lettera aperta su donne e stato

la coscienza non ha Potuto trasformare la vita quotidiana, l’ha resa forse ancora più amara e difficile da sopportare.

maggio 1978

care compagne,
vorrei aggiungere alcune riflessioni alle valutazioni contenute nei due articoli apparsi su Effe di Aprile, a proposito della .richiesta, fatta al movimento in occasione del convegno sulla violenza, di schierarsi «contro il terrorismo per la democrazia», Mi è sembrato innanzitutto importante il metodo con cui il problema è stato affrontato. Pur non condividendo fino in fondo nessuno dei due articoli, il rendere esplicito un dissenso all’interno della redazione è senz’altro, per noi «lettrici» del giornale, un incoraggiamento ad intervenire nel dibattito e uno stimolo all’approfondimento.
È un passo in avanti per superare quell’equidistanza da ogni opinione che ha talvolta caratterizzato Effe, impedendo le di svolgere funzione di presenza viva nel movimento e fra le donne di cui pure si sente il bisogno. Ma entriamo nel merito della questione. La richiesta pressante di prendere una posizione sul terrorismo e sullo Stato non è stata rivolta solo alle compagne presenti ali convegno sulla violenza, quanto, mi sembra, a ciascuna di noi, attraverso la radio, la tv, i giornali e i mille inviti, appelli, dichiarazioni più o meno ufficiali che ci sono piovuti addosso nei giorni e nelle ore immediatamente seguenti al rapimento di Moro.
Ma più che di una risposta chiara e precisa, ho avuto l’impressione che ci venisse la richiesta di una risposta emotiva, senza pensare, senza riflettere, come se già tutto fosse chiaro, colpevoli e innocenti, Al «perché» e «a vantaggio di chi».
Voler capire con la propria testa diventava quasi un crimine, una complicità agli occhi di quanti avevano tra le mani l’occasione di carpire una delega e riempire il tuo rifiuto del terrorismo di una serie di contenuti che niente hanno a che vedere con quelli per cui da anni, pagando di persona, ci battiamo.
Furbescamente si è cercato di scrivere sulla stessa bandiera cose molto diverse. Essere contro il terrorismo, infatti, non equivale necessariamente a riconoscersi nelle istituzioni, a sentirsi garantite dalla democrazia e dallo Stato borghese, ad appoggiare senza discutere il governo dell’accordo a sei.
Non significa rinunciare — per assurgere come movimento ad una malintesa dignità politica — ai propri tempi di crescita e a marciare sui propri contenuti. Né tantomeno all’autonomia del proprio dibattito interno, che è pur sempre uno specchio della realtà e delle nuove forme in cui oggi si esprimono le nostre contraddizioni di donne. Ad tentativo di metterci alle strette, possiamo e dobbiamo rispondere sviluppando la nostra capacità di fare autocoscienza: non solo sul personale, sul privato, ma su tutto ciò che è politico, che noi rifiutiamo e che ci rifiuta, ma tuttavia che ci opprime, ci condiziona, ci determina? Non una adesione alla logica delle istituzioni, quindi, ma il saper cogliere come, ad esempio, i nuovi compiti e gli strumenti che questo Stato si sta dando, e che il rapimento di Moro ha solo accelerato, determineranno fino in fondo da possibilità del movimento di esistere, di esprimersi, di scendere in piazza, di lottare; determineranno fino in fondo la vita di tutte noi, di ogni donna. Ma il bisogno di discutere tra di noi tutto ciò non ci viene solo dall’esterno. Forse troppi si illudono sulla cosiddetta «crisi del femminismo» è in atto tuttavia in molte compagne un momento di ripensamento, di bilancio di anni e anni di militanza femminista. La coscienza non ‘ha potuto trasformare la vita quotidiana, d’ha resa forse ancora più amara e difficile da sopportare. Non ci può essere coesistenza pacifica tra la spinta interna alla riappropriazione di sé e una società che ha bisogno, per sussistere, di negarti come persona e come movimento.
L’esitare, d’arrestarsi di molti momenti di lotta di fronte al problema del rapporto con le istituzioni, porta con sé la necessità di una riflessione più profonda del rapporto con la società tutta. Eppure il rapporto c’è, ed è evidente nella facilità con cui vediamo riproposti i nostri slogans da interessi che sicuramente non hanno niente a che vedere con le donne, nel tentativo su larga scala di assorbire il femminismo, almeno a livello di parola o di linguaggio, in ogni occasione, dai dibattiti alla TV ai convegni «sulle» donne, ai manifesti per l’8 marzo che ogni partito si è sentito in dovere di fare. Ci viene imposta una identità (in cambio forse di «protezione» politica?) ma noi chi siamo? Da dove veniamo? Ecco, nelle risposte a queste domande è molto rischioso dare qualcosa per scontato, consentire o delegare di essere definite. E poi: cosa vogliamo? Degli spazi per «le idee delle donne» (espresse naturalmente da quelle «rappresentative») la parità, il potere degli uomini equamente diviso a metà, l’emancipazione per qualcuna, o una lotta che veda identificata la nostra crescita con lo sviluppo della nostra autonomia di idee, di prospettive, di speranze, rispetto alla società e allo Stato che si fondano sulla nostra oppressione. Parlare dello Stato, quindi, significa ancora una volta parlare di noi, della famiglia, del quotidiano, del lavoro non pagato e del lavoro nero, significa parlare degli ospedali in cui la nostra salute diventa merce, e dei manicomi in cui rinchiudono da nostra insubordinazione.
Significa parlare delle piazze, in cui ci è sempre più difficile scendere, e delle leggi grazie alle quali si perpetua la nostra oppressione in nome dell’unità nazionale.
Parlare dello Stato significa, ancora, parlare di violenza, che è il modo in cui tutto ciò ci viene viene imposto, che arriva fino a dentro di noi, per cui ancora in troppe non distinguiamo i nostri interessi, non ci ribelliamo, non lottiamo per raggiungerli. La lotta contro questa violenza non ci può essere estranea, anzi, oggi ci impone livelli diversi di dibattito, modi nuovi di presenza fra le donne, riflessioni più approfondite sui metodi di lotta.
Nessuna scorciatoia, quindi, a beneficio altrui, ma l’apertura di un dibattito tra tutte ci farà fare dei passi avanti.