genova

caccia alle streghe a colpi di mitra

queste sono le testimonianze dal carcere delle compagne arrestate a Genova il 7 marzo scorso, durante un episodio gravissimo di repressione. Per continuare il lavoro di controinformazione e per la difesa delle compagne denunciate c’è bisogno di contributi finanziari da tutti. Inviate la vostra adesione, anche minima, a:
Mirella Castaldo c/o
Centro delle donne -Vico
San Marcellino, 10,
16124 Genova.
Tel. 010/297747.

aprile 1978

GENOVA:
8 marzo ore 0,3
-Cronaca dei fatti:
-Nella serata del 7 marzo piazza De Ferrari, la piazza principale di Genova, è tappezzata da decine e decine di manifesti e di scritte femministe.
-Appena passata la mezzanotte, ci sono molte donne in piazza (alcune delle quali avevano attaccato manifesti e fatto scritte murali), sedute intorno al bordo della fontana: si parla, si discute il nostro lavoro svolto nei collettivi nei mesi passati, le prospettive e i problemi attuali.
-Improvvisamente arriva una volante: due P.S. balzano a terra, afferrano per un braccio una compagna che, seduta a chiacchierare, nemmeno li ha visti, e la trascinano brutalmente verso la macchina.
-Le altre donne si alzano in piedi, ma non hanno nemmeno il tempo di chiedere spiegazioni che i due P.S. imbracciano mitra e pistole e iniziano a sparare (non solo in aria, ma anche ad altezza «d’uomo») urlando insulti come forsennati.
-Comincia una allucinante sequenza di violenza poliziesca e maschilista: dopo alcuni attimi di stupore, le donne si allontanano di corsa, inseguite da colpi di mitra, alcune vengono fermate e malmenate in piazza, (nel frattempo sono arrivati «rinforzi») altre nei vicoli da poliziotti in borghese con le pistole in pugno. Alcune compagne per l’indignazione e la solidarietà con quelle fermate, decidono di avviarsi spontaneamente in Questura.
-Gli insulti degli agenti, in divisa e non, si sprecano: in Questura uno in borghese entra nella stanza dove sono le compagne e si mette a sghignazzare: «tutti i genovesi contro il femminismo» e altre provocazioni simili. — In conclusione la «giornata della donna» a Genova inizia con 19 compagne denunciate per: «violenza, resistenza aggravata, lesioni a Pubblico Ufficiale, imbrattamento di suolo pubblico e affissione abusiva»; di cui 7 sono trattenute in arresto per 7 giorni e saranno liberate solo il lunedì successivo, dopo una grossa manifestazione femminista.
TESTIMONIANZE DA MARASSI: 8 marzo 1978 ore 0,30/18,30
Siamo in piazza, sparano, spara raffiche di mitra e non ho paura: siamo irritante, siamo unite. Ne prelevano alcune per portarle in questura. Ci vado anch’io, spontaneamente: se saremo in tante, se saremo unite passerà la paura Poi prendono i documenti di 6 di noi (come siamo diventate 7?) e li portano via a parte. Sono quasi le 4 del mattino quando capisco che le altre andranno via e noi 7 no. Mi viene il gelo, la morsa allo stomaco, il rifiuto, la paura l’io non c’entra, la rabbia contro le altre libere. Sono fottuta; perché proprio io? xy mi parla: mi elenca le «conoscenze» della sua famiglia, gli «enormi» e «innumerevoli» motivi per, cui sarà libera tra poco: mi identifico, mi fa pena, mi faccio pena, mi faccio schifo.
Dura circa un quarto d’ora: lungo, pesante, mi lascia con lo stomaco contratto e di piombo. Cerco tra le’ 7 volti noti: è solo un attimo questa ricerca, che poi mi lascia stressata. Ore 5: in guardina. Ci tolgono tutto, anche l’orologio. Siamo su un tavolaccio di legno con coperte luride e bucate che non darei ai miei «bambini» (animali) perché troppo ruvide. Non guardo il cesso: me l’immagino e mi basta così. Sui muri è tutta una scritta; non voglio leggere, voglio dormire. Mi trovo a pensare: il tavolo del salone della Questura e noi a fumare come disperate; il mio rifiuto a cedere anche una delle ultime 3 sigarette e poi… che mi dà un pacchetto di MS in corridoio. Di chi sono le sigarette che ora fumo? Leggo una scritta: «Mai più senza il fucile» e sento che è importante, Ma che cosa è il fucile per me che non voglio sparare? Donne, compagne, amiche, sorelle, dove siete, dove siamo? Ecco, sono tornata con loro e mi ritorna la forza, sento che anche se ci hanno diviso, non ce la faranno mai, almeno con me, a spegnere la scintilla che la «politica» femminista ha acceso in me, forse diventerà una fiamma, chissà? Sento che la storia del fucile è importante. Parlo con…, uscirà tra poco e posso mandare un messaggio alle altre: la nostra ribellione è contro il sistema ed anche se è a livello verbale, di manifesti, suscita la violenza del sistema che combatte i nostri contenuti rivoluzionari. Dobbiamo far sapere questo a tutte le donne, coinvolgerle. Lo dico a… e sono più tranquilla. Poi la schedatura. Le domande, le foto, le impronte (quante? mi è sembrato di avere, venti mani), la cordialità degli agenti che è subdola come il sole: «Mi hanno, sparato stanotte? Chi ha sparato?». Dico loro di non prendermi in giro, mi sento trattata da idiota: forse si aspettavano di trovare una donna spezzata dopo la notte in guardina, ma io mi sento una non di sette, ma di migliaia e sono solo caduta, stanca, non mi sento spezzata. «Avevate una tenda a De Ferrari?»… penso al campeggio, a questa estate in Calabria, alla mia alla nostra voglia di vivere libere, alla voglia di mare. Incontro… e… in visita. «Ciao, bambina» mi dice… ed io sento caldo (finalmente) allo stomaco contratto, che sembra rilassarsi e so che ora devo delegare alle altre, a quelle fuori il mio «essere donna»: non l’hanno rinchiuso nella guardina, mi hanno costretto solo a delegarlo finché non esco. E sento che ho fiducia: le donne che sono fuori, le donne che sono io, non piangeranno soltanto, lotteranno con me per me e per tutte, quelle di dentro e quelle di fuori: forse non ci hanno neppure piegato, ci hanno svegliato dal letargo, dove sembravamo essere cadute.
Oramai è certo: noi 7 andremo a Marassi. Mi portano dei vestiti: quelli che ho chiesto a… e… Alle 13 ci portano col cellulare: noi 7 + 2 uomini. Siamo all’accettazione, all’ufficio matricola. Ancora domande, ancora impronte digitali, ancora foto. Ho visto la lavagnetta contro il muro e l’Agente che scrive il numero e poi fotografa l’uomo ubriaco, prima di faccia e poi di profilo. Adopera il flash perché è una stanza senza luce (da quando mi manca il sole?). Mi esplode qualcosa dentro: un numero su una lavagna e la mia faccia, il mio profilo, davanti, come allo «straccione ubriaco», Vorrei fuggire, vorrei urlare l’equivoco, vorrei essere una «signora» con un marito, dei figli, la televisione, lo shampoo Dop… Subisco le foto, sono in tilt completo. Ci preleva una suora: è gentile, ma io sono solo un automa. Ci divideranno in 3 celle: a me tocca andare con…, ma io sono un automa, dentro, solo dentro, perché fuori sembro ancora forte, ancora una persona. Mi perquisisce una suora, per fortuna sono un automa e non sento il suo frugare, il suo indagare anche sotto le mutande. Ci portano in cella. È quasi una reggia dopo la guardina. Non so: perché sono un automa? Guardo le altre donne: una mi sembra una «signora» e le chiedo «perché sei dentro?». «Legge Merlin», ci dice. Per la prima volta sento che sono veramente uguale alle altre, perché in un mondo che non permette a noi donne di «essere» è mistificante giudicare il «mestiere» nel quale comunque non ci esprimiamo. Il mio intellettualismo di merda, che mi faceva guardare gli abiti attillati ed il trucco Pesante delle «battone» e che mi faceva dire «sono come me» Ora non lo dico, non lo dirò mai più, perché sento che le mie cosce ed i miei occhi e la mia fica sono uguali alle loro. Perché è necessario provare sulla pelle certe cose per «sentire» al di là di «capire»? È importante affinché le altre mi diano la capacità di sentire quello che io non ho provato sulla pelle e mi impediscano di capire soltanto. Non voglio più «capire»: compagne, bisogna che «sentiamo» per essere uguali e se saremo tutte uguali la repressione non ci sconfiggerà e la paura morirà perché non possono chiuderci dentro tutte, non possono tappare la bocca a tutte. Avete capito, compagne, perché vi ho scritto che anche voi siete state in vacanza con me? L’avete capito. Nel telegramma inneggiate alla nostra filosofia: un filo ci lega ed è un cordone che non si taglia, perché è dentro di noi. Farete una manifestazione per noi. È per noi e per voi e per tutte le donne che sono dentro e avrete il fucile: non lo lasceremo più. Il nostro fucile è l’essere donna è l’essere uguali è nel non farci dividere. L’arma del sistema è la divisione, la schedatura e nella schedatura la divisione della divisione: la paternità, l’età, la professione, il delitto, l’essere dentro, l’essere fuori, l’essere segnalata, schedata, condannata, incensurata, arrestata, battona, eroinomane, brigatista, femminista, pazza… Lo sapevo anche prima, ma ora lo «sento», ora lo dovremo sentire tutte e se avremo la forza di confrontarci su questo, forse sconfiggeremo insieme il dover sentire provando sulla pelle.
Dall’8 al 13 marzo da Marassi.
Questa sera ognuna di noi ha ricevuto, tra la marea di pacchi e corrispondenza, persino un telegramma di Franca Rame; chissà come si sentono diverse da noi le altre detenute. Questo pomeriggio abbiamo parlato per la prima volta con l’avvocato, finali-mente; ne è seguita un’animata discussione tra noi, ci siamo messe in un angolo del cortile, staccate dalle altre, per poter parlare, le altre erano sedute tutte in fila sulla difronte panca di pietra, attaccata al muro. Dopo un po’ che discutevamo animatamente, immerse nel nostro problema incuranti delle altre, ho sentito una di loro che diceva ad una suora, in tono di protesta e di delusione: «Se ne stantio lì e parlano da sole». Il giorno prima avevamo chiesto alla suora se era possibile disegnare e colorare il muro del cortile, alle donne questa idea era piaciuta (naturalmente questa richiesta non è stata concessa). Io avevo promesso ad una vecchia che avrei scritto per lei una lettera e le avrei insegnato a scrivere. Che intellettuali di merda siamo! Nel mezzo di un nostro discorso di dinamiche interne, di insicurezze, di fissazioni, sentiamo delle grida disperate. Cosa nascondono queste grida disperate? chi grida? quanto dovrà stare in galera quella che grida? mah! Questa mattina ho trascorso buona parte della libera uscita con la vecchia che mi ha raccontato la sua storia. Si chiama Martinisa Maria Cristina, 78 anni ma ne dimostra molti di più: «Sono andata al porto perché la pensione è minima, ho preso per terra il caffè che cadeva dai sacchi. Mi hanno presa, mi hanno preso il caffè, mi hanno fatto 300.000 lire di multa (ne ho già pagato 20.000 a 5.000 al mese) e in più mi hanno dato due mesi di carcere. Sono molto malata, ho il diabete, il cuore ammalato, la vena della spina dorsale schiacciata, dovrei farmi un busto ortopedico che costa 80,000 lire. Non posso mangiare il cibo del carcere perché sono senza denti. Quando ero fuori i finanzieri mi davano da mangiare ogni giorno perché sono povera». La sua frase ricorrente era: «I mariuoli sono fuori e dentro c’è la gente brava».
L’ho aiutata a rileggere e a fare delle aggiunte nella lettera che aveva scritto per lei la maestra del carcere, eravamo nell’aula della scuola, di fronte alla maestra che palesemente ironizzava e discreditava tutto quello che la vecchia mi diceva, alludendo al fatto che questa aveva dei precedenti. Chissà quali delitti aveva commesso una vecchia povera che scriveva ad una amica di ritirarle la pensione di due mesi (30.000 lire per un figlio morto)… Sono in prigione ma mi sento non meno libera di quando sono fuori, di quando sono a casa. Qua sento la limitazione della mia libertà in modo fisico: siamo chiuse in una cella piccola, ci chiudono la luce da fuori quando è l’ora, (benché ci siano delle suore che cercano il più possibile di favorirci), le ore di aria consistono nel fatto che possiamo andare da una cella all’altra o che possiamo andare in un cortile limitatissimo da muri alti ed è talmente triste che le detenute preferiscono stare nei corridoi. Quando scendo in cortile gli occhi mi fanno male. Oggi abbiamo provato a cantare ma la superiora ci ha fermate perché il regolamento non lo permette.