lavoro nero sì pensione no

per Luciano Lama il lavoro nero corrisponde alle nostre necessità fisiologiche. Leggere per credere.

settembre 1978

negli ultimi mesi tutta la stampa, anche e soprattutto quella cosiddetta di sinistra, si è battuta con sacrosanta indignazione e abbondanti toni da crociata contro gli sprechi dello stato assistenziale, la cui manifestazione più eclatante sarebbe costituita dall’inflazione delle pensioni di invalidità.
«Abbiamo fatto della pensione di invalidità un cattivo sostituto del salario — afferma il ministro del Tesoro in una intervista a La Repubblica del 2/6/78 — ancorandola non tanto alla capacità di lavoro quanto alla condizione socio-economica del soggetto… Si è instaurata la pratica di una minuta elemosina dilapidatrice”. «L’Italia corporativa- incalza Eugenio Scalfari su La Repubblica del 9/10/77 -vive assai più di pensioni che di lavoro produttivo…. bisognerebbe che gli italiani riacquistassero il gusto del rischio, dell’intrapresa, dell’efficienza, dell’A ciascuno secondo il suo lavoro”. Quest’ultima affermazione potrebbe anche trovarci consenzienti, ove non sapessimo che quando la società maschile parla di lavoro è sempre ben lungi dal comprendervi il lavoro domestico. In un altro numero dello stesso giornale si afferma infatti che la maggior parte delle pensioni di invalidità sono da considerarsi «abusive”, come è dimostrato dal fatto che la maggior parte dei titolari sono donne. Gli effetti di questa crociata sono registrati dall’informazione dei giorni successivi. La Repubblica del 9/6/78 può annunciare con soddisfazione che «più della metà delle 683 mila domande giacenti presso l’I.N.P.S. saranno respinte». Possiamo essere certe che la maggior parte di quelle domande sono di donne, costrette a casa dal lavoro domestico, oltre che dalla scarsità di lavoro «ufficiale” e dalla disponibilità di lavoro nero. Pertanto cercano di ottenere in tutti i modi possibili una pensione di invalidità: talvolta riescono a farsi versare per il tempo occorrente i contributi previdenziali da un datore di lavoro vero o fittizio, poi continuano a pagarsi i contributi volontari per i cinque anni necessari per chiedere la pensione di invalidità. È chiaro che dopo i cinquant’anni è abbastanza facile ottenerla: dopo una vita di lavoro, domestico e, non, gli acciacchi e i motivi di invalidità non mancano.
Questa pratica di riappropriazione è oggi un comportamento di massa. Le donne praticano questa ed altre forme sotterranee di lotta, essendo nell’impossibilità di praticarne di più esplicite a causa della pesantezza dei loro ritmi lavorativi e del loro isolamento, condizioni che il sistema si garantisce attraverso la loro dipendenza e ricattabilità dagli uomini. Ma oggi anche questa possibilità di avere un po’ di soldi nelle proprie mani sta andando in crisi, mentre il lavoro domestico tende, ad aumentare invece che a diminuire: il taglio della spesa pubblica vorrà dire soprattutto meno servizi sociali, ed in quest’ottica riteniamo debba venir considerata anche la chiusura dei manicomi, al di là delle buone intenzioni di chi se ne è fatto promotore. Leggiamo sul Corriere della Sera del 3/6/78:
«Tutte le mattine Elia, cerebropatico, esce dal manicomio di Parabiago e trascorre la giornata nel Centro per handicappati gravi di Legnano…. Le domeniche le trascorre a casa con la madre e la sorella. Dopo un tentativo fallito di recuperarlo alla vita domestica, la famiglia lo ha restituito al manicomio…. Anche quelle poche ore della domenica sono un inferno… Ora la direzione dell’ospedale psichiatrico ha informato la madre che la legge impone la chiusura del manicomio…” Ci coglie il sospetto che anche a questo alludesse Scalfari, parlando del gusto del rischio e dell’efficienza, necessari per far quadrare i bilanci dello stato. E a proposito di rischio, aggiungiamo che oggi il matrimonio non garantisce più nulla alle donne: ci si può ritrovare ripudiate alle soglie della vecchiaia con assegni irrisorie e briciole di pensione, come riferiamo in altro articolo.
Non per nulla La Repubblica dell’11/6/78, lamentando l’eccessiva munificenza dello Statuto dei Lavoratori, afferma: «Oggi è più facile sciogliere un vincolo matrimoniale che un rapporto di lavoro (e non è, si badi, una battuta qualunquistica)». Sfugge naturalmente al nostro giornale che nella società capitalistica il matrimonio non è altro che Un contratto di lavoro domestico, necessario per trasformare anche l’amore in plusvalore, un contratto capestro con molti doveri e pochi diritti, regolato dal codice civile anziché dallo Statuto dei diritti dei Lavoratori. Le donne che rivendicano una pensione di invalidità e le divorziate che difendono i loro diritti sono due esempi, importanti ma non unici, di donne in lotta sui loro bisogni immediati e quindi sulle condizioni del loro primo lavoro, a partire dalla sua gratuità. Anche se queste lotte, non rientrano negli schemi della sinistra ufficiale e di parte del Movimento Femminista, dall’area del Salario al Lavoro Domestico noi le consideriamo un grosso momento di forza e di autonomia, dal quale non si può prescindere, se vogliamo creare una strategia ed una organizzazione autonome per essere in grado di reagire allo sfruttamento che tutte subiamo in quanto donne, oggi acuito dalla crisi. Nel frattempo la sinistra maschile ha ormai messo da parte ogni ritegno nella sua consueta e collaudata pratica di abbandonare completamente le donne alla totalità del loro sfruttamento. È dell’altro giorno l’intervista all’Unità di Luciano Lama che definisce il lavoro riero «un fenomeno che corrisponde alla necessità fisiologiche di Una parte della popolazione», dando così la sua ufficiale autorevole benedizione all’ «istituzionalizzazione” (ahimé molto antica) del lavoro nero sottopagato come conseguenza necessaria del lavoro domestico gratuito. E poi saremmo noi quelle che vogliamo «istituzionalizzare» il ruolo femminile! Intanto nel Movimento Femminista, anche al di fuori dell’area del Salario al lavoro Domestico, qualcuna si accorge che «cambiare la nostra vita è certamente riscoprire la nostra creatività e sessualità, ma è anche reagire alla violenza che la crisi scarica contro di noi” (dal documento del Collettivo Romano di Lettere), oppure che: «Soggetto donna: la sfruttata e la non garantita per eccellenza; da qui e non da altro puntoci vista bisogna partire», (da EFFE, maggio1978) Fusse che fusse la volta bbona!