donne e cultura

luglio 1974

 

Il cosidetto « senso comune » opera una netta distinzione fra intuito e intuizione. Alle donne è spesso concessa la prima di queste facoltà, quasi mai la seconda. L’intuizione, infatti, che ha un ruolo determinante nella ricerca scientifica, nella speculazione filosofica e nella creazione artistica, viene considerata un indiscusso attributo della intelligenza maschile. In un Almanacco della Donna Italiana del 1928, a proposito delle scrittrici italiane si legge: « le nostre scrittrici non si propongono ordinariamente dei problemi di stile, né si distinguono per una determinata concezione filosofica che abbiano della vita. Sono delle istintive; e se un problema si affaccia al loro spirito è solo quello della morale comune, che si risolve nella esaltazione della bontà e nel sentimento di ripulsa che ispira la malvagità ». Per trovare valutazioni critiche simili a questa, non è necessario ricorrere alla stupidità fascista: quasi tutte le storie letterarie sono piene di giudizi del genere. Le donne, che sono ritenute così deficitarie di intuizioni di valore « universale », anche quando si dedicano alla scrittura, non saprebbero liberarsi di quell’intuito tutto « femminile », di quel tanto esaltato senso pratico della vita, di quella sensiblerie morbida e sentimentale che rendono tanta letteratura femminile letteratura « minore » o addirittura di quarta dimensione. E’ pur vero che nelle storie letterarie le discriminazioni nei confronti delle scrittrici sono abbastanza pesanti, però non è soltanto accusando gli storici della letteratura che possiamo comprendere la reale emarginazione femminile dalla letteratura italiana. E’ evidente che si tratta di un fenomeno che non nella letteratura trova la sua spiegazione, ma in precisi fattori economici e sociali: escluse dalla gestione del potere la maggioranza delle donne (le felici eccezioni di Saffo o di Virginia Woolf confermano la regola) si son trovate di fatto escluse dall’espressione letteraria di questo potere. Con le lotte emancipazionistiche le nostre antenate, (la loro fetta borghese) hanno conquistato il diritto all’istruzione, diritto che con la scolarizzazione di massa anche nei paesi capitalistici sta diventando sempre meno astratto, anche se la selezione che pesa sulle donne è sempre maggiore che per i loro compagni. La grande immissione di forze femminili nella scuola è certo una delle cause del progressivo aumento del numero delle scrittrici anche in Italia. Pur non volendo far nostro il pessimismo di S. Firestone che paragona le scrittrici di oggi ad artigiani che aprono le loro botteghe in epoca di capitalismo maturo, è pur vero che per una donna che decide di scrivere, i problemi sono enormi ed aumentano tanto più aumenta la propria coscienza femminista. In primo luogo occorre fronteggiare la oggettiva crisi del letterato, comune a uomini e donne, aperta dalla società industriale e per di più dobbiamo comprendere il profondo disagio che proprio in quanto donne viviamo nei confronti della eredità letteraria del passato. Si ripete, ancora più drammaticamente, il rapporto angoscioso che tutte noi da bambine abbiamo vissuto nei confronti delle nozioni scolastiche. « La scuola è meglio della merda », diceva un giovane alunno della scuola di Barbiana; ed è certo vero che anche per noi donne, la scuola è meglio che far faccende di casa o trastullarsi con stupide bambole. Ed è per questo che in classe abbiamo sempre quell’aspetto così diligente, attento, da « sgobbone » e se abbiamo la fortuna di superare la selezione arrivando fino all’università, ci facciamo venire i calli alle mani a forza di prendere appunti su qualsiasi improntitudine esca dalla bocca dell’assistente. Abbiamo bisogno di sapere tutto e vogliamo sapere tutto, anche se vagamente ci rendiamo conto che in quella valanga di nozioni c’è qualcosa che ci è profondamente estraneo e non ha nulla a che vedere con il ruolo che poi la società, in aperta contraddizione con quanto la scuola va predicando, ci ha già preparato prima ancora che nascessimo. Non solo, ma siamo state abituate a giudicare come capolavori di eterna bellezza proprio quelle opere che una residua e ribelle dignità di donne ci porterebbe istintivamente a rifiutare. La presa di coscienza femminista paradossalmente ci risolve e ci complica ancor più il problema. Già nel ’68, la contestazione studentesca aveva portato a rifiutare la cultura come fenomeno borghese ed oggi noi femministe abbiamo un duplice motivo per rifiutare una cultura che sentiamo borghese e insieme patriarcale, elaborata cioè al di fuori o alle spalle della storia delle masse femminili oppresse, e spesso in diretto antagonismo con essa. La prima tentazione è quella della « tabula rasa », della negazione in blocco di tutto quanto ci precede: ci rendiamo conto che il nostro primo problema è quello di gettare le basi per la lenta costruzione di una tormentata ma autentica « identità » femminile, di un modo di essere donna del tutto alternativo al modello offertoci dalla società dei consumi e che noi contribuiamo a creare con la quotidiana presa di coscienza della nostra oppressione nei piccoli gruppi cui il movimento ha dato vita affinché la nostra condizione cambi, in un legame con le lotte della classe operaia che sia qualcosa di più e di diverso di una semplice alleanza. Così come l’autentica cultura operaia si elabora non attraverso la rappresentazione necessariamente populistica e piccolo-borghese che se ne può fare, ma nello sprigionarsi stesso della creatività che il corso della lotta produce, così è soltanto nella pratica sociale femminista che la cultura femminile trova la sua incubazione. Mi rendo perfettamente conto, in ogni modo, che il limite di questo discorso sta proprio nella sua futuribilità e, nel momento in cui non offre immediate soluzioni formali e letterarie, incappa in grossi rischi. Infatti l’unica via priva di compromessi è la totale negazione di ogni prodotto letterario tradizionale, maschile e femminile, ma sappiamo quanto dolorose, impraticabili e sostanzialmente astoriche siano queste volontarie castrazioni.

Un’altra tentazione è quella di negare la specificità del prodotto letterario (negare cioè che sono necessari strumenti tecnici per realizzarlo), scambiando per critica al professionismo e alla divisione sociale del lavoro, un’operazione che può risolversi, nel migliore dei casi, in un atto volontaristico, soggettivo e spesso dilettantistico. Al di là di queste parziali soluzioni si può utilmente esercitare la nostra coscienza collettiva femminista per costruire un criterio di giudizio e di discriminazione che stia dalla parte della donna, un punto di vista femminile con cui affrontare i problemi formali e di contenuti che la storia letteraria ci presenta: che rapporto esiste tra il prodotto letterario di una determinata epoca e la condizione della donna? Quali sono i contenuti più tipici e le scelte formali predilette dalla letteratura femminile? Si può parlare, anche per il passato, di letteratura femminile in senso non deteriore, ma di originalità e di autonomia? Questi e molti altri problemi sono quelli che, secondo me, oggi possiamo e dobbiamo risolvere.