come nasce un video-tape

luglio 1975

 

Video-tape o film in 16 mm? Tra le compagne della commissione «Donne e cultura» del collettivo femminista comunista si era posto qualche mese fa questo problema di scelta. Il tema al contrario era stato deciso. Volevamo cercare di esprimere ciò che il movimento femminista pensava sull’aborto dopo l’esplosione del problema a livello di stampa, di opinione pubblica e di partiti politici, in seguito ai fatti ben noti della clinica di Firenze del CISA e all’arresto di Adele Faccio. E’ bene precisare subito che il dilemma tra quale dei due mezzi espressivi scegliere non era certamente un sofisticato problema del tipo «comunicazioni-di-massa». C’era innanzitutto un problema finanziario. Nessuna di noi conosceva esattamente il fatto che un film di mezz’ora girato in 16 mm costa circa due milioni di lire. E’ stata una regista, che ha partecipato a due o tre riunioni della commissione, a fornirci molte spiegazioni, sia tecniche, in relazione al mezzo e alla sua possibile distribuzione, sia più specificamente di «linguaggio» filmico puro e semplice. Mentre molte di noi nutrivano dei dubbi sul fatto che una volta decise ad uscire fuori con un nostro prodotto culturale era meglio scegliere, diciamo così, il mezzo migliore che il mercato ci offriva, altre compagne, che nel frattempo si erano informate sulla possibilità di poter affittare un videoregistratore, sembravano spingere decisamente verso il video-tape. La discussione è durata due o tre riunioni. Dopodiché per non bloccare il lavoro complessivo della commissione (che intanto portava avanti il discorso sulla crisi del piccolo gruppo, sull’autocoscienza…) si è deciso di formare una sorta di sottocommissione formata da tutte quelle compagne che sembravano più interessate a partecipare attivamente a questo lavoro.

Perché in sostanza avevamo scelto il video-tape?

A parte il fatto, non certo trascurabile, del costo (la FICC, federazione Italiana circoli del cinema, ci aveva fatto un preventivo di circa 200 mila lire), ci sembrava che in tal modo potevamo cercare di riprendere dal vivo quello che le donne, tutte le donne che riuscivamo ad incontrare un po’ ovunque, pensavano realmente sull’aborto. Chiunque abbia lavorato un po’ nel cinema — e non a spese di un grosso produttore che può permettersi bilanci di miliardi — sa quale sia l’angoscia principale del regista: si deve imbroccare immediatamente la situazione, la scena giusta, perché la pellicola costa cifre incredibili e la parte di materiale girato che non può essere utilizzato nel montaggio del film è inservibile e va buttato via. Insomma si deve andare alla ricerca dell’immagine perfetta, e quindi si deve cercare di costruirla quasi sempre in modo artificiale e fittizio: il famoso ciack si gira.

Con il videoregistratore questo problema non esiste. Un nastro costa relativamente poco (13 mila lire circa) e dura quaranta minuti. Se viene male, sia tecnicamente sia per il contenuto, si può cancellare e riutilizzare. Parti dei nastri poi si possono montare registrandole di nuovo su un altro nastro, anche se l’attacco non è certamente quello che si può fare su un 16 mm in moviola. Altro vantaggio importantissimo è che il videotape è una macchina che chiunque (basta saper mettere a fuoco l’obiettivo) può imparare ad usare. Nel nostro caso è stato semplice perché abbiamo lavorato con una compagna francese regista che aveva già fatto parecchi documentari per la televisione francese e messicana. Con il suo aiuto, ma più semplicemente vedendo dal vero che cosa era questa sorta di «mostro sacro» che è sempre una macchina da ripresa, alcune di noi hanno imparato ad usare videoregistratore e telecamera. Anche se il rapporto tra il «tecnico» (ovvero la compagna che sapeva usare la macchina) e le altre compagne non è stato sempre facile, si è cercato di non ricreare il rapporto di subordinazione fra chi si era già appropriato di mezzi culturali e chi invece non aveva mai potuto imparare a gestirseli. Il discorso dei ruoli, comunque, è stato aperto tra di noi e ci riproponiamo di approfondirlo. La difficoltà maggiore, l’abbiamo incontrata nella unificazione dei due momenti: quello puramente teorico, di analisi e di dibattito, e quello della «prassi», ovvero quando andavamo a «riprendere» la realtà. La fase più interessante del lavoro che, senza troppe inibizioni possiamo chiamare «collettivo» e «femminista», è stata quella della stesura di una scaletta. Il problema dell’aborto, sapevamo, era ed è sempre di più all’ordine del giorno. Tutte le forze politiche, sia quelle progressiste dell’arco costituzionale, sia quelle della sinistra extraparlamentare (anche se con discriminanti ben precise) se ne stavano impossessando dandogli il «marchio» di una battaglia per i diritti civili. Al contrario di altri gruppi femministi Italiani che avevano deciso di non impegnarsi nella battaglia per l’aborto, il collettivo femminista comunista, con un documento pubblicato fin da sei mesi prima, aveva deciso di mettere l’aborto all’ordine del giorno tra gli obiettivi da realizzare. Su questo punto, ovvero dare un taglio femminista alla battaglia per l’aborto, eravamo tutte d’accordo. Il dato più significativo è un altro: il metodo di lavoro. Con molta semplicità abbiamo iniziato a fare autocoscienza sull’aborto: abbiamo cercato di capire quello che per ciascuna di noi significa abortire. E non solo abortire la prima volta; anche una seconda e poi dopo magari fare un figlio. Che cosa aveva significato abortire prima di diventare femministe e quello che significa oggi aiutare un’altra donna ad abortire. Ci siamo immediatamente rese conto che parlare di aborto significa parlare della nostra sessualità, del nostro corpo, del rapporto che abbiamo con il nostro partner. Proprio dal racconto che ognuna di noi faceva sulla propria esperienza (sempre traumatica comunque) ci venivano chiari quei «nodi» per cui tante donne abortiscono. Il problema, infatti, non è soltanto l’ignoranza sugli anticoncezionali (problema del resto che oggi riguarda proletariato e sottoproletariato, ma sempre meno studentesse, impiegate o intellettuali) ma è il tipo di rapporto punitivo e di estraniazione che abbiamo con il nostro sesso. A questo va aggiunto il discorso dei ruoli imposti, per cui nasciamo, viviamo, mangiamo e a volte moriamo con l’unico fine: quello di procreare.

Ma procediamo sul metodo del nostro lavoro. Dopo due riunioni-fiume, una è durata un’intera domenica, abbiamo deciso di stendere una sorta di questionario di domande da rivolgere alle donne che via via, nelle diverse situazioni incontravamo. Le domande alla fine sono state più o meno le stesse.

Perché tante donne abortiscono? Eri sola quando sei andata ad abortire?

Una volta legalizzato l’aborto chi dovrà decidere se e come abortire? Perché sei rimasta incinta pur non volendo un figlio?

Ti senti libera e felice quando fai l’amore con il tuo uomo? Che senso ha oggi per le donne fare una battaglia per l’aborto? Queste le uniche cose scritte da cui siamo partite.

Infatti a nessuna è venuto in mente di scrivere una sorta di soggetto a tesi su cui montare alla fine le scene adatte. Al massimo abbiamo deciso che dovevamo «girare» in sei o sette luoghi-chiave. Mercato, dove tutte le donne vanno e non solo le casalinghe; scuola, abbiamo organizzato prima una sorta di discussione tra alcune compagne femministe del «Visconti», poi siamo andate al «Castelnuovo» dove molto spontaneamente si è formata una mini-assemblea; parco, c’era dalla ragazzina alla nonna con bimba piccola, dai fidanzati alla babysitter; Magliana, case occupate, non sapevamo della presenza di un collettivo femminista del quartiere e siamo andate con qualche indicazione a casa di una donna che ha chiamato le altre del palazzo; fabbrica, abbiamo scelto la Voxson, ma naturalmente non siamo potute entrare dentro i cancelli, abbiamo fermato parecchie donne, ma per loro si aggiunge il problema degli «aborti bianchi»; policlinico, siamo riuscite ad entrare nel reparto ginecologia: sia se vai a farti fare un raschiamento a vivo o a partorire è più che evidente che la medicina non è certamente fatta a misura di donna; self-help, abbiamo registrato sia una giornata del loro convegno che un’autovisita. Abbiamo poi ripreso un aborto fatto con il metodo Karman. In tutto dieci ore di materiale. Ed è stato proprio da questo materiale, da tutti i racconti e le discussioni delle donne che è venuto fuori il filo logico su cui montare un nastro completo di un’ora circa. Inoltre, per la particolarità del montaggio con il videoregistratore, tutti gli altri nastri girati sono utilizzabili anche singolarmente. Uno per esempio è quello di una ragazza che avevamo incontrato casualmente al parco. Mentre in un primo momento non voleva dire una sola parola sull’aborto, poi era venuta personalmente a casa di una di noi per raccontarci il suo aborto e tutto quello che aveva provato prima e dopo, nei suoi rapporti con gli altri, con il ragazzo, con se stessa. Questo nastro lo abbiamo già fatto vedere in una scuola, al convegno self-help, un cineclub. La storia di Gianna, una storia qualunque senza toni tragici; potrebbe essere quella di ognuna di noi e proprio per questo una storia ancora più terribilmente tragica.