libri

il fuoco gelido di marina

marina cvetaeva che ha fatto della metaficisità la cifra della sua scrittura affronta in due libri il tema del rapporto tra donne, si può chiamare sublimazione quel sentimento che la cvetaeva definisce “l’amore”?

marzo 1982

Mi domando quali considerazioni spingano case editrici di indiscusso prestigio e di solida tradizione culturale ad aprire le loro collane a testi di donne, importanti e prestigiose esse pure ma che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe arrischiato di presentare su un mercato che pure sembrava assorbire di tutto, compresa la Cultura con la maiuscola, della quale — così si diceva — la grande scolarizzazione di massa degli anni sessanta aveva creato un impellente bisogno. Oggi il mercato editoriale tira molto meno, sopravvive chi invade le edicole di fotocolor e le librerie di curiosità: il saggio per carità non vende, il grande libro illustrato proprio perché costoso ha invece un mercato garantito, si riscopre il fascino della bibliofilia. Garibaldi e Mussolini biografati si vendono quanto le dispense di cucina. E le donne?
Dalle grandi alle artigiane della penna tutte, ormai defunte, trovano il loro editore e il giusto lancio: la Woolf perché ormai non se ne può fare a meno, la Sackille-West perché è stata legata alla Woolf, Colette per quell’alone di scandalo da demi-monde che l’ha circondata. Aspettiamo Nathalie Clifford-Barney pubblicata con adeguato corredo di fotografie: perfetti completi da cavallerizza, occhio fulminante, cappello e bastone da dandy al femminile. Del resto di lei non si innamorò nientemeno che Liane de Pougy. la più celebre cortigiana di Parigi negli anni Venti?
Ma Marina Cvetàeva? perché mai pubblicare degli inediti “in prosa” fortunosamente ripescati della Cvetàeva — Lettera all’Amazzone e II racconto di Sonecka — che deve la fama al suo essere poeta e grande poeta? Eppure Marina Cvetàeva è personaggio scarsamente consumabile, con la sua vita di miseria, una figlia morta per denutrizione, la lotta quotidiana per il pane e per lo zucchero, una morte scomoda e violenta da suicidio. Forse affascina oggi, in tempi afghani e di terza via. il suo essere “controcorrente” nel grande fiume della rivoluzione sovietica, lei frequentatrice di russi bianchi, amica di poeti epurati, profuga in occidente con un marito accusato di essere un agente segreto dei sovietici in quel groviglio di tradimenti, sospetti e veleni che fu l’ambiente degli emigrati russi in Francia negli anni Venti e Trenta? O forse — con occhio più sottile e attento al mercato delle donne che leggono le altre donne — gli editori che oggi la rilanciano guardano all’ambiguo dibattito sulla maternità che si è aperto in questi anni, al conflitto produzione-riproduzione, scrittura-corpo femminile? Della Cvetàeva è uscito in questi giorni per i tipi del Saggiatore II racconto di Sonecka; ma già l’anno scorso l’editore Guanda aveva pubblicato la sua Lettera all’Amazzone con un’eccellente prefazione di Serena Vitale, un buon apparato di note e un’appendice iconografica. A legare i due libri è il tema dell’amore tra donne, vissuto, analizzato e raccontato come sa fare un poeta: per lampi, immagini, disincarnazione del reale. Singolare di questa operazione non è tanto il fatto che a compierla sia un poeta ma che il poeta sia proprio lei Marina Cvetàeva: entrata a pieno titolo nell’universo della grande cultura maschile che del corporeo, del terrestre, del “femminile” ha fatto scorie per alimentare il fuoco dell’Arte intesa idealisticamente come sublimazione.
È singolare e rilevante che questa cancellazione del corporeo l’abbia vissuta — e pagata? — una donna e che essa sia diventata la cifra della sua scrittura. Si è sempre parlato a proposito della Cvetàeva di metafisicità della costruzione verbale. La stessa metafisicità, lo stesso fascino per ciò che è disincarnato, incorporeo, ultraterreno in senso lato; l’attrazione per l’assenza, la separazione, l’incontro sempre mancato percorrono questi due libri “minori” della Cvetàeva. Ma l’assenza è anche e soprattutto il suo rovescio: pienezza, compimento a suo modo di quel che il reale deformerebbe. Il racconto di Sonecka è perciò la storia di un amore che trae la sua bellezza e grandezza nel non essere mai compiuto, mai fisicità. Sonecka, giovane attrice nella compagnia del Terzo studio di Mosca, per il quale la Cvetàeva scrive delle piéces teatrali, è già nel suo apparire a Marina — che legge agli attori una commedia nel silenzio del palcoscenico vuoto — un’immagine rarefatta. Non corpo, ma fuoco. Davanti a me è un incendio vivo. Tutto arde, lei arde—tutta. Ardono le guance, ardono le labbra, ardono gli occhi, senza bruciare ardono nel falò della bocca i denti bianchi, ardono — quasi turbinando nella fiamma — le trecce, due trecce nere, una sulla schiena, l’altra sul petto, proprio come volata via da un falò. Marina racconta di Sonecka attraverso la casa di lei, l’angolo della poltrona verde, l’oro degli alberi di là della finestra, le conversazioni comuni, gli amici comuni, la vita quotidiana senza quotidianità che dividono insieme per un anno. Si può chiamarlo sublimazione, rinuncia, quest’amore che Marina definisce l’amore della sua vita? Che si compie proprio perché già compiuto in sé. perfetto, anche se la piccola Sonia se ne va verso il suo “destino di donna” con un uomo? Non ricordo di averla mai baciata, tranne che col bacio consueto, quasi meccanico, del buongiorno o del commiato. Non era per me una sorta di cattiva — o buona — vergogna…: l’amavo troppo, tutto era di meno. perché un bacio, quando non si ama — dice troppo, e quando si ama — dice troppo poco, è troppo poco. Bere per ribere ancora… Preferisco conservare tutta la mia sete.
A Nathalie Clifford-Barney. l’Amazzone che faceva dell’abbandono alle passioni un modello estetico di vita, Marina Cvetàeva scrive: Avere tutto da dire — e non dischiudere le labbra. Tutto da dare — e non aprire la mano. E questa la rinuncia che Voi chiamate virtù borghese e che, borghese o meno, virtù o meno, è il principale movente delle mie azioni. Movente — la rinuncia? Sì, giacché la repressione di una forza esige uno sforzo infinitamente più duro che il suo libero dispiegamento — che non ne esige alcuno. In questo senso ogni attività naturale è cosa passiva, così come ogni passività ottenuta è attività.
La Clifford-Barney teorizzava in quegli anni (intorno al 1934) l’utopia della diversità — sovversione possibile solo, superando la parzialità dell’individuo monosessuato, nell’attingere alla mitica bisessualità divina, l’Androgino. Solo così si apriva la strada al primato della creazione (di sé stessi) contro l’abbrutimento della procreazione. Alla Barney Marina Cvetàeva contrappone, lei così nemica dell’orrenda quotidianeità delle piccole cose, lei così poco natura, l’ineluttabilità del trionfo della natura procreatrice. Una sorta di vendetta fatale contro l’amore così assoluto ma imponderabile che lega una donna a un’altra donna. Ciò che mina un rapporto tra donne è l’assenza del Bambino. Bambino con la maiuscola, così scrive Cvetàeva. Bambino che va oltre l’amore. perché l’amore non ha futuro, è eterno in sé: per questo tutti gli amanti nella tradizione letteraria muoiono. E anche quando non muoiono come Dafni e Cloe, per noi è come se lo fossero. Non ci interessa vederli invecchiare insieme. Non si può vivere d’amore: l’amore vive in una sua sfera astratta, totalizzante, ancor più totalizzante se a provarlo è una donna {quella che nell’amore cerca l’anima è predestinata alla donna). Ma il Bambino è un avere innato, è in noi prima dell’amore, prima dell’amante. Questo Bambino con la maiuscola è per Cvetàeva qualcosa di più dell’appagamento di un restrittivo istinto materno. Garantisce paradossalmente l’unica atemporalità possibile, l’unica non-delimitazione nella terrestre realtà quotidiana: il futuro. Il Bambino è il segreto rimosso di Nathalie Clifford-Barney. il buco nero della sua estetizzante teoria. Il femminile, il terrestre ha per Cvetàeva una sorta di sublimazione metafisica nel Bambino.
Ne II racconto di Sonecka Cvetàeva scrive che colui o colei che indaga un prodotto letterario, il critico insomma, è sempre inquirente e amante. Francamente non so, proprio non so. di fronte alla storia della piccola Sonia e alla lettera a quell’affascinante amazzone che fu la Clifford-Barney. in quale dei due identificarmi.