c’era una volta julia margaret cameron

«ha cinquant’anni, sei figli, dei nipotini, un marito dalla lunga chioma bianca. Fa la fotografa. È la seconda metà dell’Ottocento. Certo le persone in cui lei s’imbatteva dovevano trovare alquanto strano che una lady in quei tempi di pesante conformismo avesse sempre le mani sporche degli acidi che usava per le foto il cui puzzo si portava costantemente dietro».

luglio 1978

«lo studio era scomodo, e disordinato… Ha inizio la posa: dopo un minuto sentivo il bisogno di urlare, dopo due minuti, credevo che gli occhi mi schizzassero. La signora Cameron mi aveva messo una corona in testa… La signora mi aveva avvisata che la faccenda sarebbe stata lunga, aggiungendo con un ingrugnito brontolio che era quello il solo inconveniente delle lastre di grande formato… Al terzo, minuto ero ormai persuasa che sarei rimasta paralizzata alla nuca, al quarto la corona troppo larga cominciò a scivolare sulla fronte. Fu a questo punto che rovinai la posa perché il signor Cameron cominciò a ridere fragorosamente: era già vecchio e all’improvviso veniva colto da attacchi di ilarità. Scoppiai a ridere anch’io..». (Racconto di una cliente).
C’era una volta Julia. Margaret Cameron.
Ha cinquant’anni, sei figli, dei nipotini, un marito dalla lunga chioma bianca. Fa la fotografa. È la seconda metà dell’Ottocento.
C’è festa, come ogni sera, a casa Cameron. I giovanissimi bevono acqua e brandy, lei ha un cappello a cono, un velo e vari mantelli, il poeta amico declama versi, il prato fuori è stato decorato. Un mestiere, quello del fotografo, senz’anima e senza spirito – commentavano i più – quando l’invenzione dell’apparecchio fotografico era cosa recente e il poeta Lamartine aveva sentenziato: «Un’invenzione che non sarà mai arte, un plagio della natura da parte dell’ottica». Ma poi, col tempo, si convinse anche lui della grandezza dell’avvenimento ed entusiasta esclamò:, «È un fenomeno recente in cui l’artista collabora col sole». Intanto artisti mancati, incisori, commercianti dallo spirito avventuroso aprivano studi o giravano per la città con un carrettino attrezzatissimo. Il desiderio di farsi fotografare conquistò un pò tutti tanto da diventare una mania… enfasi e dignità.
Ecco statuari in pose che garantivano la massima rispettabilità tutti i bravi borghesi. Baudelaire, che ce l’aveva con loro così commentò la smania del momento: «La società ignobile vi si precipitò come un solo Narciso, a contemplare la propria volgare immagine sul metallo».
Una donna che nell’800 si a far fotografie, quando si guardava a quella macchina che riproduceva paesaggi, persone, cose, con immenso sospetto come a qualcosa di straordinario sì, di magico sì, ma certamente e anche di satanico, macchina diabolica che aveva prepotentemente offuscato la fama dei ritrattisti rimasti, ahi noi! senza lavoro. Beh! doveva essere una donna stravagante: Julia Margaret Cameron lo era.
Era eccentrica, ottimista, generosissima; entusiasta, selvaggia.. in tempi «severissimi»: vittoriani. Non amava le cose semplici e banali ma solo ciò che era «di più». Divideva a metà il suo scialle se un’amica osservava che era grazioso. Faceva muri e ordinava la costruzione di un’ampia finestra se pensava che per l’ospite la stanza era buia. Si cimentò in odi, prosa, racconti. Ricchissimi di tutto, carichi di superlativi; «vive di superlativi come del pane quotidiano’» commentava un amico inondato dai suoi scritti. A tutti, amici e parenti scriveva lunghe, appassionate lettere. Ed era del tutto inutile che qualche ospite di casa sua, come raccontano le cronache del tempo, si affannasse a gridare durante i suoi party: «C’è qualcuno di conformista qui dentro?», La cerchia di persone che Julia Margaret gradiva doveva disprezzare le convenzioni ed essere «intensa», come voleva anche un certo gusto d’epoca che si andava affermando. Doveva amarla nei suoi vestiti rosso fuoco poi sostituiti da abiti scuri, e nelle sue follie.
Nel 1830 aveva sposato, un filosofo e giurista del sistema legale indiano da cui ebbe 5 figli maschi ed una femmina. La fotografia rappresentò per lei, che vi si accostò quasi per caso (un regalo del genero e della figlia), ed in età avanzata (era il 1865: aveva 49 anni) un eccezionale approdo .In un attimo, lo stanzino del Carbone divenne la camera oscura, il pollaio il suo laboratorio: finalmente un rifugio dove creare («Quando ho di fronte una personalità cerco, con tutta l’anima, di conservare nello stesso tempo i tratti palesi è la loro fisionomia interiore». Fotografò uomini famosi del suo tempo: scienziati, poeti, pittori. Charles Darwin, lo studioso dell’evoluzione della specie, si lamentò con lei per via delle occhiaie che il ritratto fotografico esattamente riproduceva.
Fotografò tutti i parenti, più tutti gli amici, più una schiera di gente qualunque fotografata per la strada. Componeva figurazioni di storie antiche simili ai quadri cercando fra la gente re Artù e principesse. Certo le persone in cui lei si imbatteva dovevano trovare alquanto strano, in quei tempi di pesante conformismo, che una Lady si vestisse così malamente: le mani sempre sporche dagli acidi che usava per le foto, il cui puzzo si portava costantemente dietro. Non, parliamo poi, di quando correva alla stazione e attaccava nella sala d’aspetto, un pò dappertutto, le sue ultime creazioni e ai facchini chiedeva: «Per pochi spiccioli volete comprarle?».
«Voglio arrestare la bellezza» diceva del suo lavoro. Lei, a differenza dei fotografi del tempo, non faceva ritocchi. «Potrei farli ma la foto non va ritoccata» sosteneva. Si discuteva molto su questo problema anche se la società francese di fotografia aveva sentenziato: «Chiamare il pennello in aiuto della fotografia col pretesto di introdurre l’arte, è fare esattamente il contrario». Le lenti erano allora imperfette, la preparazione dei bagni di sviluppo e di fissaggio richiedeva conoscenze chimiche particolari. Il procedimento era tutt’altro che semplice. Servivano poi lunghe pose: lei era particolarmente esigente nelle sue richieste, qualche lady a volte brontolava ma la Cameron immediatamente la Zittiva. La sua tecnica non stereotipata non fa ritocchi, come si è detto, se c’era qualche macchia nella foto non la toglieva, scattava quando l’immagine la soddisfaceva senza curarsi tropo della precisione della messa a fuoco, preferiva i primi piani avvicinati, era da più d’uno criticata: «I contorni sono troppo sfocati… gli effetti così alla Rembrandt!».
Fece un superbo ritratto alla sua cameriera mentre i suoi, sempre numerosi ospiti, aprivano la porta. Avvolge di tappeti il poeta, mette una corona di latta in testa al giardiniere e, fermo lì… Clic!
Col passare del tempo il marito della signora era sempre più triste, non diceva nulla, ma lei capì che desiderava tornare a Ceylon dove avevano, a lungo vissuto, tra le scimmie e gli elefanti. Così Julia Margaret l’accontentò: partirono, lui con il suo cappello e bastone, lei con una rosa in mano e fra tanti bagagli, se veritiero è il racconto di Virginia Woolf (Virginia è la figlia di una nipote della fotografa ed è in gran parte grazie a lei che conosciamo i mille divertenti episodi di Julia Margaret), portarono con loro due bare. Furono molto previdenti. A Ceylon la signora Cameron si spense nel 1879.