fumetti

fumettare ricercano insieme

luglio 1978

finora la risposta alla fantasia al maschile è stata da parte nostra, di denuncia.
Denuncia che è diventata quasi un freno ideologico alla nostra fantasia, che per svilupparsi ha bisogno di non essere assolutamente una risposta a qualcosa, e può crescere solo riuscendo a scartare ogni tipo di soluzioni già date.

Dalla riunione sui fumetti (due giorni a Bibbiena a casa di Alessia) siamo uscite con due idee: mostra di fumetti alla Librellula (realizzata) e giornale di fumetti (in fieri). Siamo arrivate da Grosseto, Bologna, Venezia, Roma, Firenze: dieci in tutto. Non era un convegno, ma un’aggregazione informale cui hanno risposto solo quelle che siamo riuscite, a raggiungere, Diversissime tra noi, professioniste e non (qual è poi il contrario di professionista? Non sempre «dilettante»), interessate a discorsi diversi, con segni diversi, con diverse concezioni sul fumetto, non possiamo dire di aver raggiunto un’omogeneità di intenzioni. Forse un risultato di questo incontro sarà la necessità di differenziarci ulteriormente.
A Bibbiena c’erano fumetti femministi, fumetti di satira femminista, fumetti di satira sul femminismo, fumetti di avventura non strettamente legati al femminismo, tavole uniche, ecc. Vorremmo organizzare un’altra riunione tra poco, e per questo è importante mandare ad Effe, come punto di riferimento, il proprio indirizzo e qualche fotografia di cose proprie: disegno più parola. Le idee in ballo sono due: un numero unico autogestito (da far diventare periodico) di fumetto di donne e un supplemento Effe di fumetti. Ma è ancora presto per parlarne. Si sono già presentate le prevedibili dicotomie da risolvere: professionismo-fumetto militante; fumetto militante-fantasia; disegno professionale o espressione meno elaborata. Conoscendo la staticità di queste opposizioni discusse teoricamente, abbiamo deciso di confrontarci praticamente sul materiale, prodotto. Un’uscita all’esterno, dopo confronti da avere durante l’estate, può essere un momento di prova. Purtroppo, il fatto di essere poche in ogni città fa sì che sia difficile maturare insieme. I problemi più sentiti sono quelli inerenti alle strutture narrative, al linguaggio delle donne, ai rapporti col femminismo (o alla necessità di svincolarsi dal didascalismo), all’organizzazione di un giornale. Si vedrà.

 

splash bing miao
SPLASH. Volendo esprimerci attraverso i fumetti, è difficile utilizzare il riaggancio ad una produzione tutta maschile fatta di «splash» e «bing», in cui ci hanno fatto sempre fare solo «miao» di fronte al forte Nembo Kid, al timido Clark Kent. Ma non è con maggiore soddisfazione che possiamo accogliere l’ondata di protagonismo femminile che in America, parallelamente a quello cinematografico, sta animando la produzione di fumetti, creando di ogni Superman il suo superdotato corrispettivo femminile.
In Italia, l’intrepido e monello lancio del protagonismo femminile lo tentano i giornalini da caserma a trama romanzata: ma era quasi meglio quando apparivamo solo nella vignetta finale in funzione di ricompensa sessuale all’eroe, di adesso che ci troviamo fraintese dalla prima all’ultima vignetta, protagoniste dilaniate tra il senso del peccato e un’emancipazione da operetta, magari coinvolte (come nella Psicostory sull’Intrepido di qualche settimana fa) in pietose storie di aborto che si concludono con la morte, castigo e Cancellazione della colpa, della protagonista, che perisce salvando dall’investimento un bambino che ha il nome di quello che lei non ha voluto. Cuore!
La produzione «decente» di fumetti scavalca il problema: va sull’irreale, sull’assenza di trama. Pretende di essere oltre, ed è talmente raffinata ed elaborata tecnicamente da farci chiudere un occhio. O, più spesso, non sappiamo come rapportarci a prodotti (come il fumetto underground) in cui sembra che si scherzi sul modo di scherzare pesante, mentre si sta veramente scherzando in quel modo.
Nessun, dubbio, invece, quando non si tratta di underground, ma di piccole paranoie di cazzetti in allarme (vedi vignetta a fianco in cui lei gli ruba il pene). Quando il livello non è così scadente, sono le volte che stai zitta, hai paura di non essere abbastanza spiritosa, decidi per una volta di buttare a mare la sentinella censoria femminista e accetti in toto il prodotto, mentre in realtà bastava investigare sul perché non eri del tutto convinta: poteva essere la posizione di dipendenza o il nudo stereotipato della protagonista, i suoi attributi fisici messi in evidenza pur non essendo funzionali alla trama, o quello ohe la frase di lui denotava, oltre il suo significato letterale, o le premesse stesse da cui parte la storia ecc. E quando, come nella satira politica più azzeccata, la donna non appare addirittura; si tratta di misoginia saggio silenzio o pretestuosa attenzione all’incontestabile dato di fatto della nostra assenza storica? L’accettazione di questa assenza è comunque sempre complice di presenze soffocanti.

BING. Finora la risposta alla fantasia al maschile è stata, da parte nostra, di denuncia. Denuncia che è diventata quasi un freno ideologico alla nostra fantasia, che per svilupparsi ha bisogno di non, essere assolutamente una risposta a qualcosa, e può crescere solo riuscendo a scartare ogni tipo di soluzioni già date.
Molte di noi desiderano usare il fumetto come mezzo espressivo, ma non riescono ad azzeccarci: partendo dal femminismo, ci si rifugia in una sua traduzione letterale, che cade in un moralismo massimalistico e ripetitivo particolarmente noioso: come conseguenza si tende a vedere nel femminismo una cappa ideologica che nega la fantasia, mentre è da noi (e dalle altre) che parte questo eccesso di coerenza che pecca di ideologismo e castra la fantasia. La fantasia è peccato?
E ora di stravolgere l’orticello del realismo didascalico presente nella produzione femminista (la sottoscritta ne è intrisa fino al midollo) per liberarla.
In questo il comico ci può essere d’aiuto anche se, usato nelle forme canonizzate esistenti finora, diventa una arma a doppio taglio (vedi film Wertmüllèr).
Il comico crasso si avvale della pedata al servo, e conseguentemente delle tette della serva: per questo è difficile essere spiritose. Viceversa, è facile Motteggiare su uno dei duemila luoghi comuni antifemministi, o più genericamente impostati sul filone della comicità del perdente, combinabili in una inesauribile miniera di «spiritosaggini». Chi sta sotto ha sempre la coda di paglia, ed è disabituato ad usare l’umorismo in senso attivo. A riprova, basta un accenno alle noiosissime serate passate a sentirli raccontare barzellette.
Inoltre, lo stato paranoicale in cui spesso ci si trova, grazie al continuo linciaggio verbale e. per immagini che subiamo, fa sì che si viva in stato di costante difesa, incapaci di ironizzare sui noi stesse. D’altra parte una specie di pietà, retaggio di sensi materni, l’incapacità di colpire alle spalle, i meccanismi di identificazione col debole, fanno sì che non si riesca a far centro nemmeno sul «nemico» che (forse più come risultato di un conflitto espressivo, che per corrispondenza tra come lo si percepisce e come lo si disegna) viene infantilmente disegnato come mostruoso, stereotipato anch’esso.
Il problema è quindi: che immagine dare di sé? Che immagine dare dell’altro da sé?
Un esempio di trappola. Esiste il luogo comune per cui «le femministe sono brutte»: l’origine dello stesso deve essere ben antica, se nella vignetta di Daumier vediamo le femministe socialiste presentate non solo «vecchie e brutte», (a parte la più perplessa, giovane e carina), ma anche «ubriache e scomposte», connotazione che alla fine dell’Ottocento doveva assumere toni tragici. È ovvia la considerazione che la radice del luogo comune è il meccanismo di (presunta) punizione da parte della mentalità dominante verso un soggetto che si ribella (prova ne siano le immagini prodotte durante la campagna anticomunista del ’48 in Italia), ma a parte ciò dobbiamo far attenzione al fatto che per reazione ci si disegna tutte belle, venendo ad accettare in pieno come valore negativo la non corrispondenza a certi modelli.
Per l’altro da sé: la cosa meno furba è proprio renderlo brutto e cattivo, cioè temutole cadere in un moralismo iconico che ripete se stesso.

 

MIAO. Un altro grosso equivoco è quello del «segno femminile». Nel cinema, nel teatro, in letteratura, per quel che riguarda la grafica, si dice che il disegno leggero, fragile, sottile, sia «tipicamente femminile» e, peggio, si passa da una generalizzazione statistica, che potrebbe anche essere utile in sede critica, allo statuto normativo per cui il segnò femminile «è» leggero, fragile, sottile ecc. Questa superstizione viene talora ritenuta valida dalle donne stesse, e non manca chi si gloria di questa specificità che, drammaticamente, diventa un modello discriminante e colpevolizzante nei confronti di chi non se la sente di produrre segni, gesti, cose leggere, fragili, sottili.
Ebbene, durante un’esperienza di animazione, mi sono accorta che le bambine disegnavano quasi tutte fiorellini millimetrici in un angolino del foglio, mentre i bambini ricoprivano fogli doppi di carta da pacchi con un unico disegno di tema vario: ciò era esattamente proporzionale al loro modo, di usare la voce, il corpo e lo spazio intorno a loro, era cioè proporzionale allo spazio di espansione che l’autorità familiare e scolastica giudicava ed imponeva come pertinente ai due sessi, parametro secondo cui continuava ad educarli, con un’educazione che ha tutte le caratteristiche del plagio. Ecco perché rifiuto di riconoscere come «tipicamente femminile» la «grafica sottile», quella grafica che è la diretta continuazione dei fiorellini millimetrici, giacché la sua tipicità è quella di provenire, quanto la grafica maschile, grossa e decisa, da un’educazione sessista. Diverso è invece il discorso sul valore. Per emarginare la produzione femminile si è puntato sulla svalutazione delle sue costanti, e sull’apologia delle caratteristiche ricorrenti in quella maschile: da questo punto di vista è corretto parlare di specificità, sempre tenendo presente che non può essere un’ipoteca per la produzione futura, e così per i tempi lunghi al cinema, per il didascalismo teatrale, per l’autobiografismo letterario, per la testimonianza nell’informazione: chi ha detto che siano immutabili?
Penso invece che ognuna debba trovare il suo segno, e che nessun segno è definitivo, e che si possa adottarli tutti, partendo da, «e stesse e dalle proprie esigenze del momento e che comunque la scelta del segno da usare sia un problema di economia interna della persona, non un problema sui cui. dall’esterno si può moralizzare. Un segno per ognuna, da trovare.