CONVEGNO VIOLENZA

femminismo mamma matrigna

“è nata da qui la necessità di analizzare il rapporto con la propria madre, la prima persona della quale si é ricevuto (e dato) violenza”

aprile 1978

via del Governo Vecchio, 24 marzo, venerdì (vigilia del convegno): casse di lattuga e pomodori accatastate nel cortile, 500 sedie 500 da trasportare ai piani superiori, scope e sacchi della spazzatura sparpagliati ovunque, compagne munite di sacchi a pelo accampate nelle stanze gelide. Questa l’«anteprima» dell’incontro come l’abbiamo vissuto noi, le cosiddette «organizzatrici», coinvolte per la prima volta negli stravolgenti meccanismi del mettere in piedi questa cosa chiamata «convegno». Stanchezza, fatica e stress, ma anche un fatto positivo: MLD ed Effe, su posizioni diverse rispetto a molti aspetti del femminismo, con alle spalle anche qualche vecchio contrasto, hanno lavorato insieme stando bene, con correttezza, senza prevaricazioni. Scriveremmo con «sorellanza» se il termine, ormai logoro, non evocasse subito un mito che, proprio nel convegno, è stato sottoposto a una rilettura radicale. La novità del convegno è stata proprio questo approccio autocritico (prontamente strumentalizzato dalla stampa, comprese purtroppo alcune compagne giornaliste) alla sorellanza, al «donna è bello». Rivedere questi processi è stata un’esigenza molto sentita tanto che è stato necessario cambiare stanza perché era la commissione più affollata. Noi stesse, facendo l’elenco delle commissioni avevamo avuto dubbi sull’inserire questo tema, per timore delle strumentalizzazioni della stampa, delle divisioni che si sarebbero potute creare e soprattutto per una grande paura nostra di metterci in discussione su un punto così lacerante. Invece i due giorni del Governo Vecchio ci hanno dimostrato come sia stato positivo affrontare insieme, questo problema che avevamo soltanto sfiorato o rimosso in modo massiccio. La rimozione: questo è stato il primo elemento emerso dalle testimonianze. In molti collettivi la violenza e l’aggressività tra donne sono stati negati o vissuti in maniera indiretta: il rifiuto del modello «maschilista» si è tradotto in una specie di obbligo a star bene fra donne, in un imperativo a cui tutte abbiamo nella pratica quotidiana obbedito. Ideologicamente avevamo coscienza che la sorellanza non è un fatto acquisito, ma un obiettivo; che i condizionamenti di questa società violenta ci pesano ancora addosso e vengono riproposti all’interno dei collettivi; che non si può pensare di liberarsi in pochi anni dal maschile introiettato in noi. Il riconoscimento della esistenza della violenza come substrato — sempre esorcizzato, sia all’interno del collettivo che tra i differenti livelli del movimento — ha portato le compagne all’analisi del modo in cui il collettivo è stato vissuto da tante donne. «Dopo aver fatto terra bruciata alle nostre spalle — ha detto una compagna di Bologna — il collettivo era il solo punto rimasto al quale abbiamo rivolto una richiesta di accettazione totale che non poteva essere soddisfatta: da qui le nostre frustrazioni». Il femminismo, dunque, vissuto come madre-matrigna (e questa dinamica puntualmente si è riprodotta nel convegno: i primi due giorni, nella nostra «casa», il femminismo ha mostrato il suo volto di mamma buona, consolatoria; il terzo, nell’atmosfera estranea dell’Aula Magna, quello spaventevole della matrigna). Da qui la necessità di analizzare il rapporto con la propria madre, la prima persona dalla quale si è ricevuto (e dato) violenza: su questo tema, non a caso, ci si è soffermate un giorno intero, A parte questa coraggiosa autocritica (che nessun altro movimento avrebbe avuto il coraggio di fare) portata avanti in termini di sorellanza reale, il convegno, a nostro parere, è stato povero dal punto di vista dei contenuti. In parte questo può essere attribuito ad una errata impostazione del convegno, troppo generica e poco rispondente al dibattito interno del movimento in Italia. Questa genericità ha avuto come conseguenza una difficoltà nell’approfondimento dell’analisi ma soprattutto la incapacità (tranne per alcune commissioni) di progettare in positivo: in altre parole è venuta fuori l’assenza di un progetto politico in questa specifica fase del movimento. Questo vuoto ci ha portato ad essere stritolate tra ila volontà di proporre a partire dai contenuti specifici del movimento e la difficoltà di farlo. Facciamo alcuni esempi: nella commissione stupro si è discussa in dettaglio la proposta di legge fatta dal MLD, ma poi non si è state in grado, sia per la mancanza di tempo che per carenze di preparazione, di valutare a fondo di significato che ha oggi una proposta di legge, i modi in cui eventualmente può essere portata avanti. I contributi dati dalle compagne straniere sono stati di grande aiuto, ma non sono stati portati a conoscenza dell’assemblea. Nella commissione aborto non si è fatto altro che riproporre la lacerante scissione che da anni, si perpetua nel movimento sulla questione «referendum -buona legge».
La pratica dell’autocoscienza, che si è dimostrata ancora una volta valida perché ha portato compagne da poco avvicinatesi al femminismo alla riscoperta di contenuti e pratiche già patrimonio storico del movimento, in assemblea generale, dopo le relazioni delle commissioni, è servita in vari casi ad avallare la pratica dell’autocommiserazione fine a se stessa e questa incapacità, emersa in numerosi interventi nelle ultime ore del convegno, di rendere «politico» il vissuto, di interpretare il personale alla luce di tutte le acquisizioni del femminismo, porta con sé un rischio di regressione, individuale ma anche politica. È ora che il movimento si lasci alle spalle questa prassi paralizzante, che, perduta la carica dirompente dei piccoli gruppi, non inserita in una logica «politica» globale, diventa copertura di problemi che forse sarebbe bene affrontare in altri termini. Ci sembra che i problemi reali venuti fuori dal convegno siano stati quelli descritti, Respingiamo perciò l’attacco che gran parte della stampa, oi ha fatto perché non è uscito dall’incontro un pronunciamento sul terrorismo. Siamo state accusate di ignorare la realtà politica attuale, di vivere nelle nuvole, «ripiegate» su noi stesse e sul personale. È vero che può essere sembrato sorprendente che, dieci giorni dopo il rapimento di Moro, il problema terrorismo sia stato al convegno, appena sfiorato: è vero che c’è stato un «arroccamento» sui nostri contenuti specifici, ma ‘cerchiamo di capire perché. Ci troviamo a dover fare i conti con una oggettiva restrizione degli spazi conquistati dai movimenti (non solo dal nostro, ma di tutta la sinistra); con una radicalizzazione dei giochi istituzionali che ci fa contare sempre meno, anche se diventiamo sempre più numerose. E questo ce lo fa capire proprio il modo in cui il sistema reagisce all’attacco terroristico di questi giorni. Se il 6 dicembre in 20.000 potevamo far cadere un governo, domani possiamo scendere in 100.000 (e dobbiamo assolutamente farlo), ma non possiamo più illuderci che il risultato sarebbe di nuovo quello. La restrizione degli spazi è correlata alla difficoltà di portare avanti con chiarezza un progetto politico complessivo a cui partecipino non solo «le femministe» ma tutte le donne. Tale difficoltà è dovuta anche alle divergenze interne al movimento su questioni vitali, come il problema dell’autonomia (dai referenti maschili), dell’organizzazione, del confronto con le istituzioni, dell’uso della violenza. Perché queste divisioni interne non sono state ancora affrontate a fondo? Le ragioni sono molte e non possiamo approfondirle in questo contestò-; vorremmo però accennarne alcune’, come la incapacità che abbiamo dimostrato nel costruire e comunicare a tutte una memoria della nostra storia e della nostra prassi, la difficoltà a risolvere il paradosso del rapporto con le istituzioni, il mancato approfondimento dei temi iniziali. In particolare ci sembra necessario fare i conti oggi con il problema del nostro rapporto con l’adesione al femminismo di moltissime donne giovani che trovano in esso «immediatamente» il veicolo della propria emancipazione (per noi era la rottura con il modello emancipatorio) un corpus ideologico bello e pronto e che hanno difficoltà a sentire come propria una pratica di movimento che per noi «vecchie» rappresenta il paradigma stesso del nostro sviluppo, Questi elementi, se giustificano la volontà di andare avanti ostinatamente sui nostri contenuti, come abbiamo fatto al convegno, non giustificano a nostro parere la incapacità del movimento di fare chiarezza al proprio interno sulla violenza politica. Se è giusto respingere la richiesta di pronunciamento a comando fatta in termini di appiattimento (o con le Br o con lo Stato) è però importante non negare all’interno del movimento la presenza di posizioni estranee alla nostra storia, alla nostra memoria che è tutta nella direzione di un deciso rifiuto della violenza come strumento dì lotta politica.
È tempo di aprire un confronto su questo non solo per la nostra crescita nel movimento, ma perché la minaccia di degradazione autoritaria dello stato, come la gestione tutta della vita politica, ci riguarda da vicino.