1975 anno della donna?

la parola ad una delegata

luglio 1975

 

Direttore dell’Istituto di demografia dell’Università di Roma e presidente del Comitato Italiano per lo studio del problemi della popolazione, Nora Federici fa parte della delegazione Italiana a Città del Messico in qualità di esperta dei problemi sull’occupazione femminile. Prima della sua partenza le abbiamo rivolto alcune domande.

D. Ci può dire come è composta la delegazione Italiana e quale tipo di posizione intende sostenere?

R. La delegazione Italiana è stata formata secondo le norme che regolano la formazione delle delegazioni nelle conferenze internazionali, vale a ‘dire da un certo numero di esperti e da alcuni rappresentanti dei Ministeri interessati al tema della conferenza. In questo caso particolare il numero degli esperti è stato utilizzato per fare intervenire nella delegazione quattro rappresentanti dei quattro partiti della maggioranza.

Per l’anno internazionale della donna è stato creato un comitato molto ampio che raccoglie le rappresentanti dei movimenti femminili, dei partiti, delle organizzazioni femminili, sindacati e qualche rappresentante dei Ministeri. Al mio interno sono stati costituiti due gruppi di lavoro per preparare appunto il materiale da portare a Città del Messico. Il primo gruppo, presieduto dall’onorevole Cocco della DC, ha preparato materiale di carattere legislativo, sulla situazione attuale e sui possibili sviluppi, il secondo gruppo invece, da me presieduto, ha approfondito il tema della collocazione della donna nel mondo del lavoro, la situazione di fatto, la situazione di diritto, le cause determinanti del divario oggi esistente e le possibili prospettive di lotta, di azione legislativa e sociale per poter superare questa situazione di fatto.

Frutto del lavoro di questi gruppi sono due rapporti che dovrebbero costituire le relazioni di base per una conferenza che si terrà entro la fine dell’anno, per dibattere appunto tutti questi problemi. Per Città del Messico è stata fatta una -sintesi di queste relazioni. L’onorevole democristiana Tina Anselmi — capo delegazione — presenterà poi una relazione sugli orientamenti generali del Governo in questa materia: tale relazione verrà discussa da tutte noi prima di essere esposta alla Conferenza.

D. Da questa ricerca possono nascete nuove iniziative a favore della donna?

R. Veramente non sono molto convinta della necessità e soprattutto della efficacia di azioni legislative, perché l’Italia, dal punto di vista della legislazione si trova molto avanti. Ci sono naturalmente alcuni punti che possono essere ulteriormente migliorati, però dal punto di vista legislativo la situazione può essere considerata soddisfacente. Quella che non è soddisfacente è la situazione di fatto, perché in realtà ci sono delle grosse remore, delle grosse resistenze, dei grossi ostacoli, oggettivi e in parte soggettivi, che impediscono che queste possibilità offerte dalla legislazione trovino poi, dal punto di vista concreto, realizzazione. L’azione necessaria non è tanto un’azione a promuovere nuove leggi (anche se per alcuni settori questo può essere vero), quanto un’azione di carattere più generale, di politica generale, di politica economica e di politica culturale generale che permetta di rimuovere quelle cause che impediscono che la legislazione trovi poi effettiva applicazione.

D. Da Bucarest al Messico Lei ha partecipato a una serie di conferenze dell’ONU. Ritiene abbiano una qualche utilità?

R. E’ difficile dire. Innanzitutto ritengo sia di utilità l’incontro di persone che vengono da paesi diversi e hanno quindi esperienze diverse. Questo scambio di idee, questi contatti sono sempre utili. Naturalmente, al di là di questa efficacia di carattere molto generale, avrei maggiori perplessità sull’efficacia concreta dato che queste conferenze sono fatte per incitare i governi ad adeguarsi, nella loro politica, alle raccomandazioni che escono dai piani di azione votati in queste conferenze.

Sulla efficacia concreta di questi ulteriori adempimenti sarei più perplessa, perché in realtà i governi non si -sentono molto sollecitati e finiscono per dare delle risposte così vaghe e relative da lasciare la situazione sostanzialmente immutata. Va però detto che, anche da questo punto di vista più concreto e più politico, qualche influenza esiste. Tanto per fare un esempio, esperienze come quella di Bucarest — che è passata e permette quindi di fare una valutazione ex post — è certamente positiva. Non c’è dubbio che oggi in Italia, sia sul piano ufficiale, sia su quello della opinione pubblica, i problemi della popolazione sono più noti di quanto non fossero prima della conferenza. La conferenza ha costituito uno stimolo per il dibattito e quindi per la diffusione nella opinione pubblica di certe conoscenze, e la conoscenza dei problemi è poi quella che stimola l’azione.

D. Ci può anticipare qualcosa su questa relazione che lei ha curato?

R. Le conclusioni in linea di massima sono quelle a cui ho già accennato: la situazione giuridica consentirebbe alle donne di inserirsi nel mondo del lavoro in piena parità con l’uomo a tutti i livelli, in tutti i settori e quindi di poter dare alla economia Italiana un contributo proporzionale a quella che è la loro forza demografica. In realtà, la situazione è molto diversa, non solo perché il tasso di attività femminile in Italia è molto basso, ma anche perché l’inserimento della donna nel mondo del lavoro è ancora concentrato nei settori più o meno tradizionali, e proprio perché questi settori tradizionalmente non sono i settori portanti dell’economia è un inserimento in larga misura dequalificato.

Le cause di ciò sono in parte di carattere strutturale, vale a dire cause economiche, ma ci sono anche cause socio-culturali. Le cause economiche sono quelle che tutti più o meno conosciamo: squilibri territoriali e settoriali dell’economia Italiana il che rende la domanda di posti di lavoro superiore all’offerta. In una situazione in cui i lavoratori sono costretti ad emigrare questo significa una tendenziale eliminazione delle donne dal mercato del lavoro.

Ci sono poi cause di carattere socio-culturale: che sono essenzialmente riconducibili ad una grave carenza di servizi sociali. Le donne che vogliono inserirsi nel mondo del lavoro debbono infatti sovraccaricarsi di doppio, triplo lavoro per poter assolvere contemporaneamente alla loro funzione nella casa, e ciò perché non hanno la possibilità di delegare queste funzioni ai servizi sociali che non ci sono o sono del tutto inadeguati, né possono delegarle ad altri membri della famiglia dato che la tradizione e il costume nel nostro paese stenta a riconoscere la necessità di una collaborazione dell’uomo nei compiti più considerati «femminili». Esistono poi delle cause più propriamente culturali le quali pur avendo delle determinanti oggettive finiscono poi per manifestarsi anche in forma soggettiva: mi riferisco alla resistenza, anche da parte delle stesse donne a cambiare la situazione, e queste cause culturali evidentemente dipendono da una tradizione che ha sempre esasperato la divisione dei ruoli.

D. Lei è l’unica donna che ha avuto una cattedra in un campo che di solito è monopolio degli uomini. Che tipo di difficoltà ha incontrato che fossero riconducibili al suo essere donna? Esistono nella carriera universitaria delle difficoltà strutturalmente diverse per la donna in quanto tale?

R. Io ho rinunciato alla famiglia. Solo se una donna rinuncia a formarsi una famiglia forse riesce a superare certi ostacoli. Forse esagererei se dicessi che le difficoltà che ho incontrato, perché certo ne ho incontrate, sono state una conseguenza del mio essere donna: può darsi, ma non ho elementi sufficienti per poterlo garantire. Certo è che alla donna, qualora voglia inserirsi in maniera qualificata, si richiede di rinunciare alla famiglia e ai figli e questo sacrificio non è certamente richiesto all’uomo. Una posizione qualificata richiede un impegno molto maggiore di tempo, di energie ecc. E questo è possibile solo se non si ha un altro impegno altrettanto importante, quale appunto quello della famiglia.

Per quanto riguarda la materia il discorso è diverso. Esistono fattori soggettivi per cui le donne generalmente scelgono un tipo di studi, o sono portate ad interessarsi di certe materie invece che di altre. Esiste un retaggio di modelli culturali per cui si assume che una donna debba occuparsi di arte e di letteratura ma non di altre materie. La maggior parte delle donne sceglie poi le facoltà che consentono di dedicarsi all’insegnamento.

D. Quando ero assistente volontaria ricordo che il mio professore mi diceva sempre che una donna è arrivata là dove un uomo è considerato fallito. Ritiene che questa sia ancora la mentalità prevalente nell’università?

R. Credo che qualcosa stia cambiando. Nelle giovani generazioni la mentalità è un poco diversa, ma questo cambiamento è molto lento perché sembra normale ritenere che la donna quando è arrivata ad un certo punto, si debba ritenere soddisfatta. Questa è appunto la caratteristica di tutto l’inserimento femminile: manca la presenza femminile negli ultimi livelli, in tutti i settori dell’occupazione.

D. Secondo lei è prevedibile una femminilizzazione dell’università in connessione con la dequalificazione della stessa, come è avvenuto con la scuola secondaria?

R. Penso di sì. Già adesso si può vedere. La presenza femminile nell’assistentato è larghissima, comincia ad essere abbastanza larga tra i professori incaricati, è ancora eccezionale nelle cattedre. Non c’è dubbio che in futuro si verificherà un cambiamento proprio in relazione alla dequalificazione dell’università. E’ sempre avvenuto infatti che la dequalificazione di una certa attività coincida con la diffusione della presenza femminile perché gli uomini si rivolgono ad attività che diano maggiori soddisfazioni e soprattutto maggior reddito e maggior potere. Perché retribuzione, potere, soddisfazione e prestigio sociale in fondo sono collegati tra loro.

E’ indubbio comunque che il processo di dequalificazione .delle carriere si accompagna sistematicamente a un processo di femminilizzazione.