aborto: perché digiuniamo

luglio 1974

 

Erano in tante a dirlo: il divorzio è un obiettivo arretrato. Non è un obiettivo nostro femminista; voteremo No ma non ci muoveremo. Com’è stato che poi ci siamo mosse? E’ stato perché ci siamo rese conto che attraverso una ’battaglia politica’ anche arretrata, passava la nostra lotta per la liberazione delle donne, che attraverso la lotta politica sconfiggevamo il silenzio che opprime la donna. L’elemento discussione, dibattito, si legava all’elemento presa di coscienza; passava il nostro discorso, le donne partecipavano e hanno detto No.

Per questo, adesso, dopo l’esperienza del referendum, ci siamo tutte convinte che per quanto il testo della proposta di legge Fortuna sull’aborto non piaccia a nessuna di noi, per quanto non si spinga molto al di là dell’aborto terapeutico-eugenico, per quanto sia arretrata, insomma, la sua discussione al Parlamento rappresenta un momento di dibattito. La utilizzeremmo se non altro per dire che questa legge per noi è pochissimo. La vogliamo per far passare un discorso femminista sull’aborto, sulla maternità come libera scelta della donna, autogesione del proprio corpo, ree. La vogliamo perché vogliamo intanto che di aborto si parli, perché le donne parlino e non si vergognino di avere abortito e di dirlo.

Come femministe e soprattutto come donne, non potevamo più tollerare questo cinico silenzio sulla nostra pelle, non potevamo più ammettere, a due anni dalla presentazione della legge Fortuna, che dei tre milioni di aborti clandestini (dove clandestinità significa terrore, senso di colpa, dolore fisico, trauma psichico…) fossimo noi sole a parlare, che il Parlamento se ne fregasse così, non rispettando neanche i propri regolamenti circa i tempi e le scadenze dell’iter delle leggi. Per non parlare del silenzio della Commissione Sanità sulle donne operaie vittime di aborto. Non si può rifiutare di parlare di aborto e di ritenerlo un reato, mentre d’altra parte milioni di donne sono vittime di aborto bianco, un aborto che serve alla produzione. Alla richiesta della discussione della legge Fortuna si aggiunge la richiesta che la Commissione Sanità renda pubblici i dati sulle donne operaie vittime di aborto in fabbrica. Abbiamo iniziato il digiuno il 28 giugno (tre cappuccini al giorno, più le vitamine) in 20, tra Movimento di Liberazione della Donna e Movimento Femminista Romano.

Ma non ci sentiamo venti donne che fanno un’azione esemplare: siamo venti dei tre milioni di donne che ogni anno decidono di abortire. E vogliamo contattare le donne, coinvolgerle, farle partecipi di questa nostra iniziativa, sia indirettamente, sia attraverso la stampa (per quel poco che riusciamo, con molta fatica, a fare uscire sulla stampa) sia, soprattutto, direttamente. E’ quello di cui ha più paura il potere: che la donna, la donna «qualunque», la casalinga, la proletaria, la borghese, la reazionaria, la progressista, quella che «di politica non si interessa» e la militante di partito, si ricordi dell’aborto suo o di quello dell’amica, della sorella, della figlia, e di sé come donna, della propria oppressione, a prescindere dalle proprie scelte individuali, e cominci a tirar fuori il suo potenziale rivoluzionario Iniziamo questo digiuno, le poche femministe rimaste a Roma con il caldo,

con le vacanze rimandate o le ferie chieste per digiunare, le difficoltà di ottenere il permesso di occupare il suolo pubblico, il pulmino che non si trova. Baraccate finalmente a piazza Navona col tavolo ingombro di ciclostilati di lettere da mandare ai parlamentari (in cui chiediamo che vengano fissati i tempi di discussione della legge Fortuna e che venga subito votato anche al Senato il nuovo diritto di famiglia) domandiamo una firma e il costo del relativo francobollo e del recapito: « una firma e cento lire » (se possono, se vogliono, perché ogni, firma sia autofinanziata) attacchiamo francobolli, scriviamo indirizzi e dipingiamo cartelli. Raccogliamo una media di mille firme al giorno, per la maggior parte di donne; ma anche di uomini, di gente di tutte le età, condizione sociale, ideologie politiche, aanche cattolici. Se un sacerdote ha fatto pregare in una chiesa poco distante per le nostre anime di peccatrici, un altro ha addirittura firmato. Neanche noi ci aspettavamo tante firme, tanta partecipazione, tante donne. E allora se non basta che tre milioni di donne ogni anno abortiscono, se non basta che 20.000 donne muoiano o restino menomate, se non basta che per attirare l’attenzione su un fatto già così clamoroso 20 donne digiunino, tempesteremo il Parlamento con questa valanga di lettere e con i telegrammi che (vedi documento) invitiamo tutte a mandare. Perché non siamo 20, non siamo le « quattro femministe che non mettono paura a nessuno »: sul dato delle mille firme al giorno il Parlamento, il regime, è bene che ci rifletta.