caraRAI

ottobre 1974

L’eco ormai si è spenta: l’esclusione della titolare della I rubrica, Elena Doni, autrice di questo articolo ha perso il suo slancio di denuncia ma non ha perso il suo valore sopraffattorio. Elena Doni dovette lasciare la rubrica dopo aver parlato dello sciopero delle femministe a Piazza Navona. Non nominò neppure la parola aborto ma già la notizia di per sé bastava per suscitare timori fra superburocrati della disinformazione di viale Mazzini. Eppure la rubrica non era certo «rivoluzionaria»: ma forse lo erano già le lettere che Cararai riceveva e riceve quotidianamente. Una rivolta che serpeggia può far paura. Vedremo ora quale spazio verrà lasciato alla nuova curatrice, la quale si troverà sul tavolo altre denunce, altri problemi «femministi» nell’essenza anche se non lo sono nella forma, come sono quelli che pubblichiamo.
«A.A.A. cercasi ragazze coraggiose,
moderne, di ampie vedute, stufe della condizione di «brave ragazze», per portare avanti il discorso, ormai sempre più necessario,- della parità dei diritti e doveri tra maschi e femmine. Spiegami un po’, Elena, perché una ragazza non può, di sua iniziativa, «attaccar bottone» con un uomo senza passare per una sfacciata e avventuriera agli occhi stessi di quell’uomo. Spiegami un pò perché «lui» può uscire con quante donne vuole, guadagnandosi così l’ambita fama del «dritto», mentre se «lei» esce con due diversi uomini viene bollata col marchio a fuoco di «poco di buono?». Questo l’inizio della lettera di Riccarda, arrivata qualche tempo fa a «Cararai», una fascia radiofonica che ho condotto per un anno e mezzo insieme a Franco Torti (e curavo con Torti e Franco Cuomo) e che, come suggerisce il titolo, nasce dalle lettere degli ascoltatori. Poiché il tessuto connettivo della rubrica è la musica leggera, queste lettere chiedono in gran parte (il 65%, per l’esattezza) l’ascolto di una o più canzoni, ma per il restante 34,5% chiedono anche e soprattutto di parlare: raccontare di sé e delle proprie idee, polemizzare con quelle degli altri, o semplicemente chiedere informazioni e consigli.
La lettera di Riccarda (quattro facciate di scrittura minuta e ordinata) prosegue con un’appassionata perorazione dei temi femministi: «Donne svegliatevi!!! Aprite gli occhi, basta dire «sì» al padrone — ma lo sapete che «lui» è come «lei?» Ve ne siete mai accorte? è ora di finirla di farsi appiccicare nude su tutti i muri per reclamizzare pneumatici, è ora di smetterla di farsi strumentalizzare per il denaro di «lui»; il denaro di «lui» è esattamente uguale al denaro di «lei»: certo che se non trovate il modo di farlo onestamente, non vi sembrerà mai uguale… Vi sembra giusto che esistano ancora di quegli uomini che ci fanno sfornare un marmocchio all’anno per dieci anni (se tutto va bene)? Vi sembra giusto che ci siano quelli che ci mettono nei guai e poi per cavarsela ci fanno morire sul tavolaccio di un macellaio?… Non dico poi quello che succede quando in una compagnia mista una se ne esce a dire «sono femminista»! Risate, scherno, battute, incomprensione, smorfie che vogliono dire «che schifo!». Questa lettera, di cui abbiamo letto i punti salienti al microfono (omettendone, ciò che era inevitabile nell’azienda di stato, la parte relativa all’aborto), anche se non ha provocato la formazione di un battaglione di ragazze coraggiose «pronte a portare avanti il discorso», è tutt’altro che un caso isolato. Direi anzi che l’argomento femminismo mi è scoppiato tra le mani a «Cararai».
Ho usato il singolare, nonostante avessi al fianco anche un partner di sesso maschile, per la buona ragione che, quando arrivai al microfono nel gennaio del 73, ero convinta — pur avendo fatte mie certe ideologie fin dal 1959, anno nel quale lessi «Il secondo sesso» di Simone de Beauvoir — che il femminismo fosse un argomento privo di risonanza e forse addirittura irritante in una fascia radiofonica di largo ascolto e destinata ad un pubblico indifferenziato. Conflitto — il mio — del resto non dissimile da quello di certa sinistra, convinta della bontà degli argomenti del femminismo, ma anche della sordità delle masse a quelli che ritiene ancora problemi borghesi. Ebbene, per quello che mi riguarda, devo dire che mi ha fatto piacere accorgermi di essere in errore.
Purtroppo non ho censito e ordinato tutte le lettere sul femminismo arrivatemi a «Cararai» (sono tuttavia conservate in archivio, se mai un giorno venisse a qualcuno la curiosità di esaminarle): ma possiamo dire — e qui può testimoniare l’intera redazione — che queste lettere sono in continuo aumento e che toccano sia i temi classici del femminismo in genere, sia i moduli di comportamento sui quali ha influito un nuovo senso di dignità e di responsabilità dell’essere donna. Vanno, in altre parole, dal grande al piccolo, dall’ideologia alla prassi quotidiana, vengono dalle grandi città del nord e dai paesi del sud, sono in massima parte scritte da donne giovani, studentesse, lavoratrici, casalinghe. Un argomento su cui tutte sono d’accordo è il rifiuto della vita di ‘talpa domestica’ (la definizione è di Mairella, 16 anni, di Modena): le lettere sono comunque più arrabbiate che lacriminose ed il fatto che chi scrive è in prevalenza giovane ci salva dagli esercizi di psicoterapia di gruppo in cui è così facile cadere quando si sfiorano argomenti che toccano da vicino il nostro io. L’anno scorso una giovane mamma di Parma ci scrisse mandandoci un quadretto di felicità domestica degno di un film di Doris Day: la sua giornata si dipanava in un lieto susseguirsi di faccende fino al rientro del marito, stanco e nervoso, ma accolto con le immancabili pantofole e il sorriso sul volto. Letture, dialogo, ideologie, protesta o semplice parità non erano mai penetrati in questo mondo caramelloso: e la giovane mamma di Parma non poteva capire come mai tante ragazze «si agitano» quando la felicità è dietro l’angolo, o meglio, dietro la porta di casa.
Leggemmo questa lettera in trasmissione, limitandoci a sottolineare che era il primo esempio a noi capitato di una donna che si sente pienamente realizzata nel mestiere di casalinga. Le risposte delle ascoltatrici furono invece così violente e sarcastiche che la giovane mamma riscrisse chiedendo pietà: forse — diceva — si era lasciata trascinare dall’entusiasmo di un giorno e non era poi tanto sicura di aver trovato la sua completezza nel microcosmo familiare. Nei piccoli paesi la vita di relazione è tutta in piazza, metaforicamente e non: amicizie che nascono, solidarietà che si cementano, amori che s’incrociano, mode che passano. Le comari vedono e commentano, giudicando tutto con il loro metro di cinquanta anni fa. Umberto Eco ha osservato che l’inclinazione delle donne al pettegolezzo ad altro non è dovuta che alla condizione repressiva in cui esse si sono trovate a vivere per millenni e che le ha costrette ad identificare la sfera privata con l’unica sfera in cui potessero agire. Mentre al maschio infatti era delegata la gestione della cosa pubblica, dove l’esercizio della critica diventa attività politica, alla donna è stata affidata la gestione della cosa privata, dove critica e comunicazione scadono a disprezzato pettegolezzo. Ma il pettegolezzo risulta irritante all’uomo, insopportabile ai giovani: ce ne siamo accorti quotidianamente a «Cararai» perché non c’è lettera proveniente da un piccolo centro che non denunci la presenza di queste comari oziose e criticone, prodotto di una società antifemminista e ben decise a perpetuarla nelle nuove generazioni. Ecco invece come vede la vita di relazione una giovane donna di Roma: la lettera, firmata con nome e cognome, è stata scritta il giorno dopo la festa di S. Giuseppe, giorno in cui, verso le 22, il divieto di circolazione fu revocato in seguito alle aggressioni fasciste ai mezzi pubblici verifica- tesi in diversi quartieri. «.. Ero uscita per cercare di ripescare un militare per strada: non volevo che il mio uomo finisse in C.P.R. per un ritardo, e così ho dato due passaggi in macchina: il primo a una coppia, lei era visibilmente stanca e zoppicante sui tacchettini, lui camminava con aria da padrone. Dopo che avevamo fatto un pò di strada e scambiate alcune impressioni ho scoperto che lui non era favorevole allo sciopero ma piuttosto alle aggressioni. La moglie cercava di quietarlo. Aveva paura che li lasciassi a piedi! Il secondo passaggio l’ho dato a un uomo giovane e a un piccolo cucciolo di mastino napoletano. Ora tutti mi hanno stigmatizzato perché ho dato questi due «strappi». Ora, io dico, d’accordo viviamo in tempi bui, ma sono probabilmente più bui perché la megalopoli e altre cose non facilitano certo il buon vicinato! E poi io sono cino-fila e femminista: mi dà fastidio vedere un cane o una donna tirati al guinzaglio. E ora le domande: 1) retorica: ho fatto bene a dare i passaggi? 2) vera: quale dei due guinzagli è il più reale?».
L’amore prima del matrimonio è un soggetto che ha suscitato una pioggia di lettere ogni volta che vi abbiamo accennato: e «accennato» è proprio la parola giusta, dato il mezzo attraverso il quale avviene questo colloquio: l’anno scorso, per esempio, abbiamo girato agli ascoltatori la domanda di una ragazza veronese che ci chiedeva «cosa ne pensate dell’amore a quattordici anni?». Data l’impossibilità di chiarire cosa si intendeva per amore, è andata a finire che alcuni hanno capito amore nel senso più completo del termine, ma non poche ragazzine hanno risposto come se il problema dei rapporti fisici non fosse neppure in questione. è curioso viceversa notare come la censura di certi termini avviene solo nella fase di uscita di notizie, non in quella di entrata. Così alla pur casta «Cararai» sono molti e molte quelli che scrivono dicendo pane al pane e imene all’imene.
L’ultimo esempio di polemica sui rapporti prematrimoniali, prima che la vigilia del referendum ci limitasse a parlare di calcio e di beltempo, nacque da una lettera di una certa Rosanna di Manfredonia la quale aveva dichiarato la sua intenzione di avere prima del matrimonio due ragazzi o tre e non più, per non rovinarsi la reputazione, e di avere inoltre programmato il matrimonio non oltre il ventesimo anno. Ed ecco come le ha risposto Linda di Padova, 21 anni: «Per la cretinata del discorso che ha tirato fuori Rosanna non basterebbero dieci fogli come questo per scrivere tutto ciò che c’è da dire… Perché per un uomo avere avuto 256 femmine dovrebbe corrispondere ad un vanto, mentre per una donna significa essere puttana… E poi, dico io, vi sembra corretto e onesto dire che ci vogliono un paio di ragazzi al massimo, solo per poi farsene un vanto e poterlo dire e non per intima convinzione personale, perché si è convinte che è così che si deve agire. Rosanna assomiglia a tutte quelle ragazze che usano i maschi in tutti i modi, concedono loro qualsiasi cosa, all’infuori della vagina perché così sono «vergini»… Il comportamento amoroso non deve essere misurato con due diversi morali, a seconda di che sesso si appartiene,
perché è una boiata solenne… lo so che esistono individui e questi individui si dividono in Uomo e Donna, ma sopra ogni cosa al mondo si è individui, quindi per favore, signori maschi e uomini, le donne guardatele come esseri umani che fanno parte di una società, non solo ed esclusivamente come femmine». Ed ecco il parere di Cristina di Molfetta, in provincia di Bari, sedici anni, alunna del quarto liceo scientifico: «…Ritengo questa Rosanna una ipocrita e i ragazzi che giudicano a questo modo dei poco intelligenti che soltanto quando fa loro comodo dicono di essere diversi dai loro nonni… Per me la donna in genere deve fare le sue esperienze. Non penso assolutamente che la prima persona che capita sia quella fatta su misura (se lo è, meglio) quindi, perché continuare con una persona con cui non si crede di poter avere un vero e serio rapporto e che magari si sopporta a stento? E se esistono ancora dei ragazzi che fanno certe affermazioni, sta a noi ragazze che la pensiamo in modo diverso farli cambiare, far capire loro che il più delle volte i matrimoni sbagliati avvengono a causa di fidanzamenti sbagliati». Non tutte le lettere sono, però, così ottimiste: ecco la voce di Diana ’57: «I ragazzi di oggi sotto una voluta apparenza di anticonformisti e moderni con un’intelligenza aperta, nascondono una mentalità ancorata a pregiudizi a dir poco ottocenteschi. Il ragazzo rifugge quando può la conquista facile perché sminuisce il suo retaggio primitivo: quello dell’uomo cacciatore e della donna preda». E quella di Daniela di Rimini: «Vi scrissi esattamente un anno e due mesi fa: allora ero una femminista convintissima e pazzamente innamorata: ora non sono più innamorata e piuttosto delusa avendo avuto la riprova che l’amore è un fiore troppo difficile da coltivare e soprattutto da tenere in vita, però sono ancora una femminista sempre più convinta. A voi sembrerà una conseguenza logica, ma l’apparenza potrebbe tradire.
In fin dei conti avrei potuto abbandonare le mie idee di donna emancipata e fare a meno di contestare aggressivamente le sue idee di uomo tradizionale, retrogrado, conservatore anche se voleva mostrarsi l’opposto di tutto questo. Sai, Elena, cosa ho dedotto? Che l’uomo, in generale, è come i preti: predica bene e razzola male.
Un’altra voce, quella di Patrizia (senza data), a proposito di un episodio marginale: Roberto Gervaso, nel presentare a «Cararai» la nuova rubrica «L’uomo della notte» di cui è stato il primo animatore, disse che non c’era donna che non capitolasse davanti a un mazzo di rose rosse. Ed ecco le parole di Patrizia: «lo credo che questo Gervaso delle donne sappia ben poco. Mi meraviglia che uno scrittore sia così pieno di luoghi comuni riguardo alle donne. E poi le donne non sono «fortezze da espugnare» ma donne e basta. Gervaso di mostra di essere in questo campo «lievemente» imbevuto di retorica». Potrei continuare ancora per molte pagine a citarvi lettere di ascoltatrici femministe, scritte da donne semplici o da ragazze preparate, buttate giù in un impeto di rabbia, o dopo aver profondamente
assimilato precise ideologie.
L’importanza, mi sembra, era di far sentire la voce di tante donne che, a volte per timidezza, a volte per pigrizia, non si qualificano femministe militanti e tuttavia portano e diffondono nella società idee rivoluzionarie rispetto a quelle che informarono la vita delle loro madri.