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lavorare in un giornale maschile

alle compagne di Lotta Continua abbiamo chiesto una testimonianza dato che si tratta dell’unico collettivo femminista che lavora nell’ambito di una struttura maschile.

luglio 1978

nel rispondere all’invito delle compagne di Effe, di scrivere qualcosa sulla nostra esperienza di redazione-donne in Lotta Continua, utilizziamo in parte materiale di riflessione già pubblicato su LC in occasione del seminario sul giornale in aprile e del convegno donne e informazione in giugno.

Fare il bilancio di un anno e mezzo del nostro lavoro, per noi, più che riflettere sul significato «giornalistico» significa verificare se esso ha rappresentato una possibilità di crescita reale e di pratica femminista. Sicuramente la scelta di creare uria redazione-donne dentro un giornale maschile, con una eredità pesante — nel bene e nel male — qual è quella di Lotta Continua, sembrava contraddire a priori alcuni dei contenuti fondamentali che ci aveva insegnato il femminismo. Sembrava che noi, invece di portare a fondo con spregiudicatezza una rottura con il nostro passato, ne rivendicassimo invece, una sorta di continuità che appariva a molte compagne come profonda dipendenza psicologica, affettiva e ideologica. Sembrava impossibile garantire autonomia, praticare il separatismo in un ambiente di lavoro pieno di uomini, dentro un giornale governato e caratterizzato dalla presenza e dalla cultura maschile. Inoltre proprio nel momento in cui il movimento femminista approfondiva la sua analisi sulla storica espropriazione della donna dalla parola, dalla scrittura, dalla politica, noi iniziavamo un lavoro collettivo fondato sull’uso della parola, della scrittura all’interno di un giornale per definizione politico. Si potrebbe continuare all’infinito nell’elencare le ragioni per cui il lavoro che avevamo scelto di fare appariva assolutamente inconciliabile con una pratica femminista.
Vogliamo invece partire dal dato sconcertante, che tutte noi ci sentiamo di riconoscere; questa esperienza ci ha fatto crescere molto, è stata una pratica tra donne di una intensità senza paragone, e che ci sembra valga la pena di continuare.

La prima contraddizione che è venuta fuori nel nostro lavoro è stata quella tra chi di noi aveva un precedente rapporto con la scrittura,e le veniva facile comunicare scrivendo, e chi invece non si era servita di questo mezzo di espressione. La facilità a scrivere diventava subito potere ed espropriazione delle altre. L’autocensura d’altra parte non sembrava una soluzione liberatoria per chi aveva questo potere.
Abbiamo cercato di affrontare il problema di scrivere in modo «diverso», di superare uria logica individuale, cercando di fare in modo che tutto quanto facevamo fosse il prodotto di una discussione collettiva, fatta con il metodo dell’autocoscienza; compresi i titoli, gli occhielli, la scelta delle priorità rispetto al materiale da pubblicare, la responsabilità di non pubblicare o di tagliare gli articoli, i giudizi politici ecc. Tutto questo ha voluto dire prendersi del tempo, dello spazio, che entrava in contraddizione coi tempi di un giornale quotidiano. Subordinare la produttività alle esigenze di questo metodo di lavoro; imporre ai compagni l’accettazione del nostro modo di lavorare, All’inizio, in modo forse difensivo, il nostro atteggiamento nei confronti del resto del giornale era di totale estraneità. Ci sentivamo forti della forza del movimento, dell’esperienza di Rimini, e vedevamo inoltre nei compagni l’altro polo della contraddizione, ma anche la possibilità di una dialettica stimolante. In coincidenza non casuale con la nascita del movimento 77, il nostro coinvolgimento nel progetto complessivo del giornale, la voglia di renderlo uno strumento, di dibattito e di ricerca sempre più spregiudicato, il desiderio di combattere le vecchie idee che tornavano fuori con forza nel nuovo movimento e nei compagni del giornale ci ha spinto ad un diverso rapporto con l’insieme della redazione.

Dobbiamo però riconoscere che il nostro «collettivismo» si è spesso ridotto ad una routine formale, ad una forma di controllo reciproco piuttosto che ad una vera elaborazione in cui ci fosse spazio per la creatività di ciascuna. Anche se non possiamo negare che l’autonomia individuale di ciascuna di noi è cresciuta in questi mesi, e così il processo di riappropriazione della parola e della scrittura, anche se le differenze tra noi sono rimaste profonde e talora violente, Questo del rapporto tra lavoro collettivo ed espressione individuale, è uno dei nodi centrali che ci troviamo ad affrontare in questo periodo ed in generale l’analisi del potere «brutto» che si crea tra noi, quando è gerarchico, imposto dall’esterno e dal livello di prestigio concesso a ciascuna dal riconoscimento dei maschi, e quando invece è un altro tipo di potere che nasce dalla diversità, dalla maggiore capacità espressiva di una rispetto all’altra, dalla diversa creatività di ognuna.

Per chi come noi è partita dall’ipotesi di informare su movimento e nel movimento per far conoscere l’esperienze e le flotte delle donne, oggi le nostre .difficoltà sono conseguenza diretta della trasformazione del movimento. Crediamo bisogni diffidare della parola «crisi» perché presuppone l’uso di “categorie di interpretazione sulla vitalità di un movimento che ci sembrano incompatibili con la «natura» del movimento femminista: ad esempio, «in crisi» perché non fa grandi manifestazioni? E «in crisi» perché molti collettivi si sono sciolti? …È vero però che il movimento si è trasformato in modo tale che non si presta più ad essere raccontato come prima si poteva fare e come a noi sembrava possibile fare. Noi stesse spesso abbiamo un’impressione spiacevole riguardando le pagine che facciamo, ed anche ciò che esce su altri giornali anche quelli fatti da donne, come Effe o come Quotidiano Donna: l’immagine che esce del movimento femminista attraverso i comunicati, le cronache di un’assemblea, il racconto di una mobilitazione, il commento femminista ad un fatto, è di una piattezza sconcertante, tanto che ci sentiamo per prime mortificate per l’immagine riduttiva banalizzata che diamo di noi e delle nostre lotte.
L’orrore che talvolta ci prende a rileggere il nostro linguaggio, i «fervorini» femministi, le frasi rituali sulla «violenza» contro le donne, il «bisogno di spazi» la ricerca di «identità» …Il fatto è che il movimento, il processo di trasformazione che attraversa migliaia di donne è altro da ciò. È a partire da queste considerazioni che da alcuni mesi abbiamo cominciato a discutere il progetto di due pagine quotidiane di donne con altre compagne che, pur non facendo parte della redazione, vi erano interessate. Con loro abbiamo dato vita ad una sorta di relazione allargata, con momenti di incontro settimanali che servano a cambiare il rapporto tradizionale collaboratrici-redattrici, nell’intenzione di costruire un gruppo di lavoro con una pratica di discussione e di ricerca collettiva al suo interno. Le difficoltà non sono poche, abbiamo un grosso entusiasmo e siamo già riuscite a elaborare insieme alcune pagine. Tra di noi, ancora una volta, siamo molto diverse, non solo per età, ma anche per formazione politica e culturale, oltreché naturalmente per gli ambiti di vita e di lavoro che ciascuna ha. Diverse anche le motivazioni che ci hanno portato a scegliere un giornale come Lotta Continua: solo alcune erano legate ad una storia passata di militanza nell’organizzazione.
Siamo però tutte convinte che il giornale non solo debba dare voce al movimento nei suoi vari aspetti e alla realtà più in generale delle donne, ma debba anche fornire strumenti di stimolo e di conoscenza a noi stesse e a tutte le compagne. Per questo abbiamo privilegiato alcuni filoni di analisi e di ricerca da approfondire che si affiancano alla cronaca, all’inchiesta e alla testimonianza: un approccio alla letteratura e non solo alle cose scritte dalle donne, recensioni, impressioni, su libri o spettacoli, la storia delle donne e del movimento femminista, la psicoanalisi… ma fin dall’inizio ha cominciato a svilupparsi tra noi la discussione sul nostro rapporto con la lettura e la scrittura, con la politica e la cultura, più in generale. Ad esempio, durante il caso Moro, abbiamo sentito il bisogno di confrontarci, spontaneamente è nata una discussione in termini di autocoscienza sulla bellezza e sulla bruttezza.
Questo lavoro è solo all’inizio e speriamo che anche con la collaborazione di tutte le compagne in Italia che ne avessero voglia, diventi più bello.