il gioco dello specchio

gennaio 1981

 

Continua la serie di interviste a donne che lavorano ”in gruppoPer l’Associazione Sheherazade di Firenze, il colloquio si è svolto con Maresa D’Arcangelo,

Carla Nitti e Rita Monaco Bartolini.

 

Chi siete?

Carla — Dal punto di vista notarile siamo un’associazione culturale, diciamo però che siamo un gruppo di donne, attualmente sette, che si è aggregato due anni fa iniziando a lavorare con un seminario nel corso di Storia del Cinema, al Magistero di Firenze. Un seminario sul cinema delle donne. Nel ’79 abbiamo organizzato la nostra prima rassegna, ’’L’occhio negato”, dedicata esclusiva- mente al cinema femminile; poi il lavoro è continuato su questa falsa riga. Abbiamo inserito una sezione dedicata al cinema delle donne all’interno del Festival dei Popoli e nel marzo ’80 abbiamo organizzato un’altra rassegna molto più ampia della prima, ”11 gioco dello specchio”, largamente rappresentativa della produzione più recente delle donne. Ce n’era bisogno perché almeno a Firenze non era mai passato niente del genere.

 

Quindi la rassegna è nata come iniziativa di studio, per far conoscere dei prodotti mai visti?

Rita — Sì, c’era la voglia di far passare delle cose che non erano mai passate, di far conoscere ad altre donne la storia del cinema. La prima rassegna era collegata strettamente con il seminario fatto all’università e il livello era didattico-storlico; in pratica avevamo messo insieme i prodotti delle prime registe, per farli conoscere. Con la seconda rassegna, organizzata sempre con l’idea di far vedere cose che non sarebbero state viste in altra maniera, abbiamo dato grande spazio alla cinematografìa tedesca. Si tratta di film belli e validi da molti punti di vista, anche da quello commerciale se vogliamo, ma che non passano nella distribuzione normale…

 

Allora il gruppo è un’emanazione del lavoro dell’università?

Maresa — Il discorso era un po’ quello che faceva Rita: voglia di far passare dei film che risultano emarginati dal circuito distributivo. Questo però è solo un aspetto. La cosa che ci interessava di più era di incidere in qualche modo, di essere presenti come donne e non solo come organizzatrici alternative. Ci è sembrato importante non tanto organizzare delle rassegne per far vedere dei film, ma rendere possibile una mediazione tra il film e il modo in cui questo viene recepito. Esistono varie situazioni in Italia, e ancor più nel resto del mondo (‘Francia, Olanda, Stati Uniti), in cui vengono presentati film fatti da donne, spesso si tratta di film importanti, buoni, ma non basta farli vedere, offrire una documentazione di come hanno visto e vedono il mondo le donne. E’ importante lavorare su come le spettatrici stanno al cinema e nello stesso tempo avere la possibilità di fare una lettura critica collettiva del film. Credo che questo sia importante sempre, per l’acquisizione di cultura cinematografica. Per i film fatti dalle donne è vero più che mai, perché nel momento stesso in cui arrivano possono scomparire ed essere del tutto riassorbiti, se non si trovano momenti di lettura collettiva, che permettano di disabituarsi ad un certo punto di vista, che è forse troppo semplice definire maschile, comunque alla maniera solita con cui ci si pone davanti ad un film.

Per tutti questi motivi abbiamo utilizzato le possibilità che ci venivano offerte all’interno dell’Istituto di Storia del Cinema. Abbiamo gestito questo spazio in una situazione di mutuo scambio con la Facoltà: una possibilità di studio, di ricerca e di approfondimento per noi, in cambio dei seminari tenuti dal collettivo. Il che più o meno vuol dire che il riconoscimento verso di noi è ufficiale, per quanto riguarda i risultati teorici e il fine pratico dei seminari. Credo che sia una delle ultime situazioni in Italia in cui si fa cultura in facoltà con un rapporto tra educazione permanente e ricerca.

 

In pratica il rapporto con le istituzioni cosa significa?

Carla — Per le rassegne siamo sovvenzionate dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana. Ovviamente siamo partite cercando di legare il tutto a quello che si faceva in Università, e quindi anche l’Università, in quanto istituzione, sta dietro al lavoro del gruppo. Il rapporto più o meno è questo e certo è stato problematico, perché siamo un gruppo slegato dai partiti. Però bisogna dire che non c’è stata alcuna ingerenza, non abbiamo avuto controlli neanche striscianti.

Ci hanno dato la completa libertà di azione e per questo spazio non abbiamo dovuto pagare dei prezzi molto alti.

 

Qual è stato il lavoro che avete fatto?

Maresa — In realtà, sia il primo che il secondo anno, le rassegne sono scaturite dal seminario, che è stato un punto di aggregazione, soprattutto per il primo anno; le partecipanti al corso che hanno sostenuto l’esame come studentesse sono state sì e no la metà; l’altra metà veniva per discutere, informarsi, vedere film, c’erano molte persone estranee all’ambiente universitario. Durante il primo anno la struttura del lavoro è stata piuttosto didattica. Abbiamo lavorato su una panoramica del cinema contemporaneo e poi su una retrospettiva storica. L’anno dopo abbiamo fatto dei calcoli sbagliati: pensavamo che una rassegna con aspetti molto specialistici, sulle avanguardie e cose di questo genere, avrebbe avuto momenti di confronto limitati, anche considerando il clima politico pensavamo che il dibattito sarebbe stato piuttosto ristretto. E invece c’è stata una presenza molto alta di persone, tutte volevano restare dopo le proiezioni ed avevano esigenze di confronto piuttosto specializzate; per esempio c’è stato un dibattito sulla distribuzione e noi immaginavamo che ci sarebbero state soltanto le operatrici e invece ci siamo ritrovate a gestire una situazione di tipo assembleare. C’era un’atmosfera di grande socialità, gente che si incontrava, che stava, che rimaneva e che avrebbe avuto interesse non solo a vedere i film, ma ad avere una struttura permanente di tipo seminariale. In questo senso abbiamo fallito, perché non avevamo progettato la cosa in questi termini. Per la rassegna di quest’anno vorremmo trarre qualche insegnamento da quest ’esperienza.

 

Su cosa sarà la rassegna della prossima primavera?

Rita — Dovrebbe esserci una sezione particolare sul cinema di registe di Paesi dell’est e poi anche una panoramica di esperienze contemporanee. Per quel che riguarda il lavoro del seminario possiamo dire che si è verificato un salto di qualità; nel primo anno avevamo indagato, discusso, reperito materiali, cercando di capire qual’era la situazione esistente, sia rispetto alla ricerca che alla produzione. Ora invece ci stiamo muovendo su monografie, su alcune autrici.

Maresa — Abbiamo impostato una ricerca di carattere storico-critico, sulla donna e il fascismo. Detto così si pensa subito all’immagine della donna nei film fascisti o alla presenza della donna nella produzione cinematografica di quel periodo. In realtà vorremmo lavorare su alcuni aspetti particolari, per esempio sul cinegiornale e sul cinema d’informazione, mantenendo l’attenzione sull’inserimento della donna nel lavoro, sui modelli che venivano proposti, sulla realtà storica. Quindi si tratterrà di utilizzare materiale non girato da donne, di affrontare problematiche a cui, per ora, sono state date poche risposte. Il discorso su cinema-storia e donne in gran parte ancora da fare.

Carla — Il problema è che noi vorremmo un po’ uscire dall’identificazione con la rassegna, che è un momento importante di aggregazione e di informazione, ma vorremmo allargare il discorso investendo oltre al cinema la storia, per scavare un po’ più a fondo. La ricerca sul fascismo è un primo tentativo in questo senso.

 

Ci sono donne che fanno cinema. Esiste un cinema delle donne e un cinema femminista. Che senso hanno queste definizioni?

Maresa — Si potrebbe rispondere che il cinema delle donne sono i film che vengono fatti dalle donne e che tutto il resto va letto, compreso e discusso come si fa con il cinema ’’normale”. In realtà il discorso è un po’ più grosso. Non mi soddisfa assolutamente dare per scontata l’esistenza di un segno filmico delle donne e di un linguaggio femminile, mi sembra anzi un grosso rischio teorizzare questo tipo di cose. Ha più senso considerare la presenza delle donne nel cinema come un fenomeno storicamente determinato. ‘Per quanto siamo riuscite a capire finora, è certamente possibile dire che donne che lavorano in un determinato momento storico, con determinati mezzi e in determinate strutture, si esprimono con un determinato linguaggio, che sicuramente non è quello assoluto o metastorico delle donne, ma è quello di una componente di una particolare società, che probabilmente ha un suo linguaggio, però storico, determinato e da ricostruire momento per momento. Si può dire che oggi c’è un cinema femminista, però ben mi guarderei dal definire femminista il cinema di vent’anni fa, sia pure fatto da donne. Quello che probabilmente può esistere ed è giusto che esista, è la critica femminista, perché la conoscenza di una condizione rende possibile la lettura specifica, particolare e sicuramente diversa…

Rita — Da quando delle donne femministe filmano è apparso per esempio il lavoro domestico, che prima non c’era, come non c’erano donne che non fossero perfettamente truccate o che non andassero a letto con il rossetto e gli occhi carichi di mascara… Questi però sono dati storicizzabili.

 

Non vi sembra ghettizzante parlare di cinema femminista, tenere sempre al centro la contraddizione con l’uomo?

Maresa — E’ vero che le donne che si sono occupate di cinema si sono tenute su tematiche molto ghettizzate, però è anche per questo che adesso è possibile avere rassegne di cinema delle donne, far circolare di più i film. Nel momento in cui ci sarà una reale parità di circolazione, di partecipazione di donne alla produzione, allora potremo parlare di superamento di certe tematiche. Nessuno ha scelto il separatismo, di considerare i prodotti delle donne separati dagli altri, è stata una condizione forzata per avere spazio e credo che non sia possibile fare diversamente… Certo, c’è il fatto che molte donne non si occupano di comunicazione di massa e di informazione e nella produzione di immagini si interessano solo agli aspetti creativi e artistici. L’amore per il cinema ’’d’autore”, per il cinema ’’d’arte” mi sembra molto pericoloso, vorrei molto che le donne pensassero a film tipo ’’Guerre stellari”, sarebbe utile…

 

E la pornografia? Dal movimento questo genere è stato sempre considerato come l’espressione delle fantasie di violenza degli uomini sulle donne. E questo è certamente vero. Secondo voi è possibile rendere più articolata questa definizione?

Carla — Vorrei dire solo una cosa a questo proposito, forse mi sbaglio e vorrei che qualcuno mi correggesse. Mi è sembrato di notare, forse per il desiderio di prendere le distanze dall’immagi- ne della donna come è sempre stata riprodotta, una sorta di pudore nei film delle donne, una paura a far vedere il proprio corpo, non sempre ovviamente, ma molte volte mi è sembrato. In generale il discorso sulla pornografia è complicato, la condanna netta mi sembra ovvia, ma al di là dell’invettiva non si sa cosa sia la pornografia, non c’è una definizione ben chiara e quindi non si può neanche dire come potrebbe essere usato questo genere da una donna. A me non è mai capitato di vedere cose di questo tipo fatte da donne…

 

Si sa, abbastanza vagamente, che donne del movimento americano ed inglese stanno girando film porno. Che ne pensate? Rappresentare il corpo e i suoi movimenti erotici, non trattarlo più come se fosse un tabù esso stesso…

Rita — Credo che la negazione sia legata molto al discorso della militanza, al bisogno di condannare nettamente queste immagini che ti violentano ferocemente. Non è facile scegliere un genere come questo per esprimersi.

Maresa — Poi bisogna pensare che siamo andate avanti su alcune cose rispetto al corpo reale, ma non rispetto all’immagine del corpo. Se pensi a come potresti girare un’immagine di sesso, senza che somigli, che riecheggi, che non ti faccia venire in mente l’altra immagine già cinematograficamente connotata come pornografica, veramente non sai come muoverti. Il dominio sull’immagine del corpo femminile è sempre stato così nettamente maschile che non sai quale sia l’immagine per te…

Rita — Al massimo puoi sapere che  l’immagine che vuoi dare all’esterno deve essere

 

Parliamo della professionalità delle donne. E’ un argomento dolente…

Alice Guy nel 1959.

Carla — Nel mondo del cinema di donne professioniste ne sono sempre esistite e ne esistono anche adesso, per lo più svolgono mansioni di tipo subalterno, però ci sono anche donne di potere. Il problema è che nella maggior parte dei casi questo comporta l’assunzione dei modi, non solo dei mezzi, di lavoro e di vita propri degli uomini. Questo è un problema che non riguarda solo il cinema: la dirigente d’azienda lavora con gli stessi modi del dirigente d’azienda. Il problema è se esiste un modo femminile di essere professioniste, di usare cioè gli stessi mezzi, ottenendo dei buoni risultati, senza snaturarsi. E’ un discorso tutto aperto.

Maresa — Bisogna distaccarsi dal modello emancipatorio stile anni ’50, per cui non si può assolutamente essere precise, esatte, professionali, ma si deve dare un’impronta in qualche modo femminile. Il modo femminile è stato spesso l’irrazionale, da cui la scelta dell’irrazionale, in tutti i casi la scelta di non organizzarsi nei confronti della tecnica. Le donne che lavorano nel cinema professionalmente, che sono fuori dal movimento, pur essendo magari ottime professioniste, non sono critiche rispetto all’organizzazione del loro lavoro. Invece le donne del movimento che rifiutano la professionalità, intesa anche come uso buono della tecnica, arrivano spesso a risultati non socializzabili, che all’interno del movimento possono funzionare, ma che falliscono qualsiasi scopo quando si allarga l’utenza. Dei passi avanti secondo me si sono fatti, alcuni lavori recenti di donne dimostrano che è possibile produrre cose apprezzabili da tutti i punti di vista, ’’Processo per stupro’” è un esempio. Si può avere un livello professionale buono e anche corretto da un punto di vista femminista; si può essere se stesse nel lavoro senza snaturarsi per essere professioniste a tutti i costi.

Carla — Una cosa importante è la condizione di vita. Se una donna lavora, ha una famiglia ed è anche madre, tutto questo ovviamente incide profondamente sul modo di lavorare, su come si muove professionalmente. Qualche mese fa parlavo di questo problema con Helma Sanders, questa regista tedesca molto brava. Lei è certamente una professionista, anche senza dare un giudizio critico sui suoi film si può dire che dal punto di vista tecnico sono dei prodotti di valore. Mi raccontava che ha scelto di girare il suo ultimo film, « Germania pallida madre”, con la sua bambina, di due o tre anni, costantemente sulle spalle, perché non voleva separare di nuovo i due ruoli, regista e madre: la regista che assomiglia all’uomo e la mamma che è tutta femminilità. Ha cercato di unire le due parti e l’esperienza è stata secondo lei positiva…

 

Non è stato massacrante?

Carla — Si è molto stancata, ma quello che ha avuto in cambio è stato bello.

Maresa — Il fatto è che per la donna la maternità è qualcosa di tangibile, c’è il bambino. L’artista uomo, colui che produce, ha una donna, ha meno investimenti emotivi, ha delle cose che non si rovesciano facilmente e che comunque sono meno visibili di un bambino o del lavoro domestico. Si tratta di sicurezze non solo sociali, ma anche emotive, che per una donna è molto più difficile avere. Credo che il taglio maschile, il taglio emancipato, si scelga proprio per questo, perché semplifica la vita…

Rita — Se pensi a come era costretta a vestirsi Dorothy Arzner per poter fare quello che voleva: si vestiva compieta- mente da uomo, arrivava sul set parlando, urlando e comandando come un uomo, e così riusciva a far passare i suoi discorsi. Si trasformava completamente, diventava un uomo e poteva dirigere. Ma è assurdo che una donna debba trasformarsi così per far passare il suo messaggio, era difficile ed è difficile ancora oggi riuscire a farlo senza alla fine sentirsi svuotata, senza sapere più chi sei, cosa stai facendo e dove stai andando…

 

Ci sono posti dove si può andare ad imparare la tecnica? Oppure è necessario fare questo iter di emancipazione alle dipendenze di qualcuno?

Maresa — Se si guarda al nuovo cinema italiano, femminile e non, ci si rende conto che possibilità e mezzi di apprendimento della tecnica non ci sono. O si fa il solito apprendistato al seguito di una troupe o con la RAI; come avviene prevalentemente in questo momento; per il resto non ci sono scuole a cui puoi iscriverti e da cui puoi ottenere certe conoscenze. Il panorama italiano è molto povero in questo senso.

Rita — In Germania e in Inghilterra la situazione è migliore. Inoltre in Italia non ci sono neanche iniziative di autoformazione. C’è qualche vaga idea ma niente di realizzato. In realtà qui non esiste niente, né per le donne né per gli uomini. E invece iniziative di autoformazione tecnica sarebbero necessarie. Il più delle volte si è teorizzato proprio il contrario, e cioè che la donna con la macchina da presa fa un bel film quando le immagini ballano, è tutto sfocato ma siccome è bello quello che sta dicendo è bello anche il film e comunque l’importante è esprimere se stesse senza preoccuparsi di quello che viene fuori. In questo modo si dimentica che il linguaggio filmico esiste e che è inutile porsi come alternative quando non si riesce a comunicare. Il non-linguaggio non è linguaggio nuovo.

Carla — Però questo discorso sulla professionalità è difficile da affrontare e questi sono forse i livelli più superficiali del discorso, però sono anche dei punti di partenza da cui muoversi.

Maresa — Gli strumenti tecnici con le innovazioni elettroniche si sono molto affinati, ma nello stesso tempo l’uso delle macchine è diventato più casalingo e questo è molto importante perché permette che la documentazione del reale passi anche attraverso le immagini prodotte da madri, casalinghe, donne qualsiasi, non da spécialiste comunque. Tutto questo va acquisito e considerato. Però bisogna anche mettersi nell’ordine di idee di , .essere in grado di usare i materiali più moderni e perfezionati.

 

Dicevate che non ci sono scuole, non ci sono iniziative di autoformazione, e però ci sono la rassegna di Sorrento, di Firenze, alcune altre situazioni sparse in Italia… Chi sono tutte queste donne?

Maresa — Il quadro è confuso, ma di certo si stanno muovendo varie realtà. Molte donne, del movimento diciamo, stanno lavorando su ricerche variegate, si sta cominciando a parlare di centri di documentazione, in Toscana e in Emilia. L’anno scorso abbiamo fatto un minimo di indagine sui corsi universitari tenuti da donne in Itaila sull’argomento donne e comunicazione. Sono molti, poco collegati, ma esistono. E si vede quando si fa qualcosa, l’ultima rassegna a Firenze è stata proprio una sorpresa, non capivamo da dove venissero fuori tutte le donne che sono arrivate. L’interesse non è casuale, molte ci chiedevano informazioni a cui non eravamo in grado di rispondere: dove reperire certi film, dove imparare a girare. Sarebbe necessario un servizio di coordinamento che noi non siamo in grado di dare. E’ certo però che la richiesta è molto ampia.