lavoranti a domicilio in Umbria

febbraio 1976

«Da signorina ho lavorato come supplente in una scuola elementare; poi la guerra, le scuole chiuse. Sono tornati i reduci, Il primo concorso c’è stato nel ’48. Io ci ho provato, ma non ho avuto fortuna, c’erano tanti uomini in cerca di lavoro. Il secondo concorso c’è stato nel ’50, ma avevo appena partorito e non ho potuto parteciparvi; poi nel ’52 aspettavo il secondo figlio, nel ’54 l’ultima era troppo piccola e non potevo lasciarla sola. Abitavo a Fossato un paesino vicino a Perugia, avrei dovuto prendere il treno per andare a lavorare. Mio marito lavorava alle ferrovie, lo stipendio si sa è ancora oggi bassissimo. Mi diceva di non preoccuparmi: «Lascia perdere, si camperà lo stesso». Ma poi è arrivato il terzo figlio e ci siamo trasferiti a ‘Perugia. Ho cominciato a lavorare come ricamatrice a domicilio per guadagnare un po’ di soldi e stare a casa a badare ai figli».

«Io ero l’ultima di sei figli maschi. I miei fratelli hanno tutti imparato un mestiere. Io ero l’unica femmina. Mi sarebbe piaciuto andare a Perugia a studiare, ma il babbo era tanto geloso. Fin da bambina andavo all’asilo dalle suore, perché la mamma aveva tanto da fare in casa, e ci stavo tanto volentieri. I miei genitori hanno deciso che sarei rimasta lì, le suore mi hanno insegnato tante cosine. Eravamo 60 ragazze a cucire e ricamare per la Chiesa o per qualche corredo. Quando avevo circa 14 anni una ditta si è rivolta al convento per il ricamo della biancheria. Abbiamo cominciato a guadagnare. Ci davano 1.200 lire a lenzuolo, ci volevano anche 15 giorni per finirne uno. Lavoravamo otto ore al giorno e si pregava molto. Dalle suore ci sono stata fino a quando mi sono sposata, avevo 20 anni».

«Il lavoro a domicilio è un fatto tipicamente femminile, perché nell’azienda la donna rappresenta una spesa eccessiva. Personalmente eviterei nel modo più assoluto l’assunzione di donne.

Non perché le donne non rendono, anzi, sul lavoro sono migliori dell’uomo, però costano di più complessivamente (assenteismo, maternità, allattamento, no a certi turni di lavoro, no ai turni di notte, no agli straordinari). Con il lavoro a domicilio certi oneri insostenibili si riducono; si trova molta manodopera a più buon mercato, le lavoranti si qualificano a spese loro. Non essendo assunte come dipendenti se le cose vanno male i contatti cessano senza che nulla sia dovuto. Meglio ancora se si organizzano consorzi o piccole aziende, le responsabilità e molte spese si scaricano tutte su di loro.». «Si realizza questo ottimamente nei monasteri essendo le suore ottime lavoratrici e avendo molto tempo a disposizione».

Con il lavoro decentrato le aziende riescono a risparmiare dal 35% al 50% di quello che gli costerebbe una produzione in fabbrica. Pare che nel ’72 siano stati risparmiati (o meglio sottratti alle lavoratrici) a vantaggio delle aziende 257 miliardi.

Le lavoratrici a domicilio sono circa 1 milione e mezzo (quanto i metalmeccanici) di cui 85% sono donne. Generalmente si tende a credere che questo tipo di lavoro sparisca con lo sviluppo industriale, invece è andato aumentando ed ha assunto mano mano una forma stabile di organizzazione industriale. Negli ultimi dieci anni c’è stato un forte calo dell’occupazione femminile che non può essere attribuita, come vogliono farci credere, al miglioramento del tenore di vita che permette alla donna di stare in casa, ma deve essere cercata nella crisi di quei settori dove è più impegnata la manodopera femminile come l’industria tessile, dell’abbigliamento, l’agricoltura.

La donna che lavora a domicilio tende a considerarsi casalinga e il lavoro una attività integrativa alle funzioni domestiche. Spesso il padre o il marito vedono di malocchio l’uscita della donna da casa e preferiscono che lavorino a domicilio. Generalmente le donne lavorano per far quadrare il bilancio familiare; il carattere unicamente economico e la condizione di inferiorità della donna fanno si che il lavoro non diventa un fattore di emancipazione, né tanto meno di auto-affermazione. Il lavoro è concepito per l’uomo, ma le

donne sono diverse, hanno altri bisogni, altre esigenze. Una lavoratrice deve adattarsi al mondo del lavoro che è creato per l’uomo. Si introducono leggi migliorative per aiutare la lavoratrice-madre o la gestante, ma queste leggi finiscono a volte per ritorcersi contro la donna e discriminarla.

«Quelle che lavorano a domicilio non hanno grilli per la testa». «Se ci ribelliamo siamo considerate oziose, vagabonde, fanatiche».

«Ricamo otto ore al giorno e in certi periodi anche 14 ore. Quando mi fanno male gli occhi faccio’ dei bagnoli e ricomincio. Guadagno dalle 30 alle 50 mila lire al mese. Forse sembra stupido darsi tanto da fare per una somma così piccola, ma a me servono anche 500 lire, e molto. Qualche anno fa ci siamo ritrovate tutte senza lavoro all’improvviso. Abbiamo deciso di andare a parlare con il datore di lavoro per chiedergli spiegazioni. Eravamo 32 donne, ma il giorno dell’incontro eravamo solo in 5, le altre avevano avuto paura. Da allora sono diventata la pecora nera. Incontravo tanta gente che mi diceva: «Ma che t’è preso?

Non mi sarei mai aspettato una cosa simile da te».

«Due anni fa ho sentito in televisione che era passata una legge per le lavoranti a domicilio, ne ho parlato con l’intermediario, ma mi ha risposto che noi non eravamo vere e proprie lavoranti a domicilio perché il nostro lavoro è… sportivo, così l’ha definito.

Sono tanti anni che, quando ho un po’ di tempo libero dai campi, faccio delle maglie per una azienda che credo sia a Firenze. Mio marito non ci vede quasi più. Lavorava sull’Autostrada del Sole e del catrame gli è entrato negli occhi, è stato operato sette volte senza successo. Ora lavora come pastore, ma se piove le pecore non vengono portate al pascolo e lui non viene pagato. Per forza devo fare la maglia! Non abbiamo mai tentato di ribellarci, di chiedere più soldi, c’è sempre chi per bisogno è disposto a lavorare a meno».

«Noi delle Waimer siamo le uniche nell’Umbria ad esserci organizzate sindacalmente. All’inizio eravamo solo 5 o 6 decise a voler cambiare la situazione. Ci siamo messe a contatto con la CGIL. Capivamo che solo tante donne unite avrebbero potuto cambiare qualcosa. Quando le altre lavoratrici della Waimer andavano a consegnare le scarpe, noi le fermavamo e parlavamo. Molte avevano paura. Alla fine si sono iscritte al sindacato novanta lavoratrici. Tutte eravamo molto occupate e non potevamo lasciare la casa, così è stato deciso che sarei stata io a seguire la maggioranza delle riunioni. I nostri mariti erano quasi tutti d’accordo sulla lotta che portavamo avanti, ma erano un po’ diffidenti. A volte si stancavano perché capitava di stare fuori casa e la cena era fredda.

L’uomo certe cose non le sa o non le pensa. Loro prendono lo stipendio ma chi lo sa amministrare siamo noi.

Pensano di lavorare più di noi, ma non è vero noi facciamo le .scarpe anche 8-9 ore al giorno, è un lavoro pesante da «uomo», abbiamo tutte le mani tagliuzzate, poi c’è il bucato, la cena, la casa, i figli. Il lavoro ci ha rimbambite, siamo meno aggiornate, meno aperte, meno moderne, meno brillanti dei nostri mariti, ma non abbiamo neppure il tempo di guardare la TV o di leggere un giornale. Anche quando vengono gli amici di mio marito la sera a me piacerebbe sentirli parlare, ma non ho tempo. Gli uomini stanno meno a casa e hanno la possibilità di seguire più cose.

Organizzate sindacalmente siamo riuscite ad ottenere un po’ più di soldi per ogni paia di scarpe, i datori di lavoro non ci maltrattano più come una volta e tutti i contributi ci vengono versati. E’ molto bello poter parlare, discutere, non sentirci più sole ed emarginate. Se abbiamo un problema sappiamo a chi rivolgerci, prima ci toccava star zitte».

«Mi piacerebbe poter uscire, cercare un altro lavoro, ma è stato impossibile entrare in fabbrica. Prima, appena sposata dovevo badare a mia suocera che era molto anziana, poi la prima figlia, subito dopo la seconda. Se avessi lavorato avrei dovuto trovare qualcuno che restasse in casa, ma mi veniva a costare quanto quello che avrei guadagnato.

Ora non mi assumono perché sono troppo anziana. I figli sono tutti grandi e non sono mai a casa, mi sento sola.

Le operaie stanno meglio di noi, sono donne emancipate, rispettate, ben viste. Noi no; lavoriamo clandestinamente, siamo sole, emarginate, disprezzate».

«Con le operaie interne alla Waimer all’inizio c’era un po’ di tensione perché le lavoratrici a domicilio vengono usate dai padroni contro le operaie. Per esempio a Gubbio le operaie interne pensavano che se la Waimer avesse assunto delle lavoratrici . a domicilio avrebbe avuto la produzione garantita e non avrebbe così fatto costruire la nuova fabbrica per la quale si battevano. Ora i rapporti sono migliori, soprattutto con le operaie interne di Sassoferrato dove la Weimer ha la sua fabbrica principale.

All’inizio della lotta l’azienda ha tentato di scoraggiarci. A noi organizzate sindacalmente ci davano da fare le scarpe con il pellame durissimo. Abbiamo protestato, ma ci hanno rispo-

sto che per l’azienda non c’è pellame duro o morbido, ma che le scarpe vengono pagate, più o meno; a seconda del modello».

«Pensavo di tirare su un po’ il prezzo degli ultimi scialli ricamati, ma mio marito è in cassa integrazione e sarò costretta ad accettare qualunque prezzo mi proporranno».

«Anche la Weimer è in cassa integrazione e noi non abbiamo lavoro. Non sappiamo cosa faremo esattamente, forse ci batteremo per il salario garantito».

Si è aperta una vertenza a livello regionale, ma purtroppo non c’è un movimento capace di sostenerla. La paura, la disinformazione, la divisione fa si che le lavoratrici siano ancora le «destinatarie» di un discorso che le riguarda, ma dove non sono le protagoniste. «L’unica possibile soluzione è quella di uscire dalla clandestinità, dall’omertà e organizzare leghe di lavoratrici a domicilio. Solo quando le donne saranno tutte unite si potranno portare avanti delle lotte vincenti».

 

IL LAVORO A DOMICILIO

IL CASO DELL’UMBRIA

ed. De Donato

collana Movimento Operaio (24)

di Franco Crespi, Roberto Segatori,

Vinicio Bottachiari