INTERVISTA

memorie d’oggi e marguerite

marguerite yourcenar, una delle più note scrittrici contemporanee parla finalmente di sé non attraverso i suoi personaggi, ma in prima persona, i valori, i riti, qualche, lotta, la vita, l’oriente, la morte, l’antifemminismo: il suo

aprile 1982

Pellegrinaggio a “Petite Plaisance”, questo il nome della graziosa casa di legno dove abita Marguerite Yourcenar, negli Stati Uniti, circondata da foreste e da uccelli.
Vive qui da più di trent’anni, ricevendo con grande cortesia i giornalisti che vengono a disturbarla e da qualche tempo l’afflusso dei visitatori si è intensificato.
L’autrice di numerosi romanzi, saggi, traduzioni, non è più soltanto un classico vivente, un’immortale potenziale. Molti dei suoi libri e in particolare “Memorie di Adriano” figurano fra i best sellers. Vengono rappresentate in teatro alcune sue opere scritte quasi una generazione fa. Sembra essere diventata una scrittrice alla moda. La frase la fa ridere, lei che detesta le mode, e la moda in particolare. Maliziosa Marguerite Yourcenar. Due occhi di un blu molto pallido, uno sguardo sorprendentemente attento all’altro, agli altri. La cosa che colpisce di più: una semplicità aristocratica, che al di là dell’accoglienza sorridente, esprime come una regola di vita. Alcune cose — poche — sembrano essere essenziali: i valori, i comportamenti, qualche lotta. È di questo che abbiamo parlato. Ma non solo di questo. Conoscevo Marguerite Yourcenar per averla incontrata all’epoca in cui stava ultimando la seconda parte dei suoi ricordi familiari. In quel periodo, eludeva tutte le domande personali con un sotterfugio: Adriano o Zenone, quelli che chiama i suoi “migliori amici”, facevano irruzione nella conversazione rispondendo per lei, rievocando ciò che avevano detto, pensato, fatto, loro, in tale o talaltra circostanza. Identificandosi con questi grandi uomini, lei non capisce niente — nulla vuol comprendere — del movimento femminista. Tuttavia è da donna sensibile che reagisce quando accetta, di schiudere le imposte del suo mondo interiore. Da donna che sa cosa significa soffrire. E vivere. E morire. Rievochiamo la scomparsa recente di colei che fu la sua traduttrice e la sua compagna di vita per più di quarant’anni. Mentre accarezza Zoe, la sua cagna, mormora: “Sentiamo molto la sua mancanza, vero?”. E sono venute altre frasi. Per me, per voi. Eccole.
Lei è stata la prima donna nominata Accademica di Francia. Da allora, nuove generazioni di lettori hanno avuto la curiosità di leggere i suoi libri che sono andati esauriti… Naturalmente so che i miei libri si vendono bene. E molte persone mi scrivono, ne sono quasi soverchiata. Spesso mi sento — può sembrare strano a dirsi — al livello delle generazioni più giovani piuttosto che a quelle della mia età per non dire di più. Mi sento molto vicina alla gente qualunque, quella che legge i miei libri.
Secondo lei, chi scopre oggi “Memorie di Adriano ” lo legge come avrebbe fatto, nel 1951, epoca della sua pubblicazione? Può sembrare ingenuo da parte mia ma all’epoca in cui scrissi questo libro, vale a dire fra il 1947 e il 1951, noi avevamo quella specie di mezza euforia in cui ci si sente spesso alla fine di una guerra. Ci si dice che le cose possono forse aggiustarsi e che non vanno poi così male come sembrava sei mesi prima; che il mondo crollato va aiutato nella sua ricostruzione su delle basi più ragionevoli, più sagge, più visibili. Questo mi permetteva di immaginare un uomo il cui motto era “La terra stabilizzata, la terra restituita”. Capivo finalmente l’immenso sforzo di Adriano per ricostruire le finanze, reinstaurare una cultura, governare delle Provincie in parte indipendenti dal governo centrale… Oggi, ancora mi dico che un uomo di buona volontà potrebbe molto. Credo di aver perduto un po’ del mio ottimismo, dell’ottimismo che lo stesso Adriano perde alla fine della sua vita, giacché pensando alla guerra di Palestina, si rende conto che le conquiste che ha fatto non saranno durature.
Ma io continuo a credere che ciascuno di noi possa molto.
la solitudine? un falso problema
Come si svolge la sua vita quotidiana? Riceve molte visite? Mi alzo presto perchè non dormo molto bene, guardo la luce alla finestra e mi dico — sto per darle un colpo — una frase dei salmi; “Ecco un giorno che il Signore ha fatto”. Badate, che quando dico il Signore, non so nemmeno io cosa voglia dire. Può essere Isvara questo dio che si è creato dentro di sé per la mistica induista. A forza di cercare un appoggio, creò questo personaggio per metà uscito dalla sua intelligenza, il Signore. Poco importa che siano le forze cosmiche o altre cose. Ecco qua un giorno in cui, lo stesso, si può fare qualcosa. E immediatamente, in questo giorno tutto nuovo, mi viene alla mente l’idea che milioni di creature sono molto infelici.
Dove la porta questo pensiero ? A salutare il sole nascente pensando che bisogna fare il maggior bene possibile in questa giornata, nei limiti del proprio potere che, naturalmente è modesto.
Parliamo di piccole cose; bisogna mettere in ordine la propria stanza, vestirsi in modo adeguato alla temperatura, non apparire sgradevole agli occhi degli altri; mai! Bisogna dar da mangiare agli animali che ho intorno ed anche nutrire me stessa. Eppoi mi metto al lavoro avendo bene in mente di smettere quando ci si trova lanciati su una pista troppo facile, quasi automatica, falsa. Poi leggere delle lettere, leggerle tutte mettendosi al posto dell’uomo o della donna che le ha scritte, cosa da cui si trae l’impressione di grande sincerità o di un’esigenza; e rispondere. Compiere i diversi lavori di casa e del giardino ai quali io attribuisco molta importanza. È un contatto con le cose. Sono sicura che centinaia di scrittori francesi sarebbero stati più grandi se avessero spazzato la loro camera tutte le mattine. Avrebbero saputo cos’è la polvere… E infine, mantenere i contatti con gli altri. Ci sono giorni in cui vengono venti persone ed altri in cui non ne vengono che due.
Lei vive sola o quasi in questa casa?
Sono sola per via della morte, naturalmente. Finché ho potuto ho cercato di non esserlo. È imbarazzante da dire perchè può dare l’impressione che voglia adularmi… ma un medico mi scriveva ieri: “Mi congratulo per non avere mandato la vostra malata in ospedale come fa la maggior parte della gente che conosco, e d’essere riuscita e serbare un contatto fino alla fine”. Mi rendo perfettamente conto che il merito non è mio, ma della buona volontà delle persone che mi hanno aiutata.
È stato importante per lei poter fare questo?
Molto importante. Ma se quella fosse stata una persona raccolta per strada, avrei fatto la stessa cosa, evidentemente con meno affetto, meno rispetto, meno stima perchè non avrei avuto nessuna ragione di provare questo affetto, questo rispetto, questa stima per qualcuno che non conoscevo. Ma finché è stato possibile era necessario continuare.
dopo, la solitudine…
È un’idea a cui ho pensato molto, ma mi sembra un falso problema.
Lei non sente la solitudine come una realtà con cui bisogna fare i conti? Sì. Nei momenti di rottura per esempio. Ma c’è anche la solitudine dei mistici e dei santi; non è del tutto solitaria poiché è popolata da tutte le loro emozioni religiose.
In questo caso è una scelta? Si dunque si può definire appena, solitudine. In realtà, siamo mai soli? C’è un passaggio in “L’Oevre au noir” — lei mi ha rimproverata di parlare più dei miei personaggi che di me, ma io parlo attraverso loro — dove Zenone abbandona l’idea di salvare la propria vita passando in Inghilterra, perchè la gente che ha incontrato, i mercanti che cercavano di vendergli questo passaggio sono troppo ripugnanti. Ha a che fare con un gruppo di partigiani, patrioti bene intenzionati, ma fanatici che a lui non sembrano molto affidabili per quanto riguarda la felicità e la pace del mondo. Egli dà le sue ultime medicine a queste persone perchè uno di loro è malato. Fino alla fine sarà solidale con gli altri uomini. È un sentimento che approvo intensamente. Mi sembra che non siamo affatto soli. Non pensiamo quasi mai che ciascun oggetto è fatto per qualcuno, che il nostro benessere, la nostra precaria sicurezza dipendono da dozzine di persone che nemmeno conosciamo.
Quando afferma che la solitudine è un falso problema intende dire che è una nozione esagerata? Come ha spesso affermato che anche la felicità è un concetto eccessivo?
La solitudine, la paura della solitudine, mi sembrano effettivamente, fino a un certo punto, dei concetti esagerati. Anche la felicità. C’è evidentemente la gioia, i momenti di gioia; la gioia di un cane che corre fra l’erba, la gioia di due innamorati che si ritrovano, la gioia di qualcuno lieto per aver ascoltato un concerto che sognava da tanto tempo. Vedo molto bene i momenti di gioia. Ma alla felicità come qualcosa di solido, qualcosa in cui uno si possa stabilire, confesso di non crederci.
27 dolore, però esiste… Sì, perchè il dolore è una realtà fisica che si impone, in cui gli esseri sono prigionieri. Si può fare qualcosa/quando il dolore arriva. Allora la felicità, quando esiste, finché esiste, prendiamola al volo!
E che ne facciamo del dolore? Lei afferma che si può fare qualcosa. Cosa, secondo lei?
È una domanda troppo difficile. Bisogna lottare contro il dolore, lottare nel senso della vita, del pieno svilupparsi dell’essere umano. Si possono usare le proprie forze per lottare contro il dolore e invece di pontificare ricevere delle lezioni.
È la vita che si incarica di darle queste lezioni
Sì. In direzioni molto diverse. Lezioni sul sacro, per esempio. Voglio dire che un individuo che vediamo malato, ferito da un incidente stradale, per esempio, diviene per noi qualcosa di sacro. Di importante. Sentiamo improvvisamente ciò che egli rappresenta probabilmente per delle altre persone. È una delle cose che il dolore ci insegna. Ci insegna anche che non serve lasciarsi ingrigire dal dolore, come non serve inebriarsi per la felicità. I romantici si sono realizzati nel dolore. E avevano torto. Perchè questo falsa la proporzione delle cose e anche perchè è ritornare sempre a se stessi. Come su quell’orribile manifesto americano posto lungo le strade per incitare gli automobilisti ad essere un po’ più prudenti: “Fate attenzione ai nostri figli”. Perchè non a tutti i bambini?
Ciò che è più duro da sopportare è il dolore degli altri perchè lo valutiamo peggio che il nostro. Sappiamo dove il nostro dolore si ferma, ma sappiamo molto male dove arrivi la sofferenza degli altri. In più, proviamo un sentimento di impotenza. Ci si conosce abbastanza per sapere che si è commesso un piccolo errore o una piccola gaffe per cui l’imprevisto o qualche volta l’infelicità è arrivata. Per gli altri, lo sappiamo meno. Per questo, la sofferenza dei bambini e delle bestie è atroce. Non capiamo le ragioni per cui ne sono oggetti o vittime, se non che questo appartiene alla condizione stessa dell’esistenza. In fondo, il dolore ci insegna qualcosa di molto banale, cioè che bisogna avere coraggio.
Come per esempio di fronte alla morte. A questo proposito lei rimpiange la scomparsa, nel mondo contemporaneo, di quei riti che avevano lo scopo di canalizzare se non di esorcizzare il dolore?
Credo che sia un errore sopprimere i riti. Soprattutto per le persone che hanno poco tempo per riflettere. Il rito è un momento di pensiero collettivo. C’è una certa maestà, e dolcezza, nei riti legati alla morte. Racconterò una storia talmente intima che preferirei non venisse registrata. Quando l’amica che mi aveva aiutata per quasi quarantanni è morta, poco tempo fa, un uomo è venuto a prendere il suo corpo per incenerirlo in un forno crematorio, a 80 chilometri da qui. Due giorni dopo, egli mi ha portato una piccola scatola della grandezza di un barattolo da tè.

i riti la morte le idee
Al cimitero del villaggio, dove avevamo appuntamento dopo la cremazione, gli ho chiesto se potevo aprire la scatola o se questa cosa lo avrebbe sconvolto. “Per niente”, mi ha risposto. Era stato scavato un buco in cui si sarebbe potuto piantare un albero a un metro di profondità. Ho aperto la scatola. Dentro c’era un sacchetto di plastica trasparente. Avevo portato con me un cesto, uno di quegli indiani, fatto con l’erba dolce che mantiene sempre il suo profumo: bastano poche gocce d’acqua per farlo risvegliare. Ci ho versato sopra le ceneri, che somigliavano piuttosto a dei sassolini. Ho messo tutto in una sciarpa di lana che a quella persona piaceva molto e indossava spesso. Abbiamo ricoperto la fossa dopo averci messo qualche fronda e la bella zolla d’erba è stata ripiantata. Non si vedeva più niente. Siamo partite tutte e tre, le due infermiere ed io, come donne immortali che si sono occupate di assistere i malati e di sotterrare i morti. È stato un rito.
Lei vuole che io racconti questa storia?
Se lo desidera, ma mi sembra molto intima. Vede, abbiamo evitato l’urna in falso bronzo, la base di velluto, la bara con il raso, sicuramente artificiale.
Abbiamo evitato tutto questo. In ogni momento della vita si può reinventare un rito.
Il suo gusto per la storia, la sua diffidenza verso la società industriale, la sua reclusione qui, ai confini del mondo, fanno sorgere spontanea una domanda: lei sente di appartenere al suo tempo ?
Siamo costretti ad essere del nostro tempo, come noi siamo costrette a stare, adesso, in questa stanza. Esistiamo come individui che sono stati concepiti, che sono nati in certe condizioni e che sono stati modellati per un’epoca. È una delle nostre catene insieme con la schiavitù di essere nati in Europa, in Asia o in Australia. Credo che i migliori siano coloro che riescono ad uscire da questi condizionamenti in qualche modo forzati che pesano su di noi dalla nascita.
Lei dunque nega il movimento delle idee?
Il movimento delle idee… Credo che sia la pura illusione di gente che vive in un momento molto angusto del presente. Ci sono cose più grandi, più belle, meglio riuscite in certe epoche che in altre. Ci sono periodi storici più felici, come esistono buone annate per il vino, il che non vuol dire necessariamente che quelle stesse annate non siano state buone anche per il grano. Ma non vedo alcun progresso generale. Vedo progressi in certi campi che però scompaiono. È molto chiaro nella storia delle religioni.
Per esempio, prendiamo il sermone di Gesù sulla montagna, quello dove si pronuncia sulla giustizia. Che cosa ne è scaturito? Il cristianesimo di Stato. E non mettiamoci a definirlo, perchè non ne vale la pena. Guardiamo il buddismo che è uno sforzo, forse il più grande, per sfuggire alla condizione umana, per uscire dal dolore, per provare a farne uscire gli altri. E che cosa vediamo contemporaneamente? Monaci buddisti giapponesi che benedicono automobili come i preti cattolici distribuiscono i “San Cristoforo”. Ciò non significa che questi grandi progressi, parlo di progressi morali o intellettuali — ma si potrebbe dire la stessa cosa dei progressi materiali — che hanno l’aria di promettere tutto, vengono ogni volta annientati dall’usura, dall’inerzia umana.
In quale momento della sua vita ha scoperto la filosofia orientale? Verso i 18 anni. Ma è vero che mi interessavo anche ad altre filosofie.
Ma l’importanza della filosofia orientale ha preso il sopravvento con il tempo? Sì perchè mi ha sostenuta.
“giudico le donne e gli uomini complementari, non necessariamente avversari… sono contenta di essere una donna, ma se fossi un uomo…”
Dandole un aiuto di carattere religioso?
Temo di dare delle risposte che sarebbero false perchè incomplete. Rispetto profondamente le mie origini cristiane, l’insegnamento di Gesù, sebbene non sia il solo ad avere dato un insegnamento di questo genere. Ci sono stati altri profeti prima o dopo di lui che hanno detto le stesse cose. Non è un personaggio verso cui provo un sentimento di particolare fervore. Nondimeno, l’idea stessa che, attraverso i secoli, l’essere umano abbia potuto collocare nelle chiese, sugli altari l’uomo della sofferenza è ammirevole; ma a dire il vero, non è servito molto. Inginocchiarsi davanti agli altari della sofferenza e correre l’istante seguente sui luoghi delle esecuzioni capitali dei criminali!
Il pensiero orientale propone un certo numero di nozioni e di esercizi che permettono di penetrare profondamente la natura delle cose, di eliminare l’insignificante. Attraverso la meditazione, la concentrazione.
Il discepolo si siede davanti ad un albero, guarda l’albero e si dice: io sono un albero. Passa dalla parte dell’albero e poi, di nuovo dalla parte umana provando a comprendere cosa egli rappresenti per questo albero. Là c’è tutta una cultura mentale fuori dal pensiero religioso a cui l’Europa ha rinunciato molto presto, da una parte perchè il pensiero greco è diventato estremamente intellettualistico e politicizzato e poi perchè il giudaismo e il cristianesimo sono stati troppo dogmatici.
Perchè lei non si è convertita al buddismo ?
Perchè non ho mai ritenuto necessario “l’ammasso”. Altrimenti sarei cattolica. Sono nata cattolica. Ci sono delle cose nel cattolicesimo che non amo e che non posso accettare. Di conseguenza non mi considero cattolica pur avendo ricevuto un’educazione cattolica.
Ciò che mi sembra importante del buddismo è là filosofia dei suoi fondatori, i grandi momenti del pensiero umano che il buddismo ha rappresentato; questo non è appartenere ad un gruppo.
Neppure nella pratica? Si, ma… si pratica tutto il tempo, intellettualmente, fisicamente ed emozionalmente.
Come?
Vivendo. In cucina ci sono dei rotoli di carta. La si può sprecare, ma si può anche dire a se stessi che un pezzetto sarà sufficiente per ciò che ci si deve fare. Rispettiamo il lavoro degli uomini che producono questi oggetti e rispettiamo gli alberi da cui questo prodotto è tratto. E così di seguito per tutto.
La sua passione per l’ecologia è nota. Questo amore per la natura che da noi sembra così vivo, l’ha scoperto qui, in quest’isola superba? Ho sempre avuto questa passione per la natura, ma è stato verso il 1955 che ho cominciato a sentire veramente quanto l’ambiente fosse minacciato. C’è stato un periodo in cui pensavo che la natura potesse sbrogliarsela da sé. Poi ad un tratto mi sono resa conto che erano stati commessi troppi errori in tutto quello che riguardava la natura e l’uomo. Sono inseparabili. La protezione della natura è al tempo stesso la protezione degli esseri umani.
Che importanza ha tutto questo per lei? Appartenere ad associazioni, firmare petizioni, mandare telegrammi di protesta o assegni di sostegno, sono vitali per lei, quanto lo scrivere… Sì, assolutamente. Scrivere è un mestiere. E non è un problema di scelte perchè è ciò che so fare meglio. Ma per far trionfare, o piuttosto per presentare una certa immagine del mondo, della vita, bisogna fare uno sforzo.
Lei trova utile la lotta. La prova è in ciò che ha appena detto. Tutto ciò che le donne cercano di fare per se stesse e per cambiare il mondo la lascia, in compenso, indifferente? Non amo questa opposizione dei sessi. Trovo che ci sia già troppo antagonismo nel mondo senza dover aggiungere anche questo. Giudico le donne e gli uomini complementari, non necessariamente avversari… non più di quanto giudico necessario che i francesi aggrediscano, di colpo, i tedeschi.
Cosa significa per lei essere donna? Avrebbe preferito essere un uomo? Oh no! Sono contenta di essere una donna. Ma suppongo che se fossi un uomo sarei contenta di esserlo. Semplicemente mi gratterei un po’ la testa all’idea degli obblighi militari. A parte questo…
Avrebbe vissuto in modo diverso? Un uomo? È difficile da dire perchè, in fondo, la condizione in cui si vive è affidata al caso e alle persone che si incontrano. Se fossi stata un uomo sarei forse vissuta nella stessa condizione o forse in modo completamente diverso. Ma il fatto che io sia una donna non cambia niente. Quando avevo 16 anni, mio padre, per generosità, ma soprattutto per affetto, aveva pubblicato un mio orribile poema, che non lo meritava, e lo aveva spedito a qualche persona che io ammiravo, come Rabindranàth Tagore che rispose immediatamente invitandomi ad andare nella sua università, in India. Avrei desiderato molto andarci, ma a 16 anni e in quell’epoca, con un padre che viveva solo, la questione non si poneva nemmeno. Supponiamo però che io ci fossi andata, è certo che la mia vita si sarebbe svolta diversamente. Puro caso dunque. Potrei citarne decine di altri… di casi che hanno determinato svolte decisive.
Lei è cambiata nel corso della vita? Non moltissimo. Mi sono approfondita, evoluta. Non credo di essere cambiata molto. Ma è accaduto qualcosa di strano. Riguardando alcuni dei miei libri, che ci sono già degli abbozzi di idee alle quali tengo, ed anche sentimenti, emozioni, circostanze che ho vissuto dopo e che ho vissuto così. Probabilmente questo modo di vivere è inscritto nella mia natura.
In fin dei conti, lei non ha alcun rimpianto ?
Rimpiango che non ci sia abbastanza tempo perchè sono, per natura un’avida. Come faccio dire ad Adriano: se avessi davanti a me vent’anni di esistenza di più rifarei le stesse cose, i medesimi errori. È una specie di fame di vita che non mi abbandona mai. Vede, stanca come sono, parlo di viaggi ed anche di un viaggio intorno al mondo. Non smetto mai di volere delle cose…
Traduzione di Mariella Regoli