dove vado ad abortire?

dalle parole di un’amica, la storia di una donna morta d’aborto in una clinica di lusso di Roma. Perché si sappia che tutte lottiamo con più rabbia.

aprile 1978

un sabato mattina ricevo una telefonata, è Valeria; posso venire un momento da te? certo vieni ti aspetto. Entra, è sconvolta. Arriva subito al problema che l’assilla. Una domanda a bruciapelo: dove vado ad abortire? Abbiamo cominciato a parlare del suo stato di salute, dei due precedenti parti (cesarei) e la decisione ultima sua, autonoma, di non farcela a portare avanti una terza gravidanza, un terzo cesareo e le sue condizioni fisicopsichiche tutt’altro che ottimali. Le consiglio di andare a Londra, ma lei ha il problema di lasciare i due bambini, Francesco di 7 anni, Federico di 5 (non li ha mai lasciati a nessuno da quando sono nati!!!). Vuole assolutamente rimanere a Roma, in una clinica, era già in parola con il Dr. Spallone. La saluto pensando che di lì a giorni l’avrei rivista. Parto la domenica per la montagna, torno la domenica successiva verso le 22, entriamo in casa, squilla il telefono, Valeria è morta. Non ci credo, non è possibile, mi sale alla gola una rabbia pazzesca, paura, tanta paura, mi sento soffocata dalla paura e dalla rabbia. Il lunedì, il funerale. Valeria non c’è più, ma per quale motivo?
Perché ancora oggi una donna, che non poteva essere madre per la terza volta, ha deciso di abortire. Ha deciso di abortire volendo per sé una sicurezza fisica e psicologica, e per questo ha scelto (se scelta si può definire) di abortire in una clinica privata, «Villa Gina» di proprietà del clan Spallone. Forse, ma non lo sapremo mai più perché di questo Valeria non ci ha parlato, il fatto che il clan Spallone appartenesse al PCI le dava speranza e coraggio. Forse sperava che le sarebbe stato praticato un aborto secondo tecniche scientificamente aggiornate e con tutte le cure e gli accertamenti necessari, tanto più necessari nel suo caso, dato il suo stato generale. E invece no. Valeria è stata portata in sala operatoria senza che prima le venisse fatta una qualunque analisi, senza neanche il «classico» clistere, nonostante da tre giorni non riuscisse ad evacuare. Anestesia totale, raschiamento. Dopo 9 ore dall’intervento, dolori addominali allucinanti, febbre altissima. Per tre giorni, dal lunedì al mercoledì, le vengono somministrati fortissimi calmanti (iniezioni di Baralgina) e nessuna diagnosi viene fatta. Mercoledì, si pensa, lontanamente ad un attacco appendicolare. Viene operata. Venerdì Valeria muore patendo ancora dolori insopportabili. Il certificato di morte palla di «peritonite e setticemia acuta»; i legali del clan Spallone, in una lettera di rettifica al «Manifesto» del 16-3-1978, in seguito alla denuncia della morte di Valeria, fatta su quel quotidiano, danno ulteriori particolari: «La povera Sig.ra Valeria è venuta a Villa Gina per una revisione della cavità uterina, a seguito di aborto spontaneo, di cui fu fatta denuncia, come per legge, alla competente autorità sanitaria. Il decesso si verificò a seguito di peritonite da affezione intestinale come potrà essere dimostrato, se del caso, in opportuna sede».
A qualche giorno di distanza dalla morte di Valeria, su «Lotta Continua» e sul «Manifesto» vengono pubblicate due lettere di denuncia della sua morte non inevitabile. Nei giorni successivi, cominciano ad apparire sugli stessi giornali alcune dolorose testimonianze di donne che a «Villa Gina» avevano subito trattamenti incredibili sia dal punto di vista medico che da quello umano. Risulta perfino, che ad alcune donne, andate ad abortire, era stata richiesta la tessera di iscrizione al PCI!!! Che sia l’unico accertamento che, in questi casi, a «Villa Gina» venga fatto con scrupolosa attenzione? Sulla base di queste tragiche confessioni e per l’impegno di alcune compagne, il movimento femminista si avvicina anche a questa storia. Ma Valeria è l’ennesima donna, e non certamente l’ultima, morta per aborto; e la lotta del movimento femminista che si fa carico di ogni singola vicenda, non può che inquadrarsi nel campo più ampio della battaglia per l’aborto che da anni porta avanti. Valeria rimane sola ancora una volta.
La sua famiglia non desidera, almeno in questi primi momenti, intervenire nei riguardi della clinica Spallone. Una decisione che rispettiamo, ma che non ci sembra giusta proprio nei confronti di Valeria. Sapere perché è morta e per responsabilità di chi, ci sembrerebbe un atto di amore e non solo di giustizia. L’atto di giustizia forse si concluderebbe con un «rimborso spese», anche cospicuo dal momento che alle spalle della tragedia c’è un Baronato Medico molto potente. Ma Valeria rimarrebbe ancora una volta sola: il silenzio, la rassegnazione sarebbero a tutto vantaggio di questa squallida società che ogni giorno seppellisce donne che vogliono decidere di se stesse. Noi donne dobbiamo sempre pagare, non soltanto per violenze psichiche, sotterranee, ma anche e soprattutto per violenze fisiche. Nel caso specifico Valeria è stata uccisa, o «non salvata» (che è la stessa cosa) dalla classe medico-maschile. Valeria avrebbe subito questa violenza comunque. Provate a seguirmi in questa logica allucinante. Valeria è rimasta gravida fecondata da un uomo, la scienza maschile (per questo sembra abbia cercato di «pianificare» le nascite) non ha trovato o non vuol trovare, un sistema non nocivo alla donna; ancora, il momento in cui Valeria avesse voluto portare a termine la sua gravidanza non avrebbe avuto alcuna garanzia per farlo; ancora, scegliendo, rispetto alle sue paure, il minore dei mali, cioè l’aborto, non ha avuto la garanzia finale alla vita, trovando la morte.