una rissa per divorziare

a quattro anni dal referendum contro l’abrogazione della legge sui divorzio, dobbiamo riprendere le fila di una battaglia che frettolosamente abbiamo creduto conclusa.

settembre 1978

si è recentemente concluso il tormentato iter parlamentare di tre articoli di legge che modificano parzialmente la legge Fortuna-Baslini sul divorzio, in vigore in Italia dal 1° dicembre 1970. Tale modifica, pubblicata sulla G.U. del 16 agosto, è divenuta operante dal 1° settembre 1978. Della situazione delle donne separate e divorziate in Italia abbiamo già riferito su Effe (luglio-agosto 1977), ma forse non sarà male riepilogare il contenuto di quell’articolo, poiché ci risulta che molte compagne femministe sono assai scarsamente informate sull’argomento divorzio. Eppure per il divorzio ci siamo tutte mobilitate, solo quattro anni fa, al tempo del referendum abrogativo, pur ignorando quasi totalmente (è una autocritica che io ho fatto e che ritengo molte altre dovrebbero fare) che cosa la legge Fortuna significava in concreto per la maggior parte delle donne. Ci era sembrato bellissimo avere la possibilità di divorziare, cosicché non ci siamo preoccupate di accertare fino a che punto si trattava di un diritto solo formale e tutt’altro che, sostanziale.
Il Movimento Femminista era agli inizi, nella fase di entusiasmo che ci sembrava dovesse travolgere tutto. Non ci siamo accorte che quel nostro no all’abrogazione del divorzio, cosi netto e preciso, che voleva dire no all’oppressione e allo sfruttamento all’interno della famiglia, era invece una fuga in avanti, dal momento che non teneva conto del fatto che la maggior parte delle donne hanno nella famiglia il loro unico sostentamento, anche se al prezzo di una quasi schiavitù. È vero che da taluni documenti, fra cui quelli dell’allora Lotta Femminista, risulta che l’occasione offerta dal referendum abrogativo doveva essere solo L’inizio di una battaglia per il diritto effettivo delle donne al divorzio, ma poi l’urgenza di mille problemi ce ne ha fatto dimenticare e nella realtà è mancata una nostra gestione del dopo-divorzio. Così in questi otto anni ogni donna ha dovuto affrontare da sola la realtà del suo divorzio, spesso risoltosi in un ripudio senza garanzie. Le donne divorziate hanno perduto ogni diritto all’assistenza mutualistica, all’eredità del marito e alla pensione di reversibilità, salvo una quota di quest’ultima da disputare alla seconda moglie e solo quando c’è una seconda moglie. Tutto ciò, nonostante l’articolo 12 della legge Fortuna sembri esprimersi in senso di chiarire il significato di quest’articolo, che viene sistematicamente ignorato in tutte le cause di divorzio. Inutile poi parlare di diritti per le donne separate per loro colpa (o addebitabilità, secondo il nuovo codice, che non ne hanno più alcuno, neppure dopo decenni di lavoro domestico gratuito. Le donne divorziate hanno così visto vanificati da un giorno all’altro dei diritti acquisiti, all’atto del contratto matrimoniale! diritti pagati con una vita di rinunce e di lavoro senza limiti di orario. Il legislatore non ha previsto neppure delle norme transitorie per i matrimoni contratti in regime di indissolubilità, come invece è stato fatto per il nuovo regime patrimoniale del diritto di famiglia, quando si trattava di tutelare dei diritti acquisiti soprattutto maschili. Inoltre le donne sono costrette a strappare i loro pochi diritti (l’assegno mensile, la rivalutazione di esso, il perseguimento del coniuge che si sottrae ai suoi doveri) con lunghe battaglie legali e pagando fior di onorari agli avvocati, veri sciacalli di divorzi e di separazioni, proprio come i medici per l’aborto.
solidarietà e lotta per le donne divorziate
Siamo venute a conoscenza di tutto questo nell’autunno del 1976, allorché abbiamo appreso dalla stampa che si era costituita una associazione di donne divorziate, l’A.d.d. (Associazione difesa donne divorziate), proprio allo scopo di ottenere una modifica della legge Fortuna. Ci siamo messe prontamente in contatto con le donne dell’A.d.d.d. e abbiamo cercato il pubblicizzare tutto questo in seno al Movimento con tutti i mezzi a nostra disposizione, allestendo tra l’altro una Mostra sul Divorzio al Governo Vecchio nel giugno 1977.
Sotto la spinta dell’Ad.d.d., che aveva anche a suo tempo avanzato alcune proprie richieste concrete (comprendenti fra l’altro una proposta di istituzione di una Cassa Integrazione Divorzi, con il concorso dello Stato), si è iniziato nel settembre 1977 l’iter parlamentare per la modifica della legge Fortuna.
Come Gruppo Femminista per il Salario al Lavoro Domestico di Roma ne abbiamo sempre seguito le alterne vicende, intervenendo attivamente a manifestare il nostro appoggio e la nostra solidarietà alle donne divorziate. Abbiamo diffuso un nostro comunicato stampa, a cui si sono associate le compagne di via Pompeo Magno, in data 1/10/77, dopo il clamoroso episodio di protesta inscenato in Senato con lancio di volantini di protesta da parte di due divorziate che ritenevano insufficiente il testo approvato. Tale comunicato è stato poi pubblicato solo da Effe (ottobre-novembre 77). Successivamente abbiamo inviato un telegramma alla Commissione Giustizia della Camera ed un altro alla stessa Commissione del Senato nell’imminenza o di due votazioni.
“Tra successivi rinvii e rimaneggiamenti, o ognuno dei quali peggiorativo rispetto al ^ testo precedente, i nostri deputati e senati tori hanno quindi lasciato trascorrere un < anno prima di varare finalmente il testo w definitivo.
Chiariamo subito che i benefici per le D donne divorziate sono modestissimi: in pratica di positivo c’è solo l’assistenza mutualistica, di cui donne divorziate, spesso anziane e malate, sono state private da quasi otto anni. Resta poi invariata l’indecorosa rissa giudiziaria fra le vedove del defunto per dividersi una spesso misera pensione; c’è solo qualche vantaggio per le divorziate non in concorrenza con una seconda moglie, alle quali in questi otto anni non era toccato assolutamente nulla. Queste ultimo possono rivolgersi al giudice, il quale deciderà se attribuire o meno, tutta o in parte, la pensione di reversibilità dell’ex-coniuge. (Da notare che il primo testo approvato al Senato l’attribuiva loro tutta intera senza pratiche macchinose e interventi di avvocati e giudici, che comporteranno un’attesa minima di due anni, secondo le previsioni di una compagna avvocato). C’è poi la possibilità, per le divorziate in cattive condizioni economiche, di farsi corrispondere un assegno di mantenimento dagli eredi dell’ex marito. Riteniamo tuttavia che tutto questo sia solo l’inizio di una battaglia; ne abbiamo avuto sentore al Convegno Nazionale dei Gruppi per il Salario al Lavoro domestico, tenuto a Roma il 1° maggio 1978 ed aperto a tutto il Movimento, in cui compagne femministe separate e divorziate provenienti da tutte le parti d’Italia hanno costituito un gruppo di lavoro: non per fare i soliti piagnistei sulle loro sventure e sulla violenza della società maschilista, ma per cominciare ad esaminare concrete prospettive di lotta e adeguati sbocchi organizzativi.
Successivamente si è avvicinato al nostro gruppo anche un collettivo di donne divorziate e separate che avevano cominciato a riunirsi al Governo Vecchio per motivi di solitudine e di aiuto reciproco, ma che poi sono state ben liete di scoprire con noi delle possibilità di lotta in cui incanalare la loro rabbia per cambiare qualcosa nelle loro vite. Vi sono tra loro ex mogli di impiegati e di funzionari, senza alcun reddito proprio, liquidate dopo 20-30 anni di matrimonio (e di lavoro domestico), dai loro mariti che hanno preferito delle partners più giovani, con assegni mensili di L. 70mila.
Sarà finalmente possibile da parte di tutto il Movimento Femminista una gestione politica del dopo-divorzio, analoga a quella che si sta facendo per il dopo-aborto? È quello che ci auguriamo da tempo: ogni causa di separazione o di divorzio dovrebbe diventare una vertenza sul lavoro domestico, che veda come controparte non solo gli ex mariti, ma soprattutto lo stato da sempre delegato dalla società capitalistica a sovraintendere e a legiferare sulla famiglia, vista soprattutto nella sua funzione fondamentale di fabbrica di forza-lavoro al costo più basso possibile.