sei figli in cucina

«ho fatto nascere tanti figli. Poi un giorno mi hanno chiamata al Comune e mi hanno detto che non Io dovevo fare più».

aprile 1978

care compagne, vi voglio raccontare una mia esperienza. Sono andata a trovare Pina. Vive in una città della Basilicata e frequenta un corso da infermiera nell’ospedale locale: dieci ore al giorno, 5 di lavoro e 5 di studio, per cinquantamila lire al mese. Rapporto paternalistico con i «luminari» che la coccolano perché è brava e che chiedono conferma al proprio prestigio, rapporto nel quale lei si muove a disagio, tra questo nuovo sapere che l’affascina ed il comportamento ambiguo dei «santoni».
Tra la sala operatoria e la corsia lei preferisce la seconda: in sala operatoria è tutto così asettico, meccanico, quasi una catena di lavorazione su corpi umani. In corsia ci sono le donne, c’è la possibilità di rapporti umani: le donne che le chiedono notizie sulla propria malattia e alle quali Pina, nonostante il divieto del regolamento, spiega, risponde. Donne verso le quali Pina si comporta con quella ‘solidarietà e compartecipazione di chi in ospedale c’è stato e sa. Una donna anziana di Montalbano Jonico le ha raccontato delle sue maternità: sei figli che la donna ha partorito in cucina, da sola, dopo aver preparato tutto l’occorrente: «Mettevo su una sedia i panni puliti, bolliti, sotto di me un grande cuscino. Quando sentivo le contrazioni diventare sempre più forti e frequenti, mi accovacciavo sul cuscino, e ad un certo punto cominciavo a spingere. Appena il bambino era uscito, lo mettevo sul cuscino e con un piede bloccavo il cordone. Poi tagliavo il cordone, lo annodavo e coprivo il bambino. Ricominciavo a spingere per fare uscire la placenta e quando era uscita mi tamponavo con i panni e ci mettevamo a riposare, io e il bambino. Sei figli mi sono nati così: ero diventata bravissima. Così ho cominciato ad aiutare altre donne a far nascere i loro figli.
Andavo e le aiutavo. Ho fatto nascere tanti figli. Poi un giorno mi hanno chiamata al Comune e m’hanno detto che non lo dovevo fare più. Mi hanno minacciato. Io ho risposto che allora’ mandassero un’ostetrica; le altre donne quando hanno saputo del fatto si sono arrabbiate e sono andate tutte insieme sotto al Comune a protestare.
A me non mi hanno dato più fastidio, poi è arrivata l’ostetrica». Questo racconto di Pina mi ha affascinato. Io ho partorito in una stanza fredda, inumana, in una clinica, fra gente che non conoscevo e che se ne fregava di me: ero una partoriente qualsiasi, non esistevo come persona. In sala parto m’hanno lasciato lì, sul lettino, il medico e l’infermiera che chiacchieravano tra di loro, li ho dovuti chiamare io quando ho sentito che la bambina stava per uscire. Ho partorito dopo cinque ore di dolori assurdi, con l’ossicitina iniettata per endovena. Quando mi hanno fatto vedere mia figlia non ho sorriso; l’infermiera m’ha detto: «Non è contenta? Voleva un maschio?».
Il racconto di Pina mi ha fatto intravedere un modo nuovo di partorire. Ho «visto» questa donna nella sua casa, nella sua cucina, prepararsi con calma, in silenzio. L’ho «vista» assorta sul suo corpo, seguire i tempi, le contrazioni, le spinte del suo utero. L’ho vista mentre accovacciata, dopo un ultimo sforzo, raccoglieva suo figlio, l’ho vista…
Ho raccontato tutto questo nell’ultima riunione dei consultori, qui a Roma, e una compagna ha detto che non è possibile un simile ritorno a tempi passati. Lo credo anch’io, così come so che a spingermi verso questo «mito dell’età della pietra» è l’insofferenza per il presente e la mancanza di una alternativa, ma l’alternativa deve essere costruita. Con una maggiore partecipazione a tutta la problematica del movimento, delle compagne che lavorano nel settore della salute della donna, perché la divisione in settori troppo netti è politicamente e personalmente negativa (io faccio parte di un collettivo teatrale, eppure sono andata alle riunioni sui consultori). Con la creazione di consultori autogestiti che siano soprattutto un punto di incontro per le donne e non solo per i problemi della salute. Con un controllo sulla gestione delle istituzioni pubbliche: penso all’organizzazione di piccoli gruppi di donne per visite collettive presso consultori ed ospedali e, perché no, anche presso medici privati. Penso insomma ad un doppio fronte, uno interno per la riscoperta di noi, ed uno esterno/ per d’applicazione di quanto possiamo e sappiamo. Mi sembra che bisognerebbe rafforzare il primo. Tanti cari saluti