di vivere più umano di cui la riconquista della città è un aspetto. In questo processo il ruolo delle donne è decisivo ovunque, perché senza la presa di coscienza e la lotta delle donne non si arriva né ad una città ‘umana’, né ad una società diversa: questo non è uno slogan, ma un dato di fatto che è vero a Roma come in un paesino, in borgata, come in fabbrica. Perché, finalmente si comincia a capirlo, non esistono fronti separati di lotta per una battaglia che è unica: quella della liberazione dell’essere umano.