contraddizioni della doppia militanza

«L’essere comunista e femminista sono due esigenze complementari, due lotte che hanno bisogno l’una dell’altra».

giugno 1976

sono diventata femminista nel 70, appena arrivata a Roma dal mio paese (1200 abitanti) dove per 23 anni avevo vissuto la mia vita di «brava ragazza» cattolica. Per tutta l’infanzia, scandita da «mesi mariani», vespri domenicali e processioni in cui io e mia sorella, con’ tanto d’ali di cartapesta celeste, recitavamo compunte il ruolo di cherubini, i comunisti (che pure allora erano al governo del mio paese, che è a metà falce e martello, a metà biancofiore) erano «quelli della Casa del Popolo», il caffè più scalcinato del posto, dal quale uscivano, al sabato sera, avvinazzate edizioni di Bandiera Rossa. Alla «Casa del Popolo» io e mia sorella non potevamo entrare: ci era, se non formalmente proibito, vigorosamente sconsigliato dalla famiglia (il cui solo neo, in materia, era uno zio operaio della Olivetti, «rosso», per la cui conversione la nonna faceva continue novene). L’unica infrazione riguardava la Festa dell’Unità: la corsa nei sacchi e l’albero della cuccagna erano troppo allettanti perché la barriera ideologica potesse resistere. Essendo il paese molto piccolo, la familiarità con i comunisti era comunque inevitabile; e il nostro modo di vivere tanto simile che, a parte la netta spartizione dei bar fra gli uomini (comunisti alla Casa del Popolo, socialisti alla Cooperativa e gli altri al bar Centrale) e le discussioni in piazza, si finiva col dimenticare che il barbiere era socialista e il falegname democristiano. Ma se la frequentazione quotidiana attenuava il peso delle differenze politiche, non lo cancellava completamente: per cui a noi bambine l’avventore della Casa del Popolo pareva senz’altro un gradino più giù, nella scala sociale, e di molti in quella etica, del falegname DC. Perciò la prima volta che votai (socialista) mi sentii un Giuda: tradivo non solo la mia famiglia, ma la mia tribù e il mio intero passato.

Cosa che sentivo di dover fare, ma dolorosa. La volta dopo votai PCI: credo, nella penombra complice della cabina elettorale, di essere arrossita. Ai miei non lo dissi, lo feci capire a rate; agli amici lo lasciai intuire. Ma ormai abitavo a Roma; tornavo «su» solo in vacanza e a votare. Ritornata a Roma la scomoda sensazione di aver «tradito» si attenuava o perlomeno avevo abbastanza argomenti razionali con cui attutirli.

Frequentavo allora Rivolta Femminile: eravamo pochissime, nel 70, e non era consigliabile sbandierare in giro di essere femminista. Io né lo sbandieravo né lo tacevo: a Roma lo sapevano praticamente tutti quelli del mio «giro». Ma al paese, le volte che ci tornavo, scattava il «tabù del clan» : non osavo dire niente e, interrogata, mi avventuravo in spiegazioni imbarazzate, mi contraddicevo e sentivo, con una certa infelicità, di non appartenere più a nessuno, né al paese né alla città. La mia maturazione politica è dunque stata un processo di sradicamento segnato da continue contraddizioni, tra un «anelito marxista» e un «rigurgito cattolico». Carico, nonostante la sicurezza con cui la mia parte razionale procedeva, di sensi di colpa. Tuttavia la sensazione del «tradimento» di tutto un mondo è stata molto meno acuta riguardo al mio diventare femminista che al mio iscrivermi al PCI. Essere femminista rispondeva a esigenze talmente profonde, spontanee, «globali» che mi era semplicemente impossibile non esserlo. E’ stata un’adesione non solo razionale, ma viscerale, quasi d’istinto: soprattutto non sentivo esclusa nessuna parte di me e, ancor più importante, mi ritrovavo, con gioia, con stupore, nelle altre donne, con gli stessi problemi, lo stesso disagio, la stessa ansia di liberazione. Era tale la felicità di poter comunicare, di sentirmi finalmente non «anomala» ma unita ad altre come me, da farmi superare i dubbi e le paure che accompagnavano il lento ma inesorabile abbandono del mio vecchio io. In fondo, a pensarci bene, era un «do ut des» perfetto: io «tradivo» la mia tribù, il mio gruppo di appartenenza, storicamente superati, e ne acquisivo un altro. Con la differenza che nel primo c’ero nata e lo avevo accettato acriticamente, il secondo lo avevo scelto e sulla base di una coscienza critica. Il diventare femminista, benché rivoluzionasse tutto quello in cui avevo creduto, non mi era fatica, ma una traiettoria «naturale» (la fatica di essere femminista la sento più adesso, a sei anni di distanza, ora che comincio a sentire il logoramento di questa lotta quotidiana). Per iscrivermi al PCI, invece, ho tentennato fino al ’74. L’adesione emotiva, istintuale, qui era esclusa: si trattava di un fatto razionale, frutto di un’analisi. Avevo quindi molte più remore e sentivo più inquietante il senso del «tradimento», definitivo ormai, nei confronti del mio passato. Ma non era solo una questione di cattolicissimi sensi di colpa, di «psicosi del tradimento». Come tutte le femministe, non mi potevo riconoscere a pieno in un partito che, per motivi storici che qui non è il caso di analizzare, era sulla questione femminile in notevole ritardo (ritardo che ora sta tentando di colmare). Dopo aver sperimentato il modo di fare politica nostro, far politica in modo tradizionale mi riusciva difficile e sbagliato. Difficile e sbagliato mettere da parte il privato, come se non fosse terreno politico, spartire la mia vita in due, una pubblica dominata dall’impegno con la I maiuscola, e una provata, oasi di pace non sfiorata dalla Storia (di pace soprattutto per lui, il mio compagno, che intendeva il rapporto privato soprattutto come rifugio, l’unico luogo in cui fosse permesso essere se stessi). In sezione il privato era tabù: il tipico riserbo dei comunisti per tutto quello che riguarda la loro «intimità» (famiglia, sessualità, ruoli) segnava una chiarissima «linea rossa» tra tutto quello che era ritenuto politico, quindi da discutere, analizzare e sviscerare e quello che doveva rimanere territorio del silenzio, o dominio del «sovrastrutturale», quindi trascurabile. Io ero guardata con un’ombra di sospetto: in odore di eresia ogni volta che tiravo in ballo il femminismo.

I compagni sfogliavano Effe con sufficienza, con un mezzo sorriso e mi ammonivano sui pericoli delle «lotte settoriali» e delle «istanze individua liste-borghesi». Io, da buona ex-cattolica, mi sentivo in dovere di lacerarmi in preda ai sempre presenti complessi di colpa. Potevo essere una «buona compagna» e una «buona femminista» insieme? O non dovevo forse dare priorità all’una o all’altra lotta, alla discriminazione di classe invece che a quella di sesso, alla «struttura invece che alla sovrastruttura?»Per un anno, mentre facevo il «porta a porta» per il «referendum sul divorzio», vendevo L’Unità e partecipavo agli «attivi», ho vissuto in piena «schizofrenia da doppia militanza». Non mi sentivo né una «buona compagna», né una «buona femminista»: il che, per la mia coscienza nonostante tutto cattolica, equivaleva a una autocondanna. Quel che mi ha risolto, almeno in gran parte, questa dicotomia è stata la presa di coscienza che mi trovavo di fronte a un falso problema, a un dilemma inesistente: l’essere comunista e femminista sono due esigenze complementari, due lotte che non si escludono a vicenda, ma che hanno bisogno l’una dell’altra. Vedi il nostro slogan «non c’è rivoluzione senza liberazione della donna, non c’è liberazione della donna senza rivoluzione»: il cambiamento della società necessario a mutare la condizione femminile non sarà mai ottenuto senza la partecipazione cosciente delle donne in quanto «persone». Io avrei potuto essere comunista e basta, se il PCI e le sinistre non avessero trascurato la «questione femminile» nella sua accezione più vasta, se non si fossero fermati a un discorso di emancipazione: essere femminista colmava quindi una lacuna, era una necessità determinata dalle condizioni storiche. In un certo senso è anche un grosso servizio reso alle sinistre: indicare le loro carenze, far prendere loro coscienza dell’esistenza di istanze di cui «non si facevano carico», per usare il codice caro ai partiti, significa permettere alle sinistre stesse di fare un’autocritica e recuperare gli spazi perduti. Capito questo, e liberatami una volta per tutte da sensi di colpa vari, ho incominciato, pur continuando a sentirmi del PCI, a frequentare di meno la sezione, poi a smettere del tutto: era un problema di tempo (impossibile lavorare, fare Effe e anche la sezione) ma soprattutto ero convinta che, in confronto a quello che potevo fare in sezione, era più importante, tutto sommato più utile fare politica nel femminismo. Perché il femminismo (a parte le frange radicaleggiami, decisamente minoritarie in Italia) senza rinnegare la necessità dei cambiamenti strutturali, fa un passo avanti e esplora la possibilità dei’ cambiamenti cosidetti sovrastrutturali partendo da adesso. In altre parole fa totalmente piazza pulita della convinzione che esista un automatismo meccanicistico tra mutamento delle strutture e delle sovrastrutture («facciamo la rivoluzione e queste cose si risolveranno»). E quindi afferma la necessità di ‘ fare lavoro politico ‘ anche all’interno di queste sovrastrutture proprio per garantire la possibilità di una ‘ rivoluzione ‘ totale, di una liberazione globale dell’essere umano. Il ‘ privato ‘ invece di essere considerato un intralcio all’impegno politico, o un agnello da sacrificare sull’altare della rivoluzione, diventa politico anch’esso: è il contrario dell’individualismo di cui molti ancora accusano di femminismo, non avendo capito che ‘ privato ‘ non significa ‘ individuale ‘ ma la storia di ognuna di noi in cui è possibile leggere la storia di ogni altra, un fatto sociale, sottratto definitivamente al mito della ‘ unicità ‘ dell’individuo. Fare politica nel femminismo è dunque per me omnicomprensivo: significa non solo avere certe idee politiche, ma tentare di viverle, praticare i valori in cui crediamo. Cosa tutt’altro che facile da raggiungere, ma che il femminismo ha avuto il merito di indicare, più che come obiettivo, come necessità: perché non ci si libera a metà. Adesso che il PCI e le sinistre stanno mutando atteggiamento nei confronti dell’eresia femminista e sembrano pronti, al di là dei recuperi strumentali, a ‘ confrontarsi ‘ con i contenuti del movimento, si può forse aprire una fase nuova. Sono prospettive su cui dovrò riflettere a lungo: impegnarmi di nuovo nel PCI? come? e in che modo potrò garantire la mia autonomia di femminista, senza farsi inghiottire dalle strutture del partito? oppure è più utile restare nel movimento perché la nostra lotta è in questo momento più avanzata e contribuisce in ogni caso alla costruzione di quella società nuova per cui si batte il PCI e la sinistra? Per ora io ho scelto la seconda ipotesi. Ma sono domande che non riguardano solo me: la risposta la daremo insieme.