partorire contro

esce in questi giorni il libro americano «Riprendiamoci il parto», tradotto da un gruppo femminista. L’altra stampa ne ha già parlato, più o meno correttamente. Qui le compagne che ne hanno curato l’edizione raccontano come e perché il libro.

aprile 1978

a venticinque anni Raven Lang, la principale autrice del libro «Riprendiamoci il parto» («Birth book», in versione originale), partoriva in un ospedale americano in modo traumatico: l’episiotomia, eseguita malamente da un dottore frettoloso, le aveva reciso lo sfintere anale, causandole moltissimo dolore e un grande disagio per un lungo periodo dopo il parto. La volontà di ribaltare questo momento che a lei era stato fatto vivere in modo co-sì assurdamente violento e la rabbia per quello che aveva subito, spinsero lei ed altre donne provenienti da esperienze simili a confrontarsi tra loro attraverso una pratica di riappropriazione e della gravidanza e del parto che significasse al tempo stesso autogestione della propria salute fisica e psichica, e salvaguardia dagli interventi inutili e rischiosi imposti dalla medicina ufficiale. Questo tipo di pratica che si concentrò attorno al Centro nascita di Santa Cruz in California, creato da queste donne (tra loro c’erano anche infermiere e ostetriche autodidatte: ma, discutendo e insegnandosi a vicenda, le differenziazioni «tecniche» tra loro tendevano a scomparire), fu portata avanti comprendendo anche il momento del parto che avveniva spesso in casa e, comunque, quasi sempre al di fuori delle strutture sanitarie ufficiali. Si tendeva al recupero di una certa dimensione di naturalità e di affettività data anche dalla presenza e dalla partecipazione delle persone più convolte dalla nuova nascita.
Il loro intento non era direttamente «politico», ma il fatto che la legge degli Stati Uniti proibisse di partorire in casa, lo rese immediatamente tale. Questo libro — che si riferisce a un periodo che va dal ’70 al ’72 — raccoglie le testimonianze, di alcune donne che hanno partorito «in casa» e di altre persone che vi hanno assistito. Questa esperienza continuò fino al ’74 quando la polizia intervenne d’autorità {attirando con l’inganno due donne del Centro in casa di una falsa partoriente e arrestandole) facendo chiudere il Centro. Ma la chiusura del Centro non arrestò una pratica che era ormai diventata per molte donne americane una forma di riappropriazione della nascita. Alcune di noi del collettivo femminista sul parto (composto da madri che hanno subito la violenza del parto istituzionale e da altre donne interessate alla conoscenza e al recupero della complessità di questo momento) hanno deciso di tradurre questo libro non tanto pensando al «parto in casa» come obiettivo generalizzabile per la nostra realtà (in Italia di parto si muore tutt’ora, anche negli ospedali, e non ci è indifferente costringere le istituzioni mediche a confrontarsi con la nostra volontà di modificarle nel senso delle nostre esigenze e dei nostri bisogni), quanto perché ci sembra fondamentale fare riemergere tutta la positività del momento del parto: non più atto tecnico del medico ma atto creativo della donna. Questo significa il ribaltamento della nostra realtà. Il parto come si vive oggi negli ospedali/cliniche e certamente un’esperienza violenta e drammatica. La cosa più sconvolgente di cui non ci si rende conto subito è che il parto viene considerato oggi a tutti gli effetti una malattia, a cominciare dal momento in cui si entra in ospedale con tutti i rituali del clistere e della fasatura del pube, alla prigionia della sala travaglio lontana da ogni persona o cosa amica e famigliare, all’ attrezzo di tortura che è il «lettino» della sala parto. In questo rapporto con l’istituzione medica quasi sempre abbiamo delegato tutto all’ospedale/clinica e al ginecologo/tecnico, anche se l’istituzione non è mai in funzione della donna, dei suoi tempi, della sua ‘salute fisica e mentale. Questa delega deresponsabilizzante ci fa affidare completamente ai tecnici che, con l’alibi di una nostra minore sofferenza (del resto ancora da provare), fanno in realtà passare le esigenze dei loro tempi (farci partorire in «fretta» non significa di per sé farci soffrire meno), aumentandoci artificialmente le contrazioni con l’ossitocina e intervenendo poi con l’anestesia. Rifiutiamo la mistica del partorire con dolore ma siamo contro ad una scienza che, attraverso l’anestesia, mentre non toglie complessivamente il dolore (se non negli ultimi cinque minuti, quelli dell’espulsione, che sono i meno dolorosi), priva comunque la donna di un momento che è importante poter vivere fino in fondo con coscienza. L’istituzione medica oi espropria di un momento che può e deve essere creativo, partecipe, ricco d’emozioni; ci costringe a vivere in modo isolato ed individuale un momento in cui siamo più fragili e meno in grado di reagire alle violenze imposteci: l’istituzione medica ci isola e ci separa per avere più potere. Vogliamo ribellarci a tutto questo. L’espropriazione del corpo è il presupposto fondamentale della schiavitù della donna, come ogni altra forma di schiavitù; il potere maschile si è quindi sforzato da sempre di mantenere la donna in uno stato di e-straniamento dal suo corpo e dalla sua sessualità, uno stato di perpetuo conflitto con se stessa. La gravidanza e il parto non sfuggono a questa logica, in cui la donna viene constantemente negata come soggetto attivo. Il parto, nel sistema patriarcale, non può essere sperimentato e gestito dalla donna in prima persona, perché potrebbe trasformarsi in una pericolosa occasione di crescita e di responsabilizzazione, che la società maschile non può permettersi: la donna non può diventare mai completamente adulta, nemmeno quando, come durante il parto, è più direttamente coinvolta: il potere dei medici, approfittando della paura e della disinformazione delle donne, si assume quindi tutta la gestione e la responsabilità del parto. Per svuotare e svalutare ulteriormente questa esperienza importantissima, esiste tutta una serie di condizionamenti negativi radicati nel costume, nella religione, nella scienza, che tendono a relegare il parto al di fuori del sociale e, al limite, anche al di fuori dell’umano: l’ostetrica che ci tratta con disprezzo, l’isolamento da chi ci potrebbe dare un sostegno morale, il dolore «inevitabile», il trauma comportato da certe pratiche ostetriche, la separazione dal bambino subito dopo la nascita, tutte queste cose fanno sì che molte donne ricordino l’esperienza del parto come qualcosa di traumatico, angoscioso, umiliante, un’occasione in cui ci si è trovate ad essere oggetti isolati e passivi: il parto così diventa qualcosa da dimenticare, da rimuovere. Ma proprio su questo genere di rimozioni si fonda il potere maschile sulle donne: perciò è necessario recuperare la coscienza dei nostri bisogni fisici e psicologici, la comprensione dei processi fisiologici del nostro corpo, per trovare la strada di. un modo nuovo di partorire, un modo che rispetti le nostre esigenze, i nostri tempi, il nostro corpo e quello del bambino.