delizie di una educazione cattolica

febbraio 1976

sedici anni in istituto. Un istituto di suore che a quel tempo era considerato uno- dei migliori ma che a me è stato niìf che sufficiente per delinearmi un carattere pessimo, indifferente, diffidente scostante, insicuro, incoerente. Scrivere una testimonianza su cosa sia la vita all’interno di un collegio, non è’ che mi piaccia molto., perché penso che non serva a niente: né a cambiare la situazione di chi ancora è dentro né a portare ohi è fuori ad interessarsi al problema se non per fini strettamente politici, demagogici ma mai sociali o umani.

Sono entrata in quella bolgia quando, morto mio padre, l’assistente sociale dell’ENAOLI (superbo ente!!!) ha aperto e praticamente chiuso la mia pratica di avente diritto all’assistenza. Avevo 4 anni e ne sono uscita a 20 quando cioè avrei dovuto inserirmi nella così accogliente società che per tanto tempo aveva pensato a me, al mio mantenimento e alla mia crescita fisica, ma soprattutto alla mia formazione morale, isolandomi e assicurandomi alle cure di donne materne, caritatevoli, piene di buona volontà.

Non mi ci volle molto a capire che dietro quell’abbigliamento così buffo e particolare delle suore, si nascondeva spesso una donna frustrata e aspra che vendicava la sua solitudine su chiunque le fosse affidato. I punti cardine di quell’istituzione erano: la preghiera, l’obbedienza, la sottomissione. Naturalmente regnava sovrana e indisturbata la menzogna. Ognuna di noi, dopo poche settimane di vita lì dentro, imparava l’arte della sopravvivenza che era determinata unicamente dalla finzione. Si cominciava la giornata con le preghiere del mattino, dopo la brusca sveglia di una suora qualunque (ed i guai più brutti erano per quelle che facevano la pipì a letto!) Poi la messa, interminabile nella semioscurità di una chiesa interna, aspra d’incenso. All’inizio e alla fine di ogni schifosissimo pasto c’era la preghiera: si ringraziava Dio perché a noi dava la possibilità di mangiare più volte al giorno ma le suore non mangiavano con noi e tutte sapevano che il loro menu era ben diverso dal nostro! Avrei pregato molto più volentieri se, almeno una volta, un angelo venuto all’improvviso mi avesse risparmiato uno di quei piatti, Si pregava ancora a metà pomeriggio: i famosi vespri duravano una ventina di minuti e chi parlava durante la funzione sarebbe stata poi duramente punita. Le preghiere finivano quando si andava a letto con il ringraziamento al Padre eterno per la bella giornata trascorsa e soprattutto la domanda del perdono per tutti i peccati commessi, previo accurato esame di coscienza a volte a carattere inquisitorio.

Le caratteristiche di queste preghiere erano due: il ringraziamento per tutto quel che si aveva, sempre immeritato e mai dovuto, e il perdono per tutti quei numerosi peccati che le suore a tutti i costi ci rimproveravano. Non esisteva l’innocenza in collegio: tutto era premeditato, cattivo, duramente provato. Non esisteva l’amicizia né l’affetto ma ogni rapporto determinato dal rendiconto, dall’opportunità che si sarebbe ricavata. Ognuna di noi si doveva ben guardare dal raccontare all’altra quel che pensava perché tutte ci potevamo trasformare in potenziali spie e tutte, in un modo o nell’altro, cercavamo di «arruffianarci» questa o quella suora nella speranza di avere un minimo di considerazione personale. La persona infatti non esisteva se non per le punizioni e i castighi sempre molto sadici delle suore, e per l’annientamento dell’io in tutti i suoi momenti. Esisteva invece una forzata vita di gruppo che mi ha portato (e certo non soltanto a me) ad odiare ogni forma di gruppo e di vita associativa. Uno dei principali tabù era naturalmente il sesso. Io e penso tutte le mie compagne, lo vivevamo con profonda angoscia. Un’angoscia che, seppure comune a tutte le donne era per noi centuplicata e insistente ogni giorno di più. Ogni attività ludica era vietata in quanto poteva presentare aspetti sessuali, per noi il giorno era pericolo, e le nostre attività extrascolastiche erano il ricamo, il cucito, le pulizie (tante, tantissime fino alla nausea!) e le forzate passeggiate nel cortile sotto l’occhio vigile di una sorvegliante. La sera la suora di turno, si preoccupava che non ci attardassimo nel bagno ma che in fretta ci spogliassimo senza far vedere un centimetro di pelle in più e che una volta sotto le coperte, le nostre mani fossero ben congiunte sul petto. Ogni tanto durante la notte lei passava per verificare tale posizione e non di rado toccava un po’ troppo, premeva su certe parti del corpo provocando fitte lancinanti di piacere subito mistificato dall’angoscia. Naturalmente la violenza sul nostro corpo era manifestata anche in altri modi: rapporti omosessuali vissuti all’insegna della violenza. Ed erano le più grandi di noi che sotto varie minacce ci obbligavano a stare ai loro voleri; certo è che nessuna si ribellava vuoi per paura, vuoi perché in fondo, violento o no, quello era un rapporto che si rivolgeva direttamente alla persona in quanto tale. Va da sé che dentro ciascuna cresceva ogni giorno un po’ la rabbia, l’odio, lo schifo di essere donna. La sera c’era poi il rito della visita delle mutande: questo però era praticato dalle già nominate grandi che avevano un ruolo non indifferente in collegio, erano cioè come le suore, quelle che vendicavano le loro frustrazioni sulle più piccole. Ci cambiavano ogni capo di biancheria una volta alla settimana e a chi la sera aveva le mutande sporche queste grandi scoprivano il sedere per 10 cintate, chi le aveva poco sporche ne prendeva sette, chi pulite soltanto cinque cintate per… giustizia. Tutta la nostra educazione era in vista del nostro essere domani mogli e madri, ma soprattutto era di un certo tipo perché eravamo donne. Tutto era ben studiato perché fossimo sottomesse, docili, ordinate e femminili. Poi c’era il dramma delle mestruazioni che erano senz’altro qualcosa di sporco, da nascondere con forza perché peccaminoso (insegnamento biblico). Se una ne, soffriva era quasi segnata a dito e soprattutto maltrattata perché «Il dolore le donne lo devono sopportare con coraggio in quanto domani dovranno partorire con vera sofferenza, quella sofferenza che infine, perdonerà loro l’infamia di essere nate donne. Non a caso la prima peccatrice, Eva, era una donna». Questa è una delle tante frasi in proposito che mi hanno fatto odiare mia madre e mio padre per avermi concepito femmina.

Oggi dopo tre anni che sono fuori da quell’inferno, non tutto è ancora passato. Forse non basterà la vita per dimenticare queste e tutte quelle amare esperienze che non vale la pena descrivere; tanta tristezza senza che la società abbia mai spiegato a me e alle mie compagne perché ci chiedesse un prezzo così alto da pagare quando il nostro debito era solo quello di non avere una famiglia normale.