“donne immagini” fotografia di denuncia

maggio 1976

non è stata proprio un’intenzione voluta quella di far pubblicare il libro Donne Immagini come primo libro della collana femminista Donne Contro. E’ capitato per una serie di circostanze che riguardavano il lavoro (redazione, tipografia ecc.), ma a questo punto non mi sembra più un caso del destino vista la serie di contraddizioni che si sono aperte dopo la sua apparizione nel mondo dei libri. Prima di tutto mi sono ritrovata duramente di fronte al problema del significato che ha l’inserimento di un’espressione creativa delle donne nell’industria culturale, dal momento in cui il libro diventa una merce, con un prezzo (la carta costa molto, la stampa delle fotografie costa molto…), con certe regole di distribuzione. Poi mi si è imposta all’attenzione la difficoltà del rapporto di comunicazione tra chi fa il libro e chi lo legge aumentata anche dalla difficoltà specifica di rapporto con un linguaggio, quello fotografico, poco affrontato. Il libro è l’espressione e l’incontro di due esperienze femministe diverse: quella di Marcella che ha fatto le fotografie, e quella di Lidia autrice della parte scritta.

Le donne sono il soggetto delle fotografie; donne di tutte le età fotografate per la strada e «donne nuove» fotografate da sole oppure insieme (manifestazioni, riunioni campeggi), il tutto intercalato e collegato dalla «serie dei ruoli» in cui di volta in volta una donna truccandosi e vestendosi in modo diverso interpreta vari tipi di donna, dando la misura di quanto più conti agii occhi degli altri il travestimento, piuttosto che il soggetto umano che ci sta dentro. Le reazioni di chi ha visto il libro sono state quasi tutte del tipo: è bello-è brutto, è così-non è così. Evidentemente è difficile discuterne come di uno strumento e di uno stimolo per approfondire il problema del rapporto delle donne con la cultura e in particolare col messaggio fotografico. Marcella, Lidia ed io (che curo la collana) ci siamo ritrovate per tentare di parlare un pò di queste cose:

Lidia: oltre alla difficoltà di guardare questo libro che deriva dalla nostra abituale passività rispetto al linguaggio fotografico, c’è anche il fatto che non si tratta di foto piacevoli e neanche di foto di denuncia. Scrivendo l’introduzione ero sempre costretta a fare autocoscienza guardando le fotografie, a registrare immediatamente i ricordi, i rifiuti, i riferimenti che mi suscitavano. Di solito quando sfogli un libro fotografico non c’è questo rapporto di conflitto-comprensione con l’immagine: ti aspetti una cosa molto chiara che non ti faccia faticare tanto a capire.

Marina: normalmente siamo abituate a guardare una fotografia come se il fotografo ci facesse vedere attraverso il suo occhio una parte di realtà al di fuori di noi, nella quale non siamo comprese. Nelle foto di Marcella invece io vedo il tentativo di rompere questa netta separazione tra soggetto e oggetto. Non si può non sentire che la propria storia di donna riguarda la storia di quelle donne e viceversa, e tale consapevolezza fa scattare contemporaneamente reazioni di identificazione e di rifiuto. Ho notato poi che il rifiuto di fronte all’immagine di una donna che «non ci piace» è di solito molto drastico e definitivo, fenomeno che non avviene nei confronti di un reportage fotografico, analitico e descrittivo sulla condizione della donna.

Lidia: infatti: di fronte a fotografie di «denuncia» della condizione femminile è possibile distaccarsi, sentirsi diverse dalle «povere» donne fotografate e rivolgere loro una solidarietà più astratta.

Marcella: la parte che mi sembra più riuscita, quella su cui punterei di più per andare avanti nella ricerca, è la serie dei travestimenti perché è un lavoro di scandaglio sulla propria condizione che però assomma la condizione di tutte le altre donne. La contraddizione tra come ti percipiscono gli altri attraverso tutti quei personaggi e come ti senti tu in realtà dentro tutti quei ruoli diversi.

Lidia: sì, è una parte importante, anche se secondo me non più delle altre Mi sembra che tutto il lavoro che hai fatto sia il tentativo di riappropriarti come donna di un linguaggio e di un mezzo tecnico non per conquistare la tua fetta, il tuo posto nella realtà maschile, cioè nel mondo della tecnica e della cultura, ma per comunicare e per riflettere sulla tua esperienza femminista, che è un’esperienza individuale-collettiva. E’ vero che esistono tante fotografe in questo momento, ma non è vero che tra le donne in generale viene in mente di fotografare la propria vita, la propria condizione, discutendo collettivamente gli aspetti più importanti e quelli che si vogliono comunicare ad altre donne. L’estraneità rispetto ai mezzi tecnici e ai linguaggi è la nostra marginalità rispetto al mondo della produzione sia della cultura che delle merci. Un rapporto diverso con la fotografia, con la parola scritta, con la cultura insomma, è la possibilità di fare una riflessione e di esprimersi su un qualcosa che si vive e si trasforma insieme colletti-mente.

Per me lo scrivere è sempre stato un solitario tentativo di emancipazione fin da ragazzina, un parlare con me stessa e un lanciare messaggi scritti agli altri, sperando che qualcuno mi riconoscesse, mi rispondesse, sperando che la cultura, soprattutto la letteratura, fosse un territorio «libero» dalla contraddizione uomo-donna, umano insomma. Quante donne si dedicano alla cultura umanistica-letteraria con quest’idea in testa? Quando ho lavorato per il testo dì questo libro invece cercavo di inserire la mia «capacità» di scrivere nell’esperienza femminista che faccio da un pò di anni, e nell’esperienza collettiva, fra donne, che stavamo facendo proprio «producendo» il libro.

Marina: tornando la libro, mi sembra che sia abbastanza sintetico come documento-testimonianza di questa fase del femminismo: ci sono le foto dei ruoli in cui sei tu che ricerchi la tua identità, ci sono le foto delle donne per la strada che hanno dentro questa carica di ambiguità interessante per il fatto che sono donne molto estranee alla tua esperienza sociale, che incontri quasi solo per la strada, poi ci sono le foto del movimento, piecoline, tanto per mettere in chiaro che questi incontri, Pinarella Viareggio Femo ecc., non sono l’alternativa per le donne, ma sono un’esperienza dentro questa ricerca.

A proposito delle foto delle donne per la strada ho sentito molti interrogativi sulla foto delle immagini, in cui le donne non hanno ruoli definiti. Cioè gli unici elementi per inquadrarle sono le età, l’espressione, l’abbigliamento. Marcella: dovendo scegliere tra un sacco dì foto che avevo fatto quelle che più mi convincevano a livello linguistico erano quelle frontali con lo sfondo di ambiente-muro. L’uso del grandangolo mi ha dato la possibilità di creare un rapporto tra il personaggio e l’ambiente, suggerito dalla presenza del muro con le sue macchie, le sue scritte, i suoi manifesti. Non ho scelto le foto scattate in ambienti chiusi a donne che stavano •< facendo qualcosa», perché volevo evitare la descrizione e centrare l’attenzione sulla figura femminile che secondo me da sola fa intuire la condizione. Anziché rapire il momento impressionistico fuggente ho fatto un’operazione mentale volontaria di ricostruzione di una condizione.

Lidia: Sono fotografie che non cancellano, non dimenticano l’ambiente, la società, ma nemmeno ci si perdono dentro, tant’è evidente e puntigliosa al loro interno la ricerca del soggetto donna. Ed è vero, secondo me, che questo è lo sforzo che stiamo facendo, come femministe, diventando sempre più numerose. Ci interessa mi sembra la riappropriazione e la trasformazione dei mezzi di espressione, di ricerca, di comunicazione perché ci servono, ci servono mentre ci costruiamo come soggetti politici, o come donne, che è la stessa cosa.