divorzio

sarà imperfetto ma deve sopravvivere

aprile 1974

«In un regime capitalistico si danno per solito, non come casi isolati ma come fenomeni tipici, condizioni tali che le classi oppresse non possono ‘ esercitare ‘ i propri diritti democratici. Il diritto al divorzio rimane, nella stragrande maggioranza dei casi, inattuato sotto il capitalismo, perché il sesso oppresso è schiacciato economicamente, perché la donna continua ad essere in ogni democrazia capitalistica una ‘ schiava domestica ‘, confinata nella stanza da letto, nella camera dei bambini, in cucina… Tutta la ‘ democrazia ‘ consiste nella proclamazione e nell’attuazione di ‘ diritti ‘ realizzati assai poco e assai convenzionalmente sotto il capitalismo, ma il socialismo è inconcepibile senza questa proclamazione, senza la lotta per realizzare questi diritti immediatamente, senza l’educazione delle masse nello spirito di questa lotta». Sono parole scritte da Lenin nell’ottobre del 1916 (parole tra l’altro, sia detto per inciso, che appaiono essere state scarsamente meditate all’interno del partito comunista italiano negli ultimi trent’anni), e che possono siglare l’atteggiamento prevalente tra le femministe a proposito del divorzio: se le donne sono un proletariato, e nella misura in cui lo sono, anche il diritti, così, analogamente, per quel tutti gli altri diritti civili lo sono, rispetto al proletariato, attuabile soltanto «in modo convenzionale, limitato, angusto e formale»: e tuttavia se il socialismo è «inconcepibile». senza la lotta per realizzare questi diritti, così analogamente, per quel che riguarda oggi in Italia la lotta contro l’abrogazione del divorzio, sarebbe inconcepibile se le femministe se ne astraessero.
Partendo da questa esigenza, abbiamo parlato di divorzio più di una volta, nelle ultime settimane, con le compagne del Movimento Femminista Romano. La domanda che.ci ponevamo era questa: che significato ha per la donna oggi in Italia il divorzio, e il sì o il no che le si richiede? La discussione è andata avanti, da una sera all’altra, con partecipazione variata delle compagne, su alcuni temi: l’analisi della legge Fortuna-Baslini, delle sue connessioni (spesso contraddittorie) con il diritto di famiglia ancora vigente (il nuovo è stato insabbiato dalla DC alla Camera): il confronto tra le situazioni della donna separata, della donna il cui matrimonio è stato annullato dalla Sacra Rota e, infine, della divorziata (su questo punto pubblichiamo inoltre tre testimonianze femminili): e fin qui il primo blocco di argomenti, ricavati dall’osservazione della pratica quotidiana di questi primi tre anni di divorzio italiano.
Si è poi passate all’analisi dell’atteggiamento delle donne di fronte al divorzio: un atteggiamento che muta, s’è visto (e l’indagine della Demoskopea l’ha poi confermato) principalmente a seconda dell’età della donna, e come fattore aggiunto, della sua formazione culturale, con particolare riguardo alla pratica o alle remore di origine religiosa.
Che la legge Fortuna – Baslini non sia priva di imperfezioni e squilibri tecnici, è stato chiaro, fin dal principio, a tutti .Ma le forze più rinunciatarie della sinistra tradizionale hanno tentato di servirsi dei difetti della legge, come di un alibi, per proporre modifiche di essa, vuoi «alla polacca», vuoi di sapore locale, che l’avrebbero completamente paralizzata nei suoi meccanismi, ma che avrebbero permesso loro di non scontrarsi con la scottante realtà del referendum. L’integralismo fanfaniano, la sua smania di proporsi, in un domani post-referendum, come «uomo della provvidenza», hanno fatto fallire quei tentativi. Se la legge non è perfetta, si rifarà, si migliorerà dopo: intanto è necessario che sopravviva, dato che offre dei concreti vantaggi alla donna se paragonata agli istituti della separazione legale o dell’annullamento pronunciato dalla Sacra Rota.
Il vantaggio fondamentale che una madre divorziata ha sulla madre separata è che, finalmente, nel caso (che è poi quasi sempre la regola) in cui ella tenga i figli con sé, potrà avere su di essi la piena patria potestà: si può dire oltre oggi in Italia soltanto le donne divorziate secondo la Fortuna-Baslini riescono a dare rilievo legale, attraverso la patria potestà, alla continua opera di assistenza, cura, educazione, che rivolgono ai figli: infatti, tutte le altre donne sposate non hanno nessun potere decisionale rispetto ai figli: ce l’ha sempre e soltanto il marito, a meno che non sia o pazzo o in galera (art. 32, 541, 562, 564 e 569) : in quanto alle donne separate, tutte quelle che sono in questa situazione e hanno sulle proprie spalle il peso dei figli conoscono le umilianti, estenuanti attese nell’anticamera del giudice tutelare, di cui sono obbligate a chiedere il consenso anche quando i figli, per esempio, vogliono partecipare ad una vacanza scolastica all’estero, o seguire un corso di lingue, o magari, avendo subito il furto del motorino, la denuncia non può andare avanti se il giudice tutelare non ne è informato.
Ancora un vantaggio della divorziata rispetto alla separata è che «Qualora sospetti che il coniuge più abbiente intenda sottrarsi agli obblighi economici nei confronti del coniuge più debole, il Tribunale può imporre garanzie reali fino all’ipoteca sui beni o al versamento diretto di una quota dei redditi, dello stipendio o del salario» (art. 8 della Fortuna – Baslini). La moglie ‘ annullata ‘ con procedimento rotale, poi, perde ogni diritto agli alimenti — poiché, secondo la Sacra Rota, il suo matrimonio non è mai esistito — mentre i figli, da legittimi che erano fino al momento dell’annullamento, diventano semplicemente figli «naturali» riconoscibili, poi, dal padre o dalla madre.
I dati della inchiesta condotta dalla Demoskopea sul rapporto referendum-donne hanno convalidato le analisi che erano emerse nelle nostre conversazioni, la discriminante principale tra le donne che sì confrontano con l’ipotesi del divorzio è quella dell’età; secondo la Demoskopea le donne tra i 21 e i 35 anni sono divorziste al 73,6 per cento: tra i 35 ed i 65 anni al 59,9 per cento: dopo i 65 anni, al 23 per cento.
Dopo l’approvazione della legge Fortuna – Baslini, sono aumentate le richieste di separazione su iniziativa delle mogli che hanno meno di trentacinque anni.
Oltre i trentacinque anni, e via via che l’età della donna cresce, il divorzio rappresenta indubitabilmente uno choc. Le donne che se ne avvantaggiano, perché possono realizzare infine nella legalità quell’unità familiare che a causa di un precedente legame, loro o dei toro partners, erano state obbligate, magari per decenni, a vivere nel compromesso, guardano ovviamente al divorzio assai più come a un indulto, quasi un’amnistia, che ad una battaglia libertaria.
Le altre donne, invece, possono avere paura del divorzio proprio nella misura in cui si sono affidate per intero all’istituto matrimoniale, inteso come sicurezza economica più approvazione sociale.
Se una donna non è stata preparata ad altro, nella vita, se non al matrimonio, se le donne nel nostro paese hanno ancora infinitamente minori sbocchi occupazionali di quanti non ne abbiano gli uomini, non c’è da meravigliarsi se le spaventa l’ipotesi della rottura del matrimonio a cinquant’anni, poniamo, quando è impossibile per loro qualsiasi «riqualificazione» professionale, se mai ne hanno avuto una; eppure un dato che appare rivelatore, nella statistica della Demoskopea (con tutti i limiti che simili indagini hanno) è quello relativo alle casalinghe: il 67,1 per cento delle casalinghe si sono dette favorevoli al divorzio contro il 63,7 per cento delle donne che lavorano fuori casa: ciò dovrebbe significare che la schiavitù domestica si va ormai demistificando agli occhi delle stesse donne che ne sono state fin’oggi le vittime docili. Nel matrimonio come garanzia di sopravvivenza per la donna, comunque, forse il valore di approvazione sociale ha un rilievo emergente perfino su quello della sicurezza economica (pagata del resto a caro prezzo dalla fatica diuturna della casalinga) . E qui- dovrebbe funzionare il meccanismo liberatorio, terapeutico, quasi, del divorzio, come fattore di autonomia della donna, nella misura in cui il matrimonio è uguale allo stadio elementare di subordinazione dell’individuo-femmina.
E proprio a scopo ‘ terapeutico ‘, finché esiste la ‘ carta ‘ del matrimonio è indispensabile che esista anche la ‘ carta ‘ del divorzio. E’ la prova palpabile, concreta, perfino rituale, che un ‘ amore ‘ è finito per sempre: estinto. Che si può ricominciare da capo.
E per quanto le statistiche al riguardo siano ancora parziali, si può dire che l’iniziativa del divorzio, in questi tre anni in Italia, è stata presa dalle donne (invece che dagli uomini) più di quanto si possa immaginare: se è vero che l’uomo italiano ha le caratteristiche che certo cinema (di Fellini, di Sordi) sia pure esasperandole nel grottesco ci rappresenta: la tendenza all’harem, alla non-scelta, l’ingordigia del bambino viziato e, al fondo, insicuro, che — almeno in tema di donne — vuole tutto: la madre dei suoi figli, l’amante «ragutiera» (come si dice in Piemonte) , più il capriccio, l’avventuretta, la evasione.
Si tratta evidentemente di situazioni riferibili al ceto medio-borghese: ma a questo proposito c’è da dire che il divorzio è oggi — rispetto ai tempi di Engels, di Marx, e del Lenin pre-rivoluzione d’ottobre — assai meno un istituto borghese (nel senso di desiderabile dalla borghesia) di quanto non lo fosse allora.
L’esigenza di chiarezza nel rapporto uomo-donna è invece oggi assai più viva nel proletariato, a misura che cresce la sua politicizzazione: e non può essere un caso che in Calabria, terra di emigrazione secolare, nella provincia, esattamente, di Vibo Valentia, i divorzi sono stati più numerosi in campagna che nella città, e l’iniziativa è partita generalmente dalle donne. L’altra, la seconda discriminante tra le donne rispetto al divorzio, oggi in Italia, che l’indagine della Demoskopea ha accertato, è quella religiosa: «Non è la religione — aveva detto Togliatti in uno dei suoi discorsi degli anni cinquanta alle donne dall’UDI — la vera causa dell’arretratezza della donna italiana». La formulazione di questo pensiero appare piuttosto ambigua: certamente la religione come pratica bigotta ha influito moltissimo sull’arretratezza della donna italiana, subordinata anche, e talvolta originariamente, al ‘padrone’ chiesastico (parroco, vescovo ecc.). 1 mutamenti e le crisi che il Concilio Vaticano 11 hanno portato tuttavia all’interno della Chiesa Cattolica hanno in parte mutato di segno, positivo, quest’influenza: anche se fin’oggi la chiesa del dissenso non pare avere approfondito la questione femminile. E, di nuovo, la chiusura, la sordità alle istanze di liberazione cristiana, si ritrova a coincidere con il fattore età: soltanto il 34,2 per cento, infatti, delle donne sopra i 65 anni hanno dichiarato — agli intervistatori della Demoskopea — di ritenere che si possa essere buone cattoliche e divorziste.
In quanto ai risultati più tecnicamente ‘ politici ‘ del referendum, cui anche le femministe non possono non essere interessate, il primo, come è emerso dai nostri dibattiti, ed il più vantaggioso è questo: che, comunque vadano le cose, risulterà perlomeno in cifre chiare e da quel momento incancellabili che l’Italia non è un paese formato al 99% di cattolici: che le forze più retrive dello schieramento partitico sono state costrette a smascherarsi, in quest’occasione, allineandosi le une alle altre, dalla maggioranza DC al MSI a certi ambigui organismi come «Comunione e liberazione»: che, infine, se il referendum si vince non si potrà non porre mano alle sclericalizzazione, finalmente, di diritto, del paese (cfr. Concordato tra Stato e Chiesa).
La legge Fortuna – Basilini, come tutte le altre leggi, è stata pensata, evidentemente, al di là e al di sopra degli interessi delle donne: è stata pensata come tentativo di re-innesto — attraverso nuovi matrimoni — della pianta famiglia, oggi paurosamente ammalata (paurosamente per il capitale a cui questo tipo di famiglia nucleare serve) : inoltre la donna, come partner economicamente più debole, e di minori risorse culturali, professionali ecc. la donna infine come proletariato (così la definiva Engels) non può in linea di massima oggi come oggi essere colei che usa del divorzio come di un’arma a proprio profitto. Eppure — al di là di tutte le situazioni concrete dove, come s’è visto, la separazione, l’abbandono, l’annullamento della Sacra Rota privano la donna di qualsiasi garanzia — l’ipotesi del divorzio può funzionare, e già si è visto che comincia a funzionare, come avvio al processo di autonomizzazione della donna: l’aiuta a pensarsi responsabile di sé, a non puntare tutte le sue carte sull’assicurazione-matrimonio: può essere infine, l’ipotesi del divorzio, il primo elemento che scardina questa famiglia-tana che noi femministe combattiamo, tentando di sostituire ad essa rapporti diversi di solidarietà totale tra uomo e donna, tra genitori e figli, una solidarietà che si faccia da privata collettiva, e inversamente, in una circolarità di rapporti, tra il privato e il pubblico, che muti davvero nel profondo la nostra vita quotidiana.