femminismo u.s.a., un tentativo di analisi

maggio 1976

sul movimento femminista americano ciascuna di noi ha qualche idea. L’analisi dei ruoli e la lotta contro il sessismo è un po’ come se ce l’avessero insegnata le americane. Sono state le più scatenate, le più ‘ radicali ‘, le più colorite. Eppure il femminismo «americano» non ci soddisfa. È indiscutibile che il femminismo ‘ made in Italy ‘ è molto più politicizzato e puntuale, pur nelle sue varie ramificazioni, di quello USA. Ovviamente ci sono ben solidi motivi di tradizione culturale che determinano questa differenza. Tenteremo di farne un’analisi. Teniamo a sottolineare, però, che il femminismo USA non è un blocco monolitico e uniforme, interamente ‘ radicale ‘ e ‘ sovrastrutturale ‘, come troppo spesso e con eccessiva facilità (non priva di un certo senso di superiorità, che è di nuovo maschilmente etnocentrica) – viene giudicato. Con molte delle contraddizioni delle americane ci siamo trovate — e ci troviamo — a fare i conti anche noi. Molto schematicamente possiamo rintracciare tre componenti fondamentali del femminismo statunitense: la lotta istituzionale, la via delle ‘ controistituzioni ‘, l’analisi complessiva della società di stampo marxista. Diciamo subito che questa terza componente è nettamente minoritaria negli USA, come del resto è minoritaria la concezione marxista della lotta di classe nell’organizzazione complessiva della classe operaia americana.

Le prime forme di organizzazione e di lotta delle donne fondate sull’analisi dei ruoli sessuali — da cui cioè, si può cominciare a parlare di femminismo — risalgono al ’66-’68, con la formazione della National Organization of Wo-men (1). La via che questa organizzazione segue è quella che abbiamo chiamato istituzionale. Nel ’67 il NOW stende una Carta dei Diritti della Donna, in cui individua alcuni fondamentali momenti di discriminazione nei confronti della donna.

Cominciano campagne tese alla pressione per la modifica legislativa delle forme più grosse di discriminazione e nel giro di pochi anni il NOW ottiene, a questo livello, buoni risultati. Questo tipo di lotta coinvolge soprattutto le donne bianche della classe media e si inserisce nell’ottica tradizionale della «middle class» americana, riformista e individualista. Il NOW è organizzato su scala nazionale, con strutture precise e gerarchiz-zate, destinate ad utilizzare le istituzioni legali, politiche, editoriali e radiotelevisive per il miglioramento della condizione della donna nel campo del lavoro e dei diritti civili. Istituzione esso stesso, lotta per la modifica istituzionale, accettando sostanzialmente i confini posti dalla società. Il sessismo e la divisione dei ruoli sono, in fondo, disfunzioni del sistema, che complessivamente funziona. Il largo seguito che il NOW raccoglie è spiegabile proprio con la tradizionale fiducia della ‘ middle class ‘. americana nel sistema di cui fa parte, fiducia nella forza che il cittadino medio ha di modificare le istituzioni sociali.

Nonostante le lotte del NOW — e delle altre organizzazioni che nel frattempo sorgono sulla sua scia — producano anche una certa sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei confronti delle donne (divertenti e indicative sono certe forme di pubblicità indirizzate per esempio ad una donna astrofisica) e abbiano successi legislativi — a livello federale e nazionale —, ben presto le donne si rendono conto che la loro situazione complessiva nella società non cambia, se possibile peggiora. Basti un solo dato per questo: la paga media di una donna, che nel 1955 rappresentava il 63,9% di quella di un uomo, nel 1972 scende al 58,2% (2). Evidentemente i miglioramenti ottenuti attraverso i canali tradizionali sono solo ‘ contentini ‘, non bastano. La via delle istituzioni viene contestata, il movimento si radicalizza. Nascono collettivi spontanei, di base, organizzati senza gerarchie, in piccoli gruppi, che mentre da un lato approfondiscono i contenuti femministi accentuando la lotta alla leadership, la sisterhood, l’autocoscienza, dall’altro si organizzano intorno a piani concreti di lavoro, diretti a creare ‘ controisti-tuzioni ‘ tutte femminili. Fioriscono i rape centers, le cliniche alternative per la salute della donna, i centri di controinformazione, i giornali, i bollettini. Le donne che danno vita a questo tipo di organizzazione hanno in genere alle spalle già un’esperienza politica; sono cresciute col movimento studentesco e ne hanno condiviso il riflusso. I gruppi di questo tipo sono numerosissimi e sparsi su tutto il territorio nazionale.

Difficilissimo seguirne una mappa, anche se esistono comitati di coordinamento per la collaborazione dei gruppi a livello locale, strutturati orizzontalmente a seconda del tipo di lavoro svolto (salute, stampa, ecc.). Questo modo di organizzarsi è già stato chiamato ‘ nuovo femminismo ‘, rispetto al NOW. È più vitale, più dinamico, più radicale. La diversa strutturazione interna riflette l’approfondimento ‘ teorico ‘ femminista. Nell’area di questo ‘ nuovo femminismo ‘ troviamo anche i collettivi femministi-socialisti (notando che «socialista» negli USA significa solo, grosso modo, ‘ analisi marxista della società ‘, e non va confuso col socialismo europeo).

Che differenza c’è tra i gruppi che danno vita a controistituzioni e i collettivi femministi socialisti e perché questi sono così minoritari nell’area del femminismo americano? (3) Il lavoro delle controistituzioni è fecondo e funziona egregiamente. A livello teorico generale esso, tuttavia, rientra sempre nell’area dell’ideologia della «middle class», è perciò più facilmente accettabile e comprensibile.

Costruire controistituzioni significa di nuovo accettare come terreno di scontro il sistema sociale in cui ci si muove. Non si abbattono le istituzioni in quanto espressione di un certo sistema: esse sono contestate solo perché come sono non sono funzionali per una parte della società; se ne creano delle altre, ma l’obiettivo non è la distruzione dell’istituzione stessa, né tantomeno della società che la esprime. Il quadro in cui ci si muove con le controistituzioni rimane istituzionale.

Dietro questa impostazione della lotta non c’è un impianto teorico generale, l’analisi da cui parte non mette in discussione il sistema nel suo complesso (o, quando lo fa, nel momento della realizzazione concreta non supera la settorialità).

Di nuovo per spiegarci il successo di questo tipo di strategia femminista, dobbiamo riferirci al quadro ideologico complessivo della società americana. I radicali, la new left non marxista, le femministe di questi gruppi rimangono dolori di pancia della borghesia, un po’ più forti, ma mai letali. Ovviamente in quest’affermazione non c’è un giudizio di valore. La tradizione democratico-borghese americana, il diverso rapporto tra il cittadino e l’istituzione — più stretto e dialettico del nostro — l’intero apparato ideologico di una società ottimista perché potente, spiegano questo fenomeno. Per cui non possiamo negare come «riformista» questo tipo di femminismo, dando al termine riformista l’accento negativo che ha nella tradizione europea. Le controistituzioni femministe, inserite nel contesto della società americana, hanno un’enorme importanza, perché vanno ad occupare i pochi interstizi che il sistema lascia aperti alla contestazione e al mutamento. Certo esse sono sempre sul filo del rasoio, in costante pericolo di essere riassorbite nel sistema e di diventarne una parte integrante, che fa funzionare meglio le istituzioni stesse che vorrebbe contestare. Ma non si può stabilire un metodo unico di lotta alla società ed esportarlo — tantomeno un metodo di lotta femminista — perché esso nasce dalla società stessa e dalle sue contraddizioni, diverse per ogni area culturale. Nei collettivi femministi socialisti, si tenta invece una via e un’analisi che ci è più familiare: quella della critica globale alla società avvalendosi degli strumenti del marxismo; la individuazione del sessismo e dei ruoli come prodotto di una struttura economica a cui sono funzionali, che anzi fanno parte della struttura stessa e quindi il legame della lotta di liberazione della donna con la lotta per il cambiamento della struttura economica capitalista. Tuttavia il femminismo socialista non è in funzione dei partiti o dei gruppi socialisti esistenti. Il fenomeno delle commissioni femminili dei partiti della classe operaria, cinghia di trasmissione tra il partito e le donne, praticamente negli USA non esiste; mentre al contrario queste hanno un peso e costituiscono un interlocutore del movimento, con cui bisogna fare i conti politicamente.

Il femminismo socialista è autonomo e mantiene tutti i contenuti femministi: l’importanza dell’autocoscienza e della sisferhood,, e quindi del momento del «personale». (Problematica che è simile a quella dei nostri collettivi femministi-comunisti). Come già è accaduto per il movimento negro, che è passato attraverso le tappe dell’integrazionismo, del separatismo e della lotta alla società razzista, piuttosto che al razzismo puro e semplice (per quanto possa essere ‘ semplice ‘ il razzismo), schematizzando al massimo, ci sembra che il movimento femminista nel suo complesso ne ripeta la strada. Con ciò sicuramente non intendiamo dire che il femminismo socialista sia il punto di arrivo di un processo lineare. Le tre componenti del movimento continuano a convivere e ad integrarsi.

(1) Per una più dettagliata analisi della storia del movimento nordamericano vedi su Effe del novembre-dicembre 1973 gli articoli di Daniela Colombo, Alma Sabatini e Adele Cambria.

(2) J. Carlander, Le Americane, Editori Riuniti, 1975.

(3) L’analisi schematica che qui tentiamo è solo a livello «culturale», diciamo così. È chiaro che, dato il clima di anticomunismo maccartiano persistente negli USA, la repressione che subisce una qualsiasi iniziativa vagamente socialista — maggiore che nei confronti delle allre — influisce negativamente sulla possibilità di una sua più larga presa e diffusione.