l’antico inganno

ottobre 1974

Sono negata per il pugilato e la lotta libera, a causa di una tradizione estetico-muliebre, come pure per il tennis, giacché la palla avversaria non centra mai la mia racchetta, il che poggia su basi patologiche di astigmatismo e debolezza di polso, forse collegate con una non eccezionale prontezza, per non parlare di vivacità, di riflessi, tant’é vero che nei rari casi in cui mi sono trovata in tutù e suole piatte su una specie di arena, alla dovuta distanza da una rete da pesca stesa, ho corso sempre con istinto incoercibile dalla parte opposta in cui fischiano le palle. Può darsi che vi giuochi un ruolo anche l’anima di mio nonno, disertore di una grande guerra. A cavallo soffro il mal di mare. L’unica attività in cui risalto per scioltezza è il salto alla corda, praticato fino a tardi, ossia per tutta l’epoca dello sviluppo, che si è svolto senza arresti, ma con molta lentezza.
Ma ogni settimana un magnetismo insopprimibile mi trascina sulle didascalie delle foto di ragazze, 1.87 e smilze fino all’osso, però con chiome opulente e iridi di una immancabile sfumatura azzurognola o almeno verdina: sembra che debbano tutto ciò all’abitudine mattutina e quotidiana di divaricare trenta volte le cosce, alzare i gomiti all’altezza delle clavicole o rovesciare la schiena, spesso in una piscina a temperatura corporea, lo ho avuto i primi approcci con l’Educazione Fisica dalle monache di Santa Teresa del Bambino Gesù, che veneravano il Beato Mussolini e lo rammentavano ancora certi sabati, istruendoci a levare gambe e braccia più in saluti romani e trazioni marziali che in circonduzioni ginniche. Dopo le prime mosse venivo congedata da una sorella: — Un-due-Tre-Quattro-Riposo —. Alla mamma piaceva tanto mettermi gonnelline a pelo d’inguine, in contrasto col regolamento e la condotta devota a Santa Teresa; respinta in fondo alla fila, mi veniva concesso di correre insieme alle altre a pregare la riproduzione della Madonna di Lourdes, piuttosto fedele, a parte la taumaturgia indebolita; dopo la refezione, imbracata nel grembiulone della Silvia, terziaria e inserviente, mi era permesso di accedere in chiesa e adorare il SS. Sacramento sempre esposto, col dovuto rispetto; era l’ora in cui io e compagne di rispetto si mancava, se non di adorazione, e cantando: — Ti adoriam, Ostia Divina; Ti adoriam, Ostia d’Amor — si vomitava compunte in ginocchio, davanti alla pisside, rinforzando con — Ora Pro Nobis — i tentativi di rimandar già i paternostri sul brodino di ceci della Silvia.
In prima media avevo esercitato ginnastica con le suole bucate; il che, se mi rendeva tollerabili torsioni del busto e flessioni di braccia, mi dava una paraplegia, quando la situazione mi imponeva di scoprire il fondo delle scarpe; detestavo semplici posizioni di partenza, un ginocchio flesso e uno a terra; ero la prima della fila; dietro stavano le compagne più alte di me tutto l’anno e anche l’anno dopo, mai assenti, specie coloro le quali portavano scarpette da ginnastica per l’ora di ginnastica e carrarmati con spunterbi e linguettone frangiate nell’ora di latino e geografia. Quelle calzature non si spuntavano e non si sfondavano mai. Ma non ho mai sofferto di pedignoni e in seguito ho scoperto quanto ricrea il pediluvio marino. A furia di sbracciarsi per richiamarmi a riva, mia madre aveva appreso d’istinto certi movimenti
frenetico-natatori; così, sbagliava i dolori da strappo muscolare per un principio d’infarto. Tornava in città con l’artrite ridesta in anticipo sulla stagione, a forza di stare in guazzo, per non perdere il controllo dei cimenti acquatici della sua cocca, la quale si votò ad uno sport invernale, irraggiungibile dalle articolate movenze materne.
Tutte le domeniche di freddo intenso, lasciavo la dimora alle cinque del mattino. La mamma sbadigliava avvilita:
— Dove vai, a quest’ora?
Mi strofinava gli scarponi, che segavano i malleoli e si abbarbicava agli sci:
— Questi te li porto io.
lo m’insaccavo nel cappuccio di pelo, incamminandomi nel buio verso un autobus, che caricava in continuazione mucchi di gente con scarpe e cassette, giubbe di materasso, sci ad armacollo; per due ore restavo intirizzita a cantare inni della montagna. Sul posto venivo sopraffatta dagli altri, che infilavano gli sci, e via; io consumavo subito due metri di salatino, da distribuire in cadenza tra colazione pranzo e merenda. Tutto ciò, insieme agli stimoli gelidi di cui l’aria era prodiga, non bastava a darmi l’aire. Quando mi decidevo per la lezione collettiva, erano tutti sopra un declivio da mezz’ora, planavano sul prato e rimontavano, mentre io insistevo a studiare il sistema meno illogico per togliere uno sci disotto all’altro. Approdavo in fondo al prato contro la mia volontà; un ragazzino rabescava di cristiania le code dei miei sci, tra gli strilli plaudenti di due pupazzi in pelouche;
— Nanni! Nanni! Bravo, tesoro! — E Nanni ripassava estatico su miei sci, rimasti in una posa di alta acrobazia, finché qualcuno cui ostruivano j il passaggio, non li tirava su, e me ! insieme ad essi. Riprendeva a nevicare. La corolla di peli del cappuccio catturava la neve come un fiore il polline. I peli s’indurivano in un’aureola di aghi ghiacciati. Sull’autobus di linea c’era più calore che nel pullmann degli sciatori, malgrado il fiato della gioventù in soprannumero. Si allargava il corridoio; passeggeri in abiti civili e asciutti facevano il vuoto intorno a me; in città la pioggia disfaceva l’aureola di ghiaccio, i peli e il cappuccio.
I settimanali dai nomi flessuosi di donna, che mi sarebbe piaciuto tanto fossero venuti alla coscienza dei miei impersonali battezzatori, mi hanno insegnato che la Venere di Milo è un prodotto di gym-girl, che quando si ha fame è meglio avere sottomano un partner da farci l’amore che un frigorifero rifornito, perché mantiene meglio in forma, che i pettorali sono il piedistallo della ghiandola mammaria e senza un adeguato sviluppo dei deltoidi non è morale aspirare ad un vero successo nella vita (e così pure, se non ci si, lava tutti i giorni con un’*detersivo emolliente sferzante, addolcente, penetrante con lievi e assidui massaggi dal basso verso l’alto, fino a consunzione di cute cotenna e acne seborroico). I corpi illustrati come guida ed esempio apparivano golosamente tra alghe e spruzzi, nudi nel sole dei Caraibi, e ci si poteva cantare sopra in tono di sax e senza rimorso: Tu sorgi come Venere da un’onda. Il sole bacia la tua pelle bionda. Ti butti sulla sabbia. Sei bella da far quasi rabbia. Questi nudi avvolgevano nelle loro spire flaconi di contenuto dimagrante, snellente, amincissant, réduisant, rassodante, da affiancare alle contorsioni e genuflessioni coordinate. Provocavano una pacata rassegnazione, ammonendoci castamente: «Un corpo così si ha una volta sola nella vita».
lo, ad esempio, neanche quella. A quattordici anni, allorché un naso a tubero mi si scatenava in coppia con un sedere da calzolaio, madre, zia e sarta, unite nella desolazione e preoccupazione per il mio futuro, mi scrutavano in mutande, mentre incedevo con passo sicuro da montanara, e in uno slancio di rimpianto verso la mia infanzia che dileguava a spron battuto, mi avevano sistemato su misura un corpettino a nido d’ape, infioccato i reni a iosa e occultato il resto fin sotto i ginocchi in un verzicare di crespe e piegoline, per le passeggiate della domenica e le crisi dell’adolescenza. Per molto tempo dovevo sentirmi ancorata al mio sedere, che, in dispregio presso i parenti più cari, in palestra mi strappava le mani dalla scala orizzontale, mi calamitava giù dal palo e mi sbalzava a terra, con potenza incalcolabile, non appena tentavo un abbozzo di volteggio sulle parallele, bloccandomi perfino in groppa alle amiche accucciate giocosamente per la bella insalatina, e poi schiacciate al suolo con le reni spezzate. Più tardi me lo ricordavano i maschietti senza parafrasi, dacché mi decisi a enuclearlo dalle corolle entro cui lo aveva affondato la tenerezza gelosa della mamma. Lo sorvegliava anche il padre esterofilo, quando, per forza o per amore veniva attanagliato nei jeans. Il padre ammoniva tutta la categoria:
— Siate modeste: piuttosto, guardatevi bene allo specchio, illuse! Codesta roba dovete lasciarla alle forestiere. Le forestiere erano esseri lontani da superbia e sciocca ambizione, di statura eccelsa a piedi nudi, tutt’altro che nasuti, meritevoli di jeans e di tutta la cornucopia della moda e della vita in generale.
E così, stordita da una annaffiata di lozione indescrivibile e vivificante, per profumare ogni cellula del corpo, e resa euforica da più visioni d’impareggiabili interpreti dell’arte del dimagrimento e rassodamento, ho varcato lo soglia di un club specializzato per lo sviluppo del fisico, riduzioni di peso, massaggi elettrici e manuali, cinture vibratorie, bagni di ossigeno, solarium, jet, spa, cyclette. Mi sono impegnata con un contratto di 333 sedute, contro alcuni mesi di stipendio in trenta rate, con l’offerta speciale di cinque massaggi e la depilazione gratuita a scelta tra baffi, barbetta e sopracciglia. Ad ogni seduta mi convincono che mi avvicino sempre più pericolosamente al mio ideale. Porto: Riccioli d’amore, trattati con shampoo e doposhampoo estremamente delicati.
– Arcate sopracciliari e palpebre inferiori ombreggiate da una tinta tenebrosa all’esterno, romantica all’interno, e da un tocco di bruno selvaggio in basso.
– La pelle pervasa da un colore paglierino come l’epidermide dei polli di trascorsa memoria, per l’azione della lampada al quarzo, congiunta con quella del fard suscitatore di abbronzature permanenti in qualsiasi periodo dell’anno a qualunque latitudine e clima. — Un bel personalino di gomma, da stringere a volontà nelle calzemaglie e allentare nel bikini, e capace di numerose altre espressioni.
Ora che sono scomparsi i cuscinetti di grasso, piccoli noduli solitari fluttuano sottopelle e al sole tremolano in massa, come un campo di fiori sparsi, mossi dalla brezza; le smagliature biancheggiano all’aria, souvenir di bellezza, di spume da vasca, che sopperivano la ovvia mancanza di alghe marine e cospiravano a sciogliere i soliti grassi, espellere l’eccesso di umidità nei tessuti, per la formazione di un pancino veramente teso e marmoreo. Devo ammettere, però, che, a parte la consistenza un po’di guttaperca della carnagione, malgrado le diete di salute, gli anoressici e l’uso indiscriminato di gelatine da spalmare senza risparmio fino alla vittoria finale, braccia e cosce tendono a sventolare e a scollarsi progressivamente dallo scheletro.
Ma nelle luci delle profumerie, dei caroselli TV, dei giornali, dietro un dopobarba brut frizzante e preziosi sali che sanno di erba falciata ho intravisto l’unguento che saprà combattere la pelle a buccia d’arancio, la superficie capitonne del mio corpo, che, in stato di rilassamento ricorda davvero un poco i materassi della nonna, prima che venissero ribattuti dal tappezziere. Intanto, continuo a farmi avvolgere dentro rotoli di bende di caucciù, dai piedi allo stomaco, a farmi stirare da malnate poliercoline unisex, issare come una gerla, vibromassaggiare e altro, a serie di sei ripetizioni ciascuna, per stimolare la crescita di un eccellente tessuto nuovo, efficiente, indeformabile. Quando sono colta dallo sconforto, m’incoraggia da vicino un nobile esemplare di vichinga di chissà quale osmannoro, senza glutei, senza lombi, senza mammella, ma con arti sontuosamente congiunti al tronco, e m’infonde speranza dai suoi vent’anni a perseverare sul cammino che mi farà rivivere la Splendida Freschezza del Mattino, su modulazioni di filodiffusione, per un energico massaggio anche del cuore.