la famiglia al senato

luglio 1974

 

Se tutto va bene, se il governo non cade definitivamente per rimettere alle Camere il mandato per nuove elezioni (al momento di andare in macchina non possiamo ancora saperlo), la riforma che tocca le donne più che chiunque altro verrà finalmente varata. Il nuovo diritto di famiglia, in discussione presso la IIa commissione Giustizia del Senato, presidente il senatore socialista Agostino Viviani, in sede referente, potrà passare per l’approvazione alla Camera; senza intoppi, potrebbe entrare in uso entro il prossimo anno. Sarebbe ora.

Non è stato e non è un cammino agevole per un progetto di riforma sabotato da anni: nel 1971 la Camera approvava un progetto di legge che proveniva dall’unificazione di numerose proposte parlamentari di tutti i partiti, ma non arrivava al Senato (ogni legge deve essere approvata da ambedue i rami del Parlamento) per lo scioglimento anticipato delle Camere. Il progetto venne ripresentato identico alla prima convocazione della nuova Camera e nell’ottobre 72 era nuovamente votato all’unanimità con l’eccezione del Msi; subito dopo passava al senato e veniva assegnato alla IIa Commissione Giustizia per un esame preliminare.

Fino al giugno ’73 non venne mai messo all’ordine del giorno, col chiaro intento da parte della democrazia cristiana di un sabotaggio anche perché nel frattempo la senatrice Franca Falcucci aveva presentato un suo progetto con articoli molto arretrati rispetto al testo già in esame presso le Camere. Così la legge è stata ferma al Senato ben 18 mesi. Soltanto nell’atmosfera postreferendum il senatore Viviani è riuscito a mettere in moto la ruota e dare inizio all’esame dei 206 articoli con prospettive, come si è detto, positive. I punti maggiormente in discussione non sono inediti, toccano proprio il cuore del problema, quello del rinnovamento della famiglia su basi moderne e laiche, al di là del dominio clericale o di una visione ristretta troppo ancorata a motivi sociomoralieconomici sorpassati. Si tratta in effetti di cambiare più di 200 articoli del codice civile: una vera e propria riforma. Proprio per questo motivo, il progetto viene esaminato dai gruppi di partito molto attentamente e gli emendamenti presentati sono numerosi: per i primi 25 articoli almeno novanta, di cui circa la metà di parte dc. Chi tira da una parte e chi dall’altra. A chi sembra troppo avanzato e a chi troppo poco. Tutto sta nel mettersi d’accordo, e presto. Già le associazioni femminili dal Cif all’UD si erano occupate del progetto e ora anche un comitato di studio del movimento femminista sta esaminando gli articoli per tirare fuori un documento sui punti che sembrano più controversi e interessarne deputati e senatori laici, con un documento di raccomandazioni del punto di vista delle donne.

La riforma cerca di rinnovare organicamente i rapporti familiari, della parità dei coniugi, la comunione dei beni, l’abolizione della separazione per colpa, la eguaglianza per i figli adulterini. Perché non ne venga snaturata la natura, I’Udi a sua volta ha messo in giro una petizione per approvare sollecitamente il progetto di legge « rispettando tutti i principi riformatori in esso contenuti… ». Il movimento femminista in una prima visione dei 206 articoli ha espresso riserve su alcuni di essi. Uno degli articoli contestati, il n. 7, sulla visita prematrimoniale facoltativa (oggetto: le condizioni fisiopsichiche; e ognuno può capire quando sarebbe stato pericoloso) è fortunatamente caduto nella discussione in Commissione, a menoché un qualche gruppo, come si ventila, non lo voglia ripresentare al momento della discussione nella Camera, e questa volta sarebbe visita obbligatoria.

Le nullità. Diversi articoli sono dedicati al regime di scioglimento del matrimonio, allargando i casi di nullità, previsti finora dal codice civile. Il progetto di legge è stato preparato prima dell’approvazione del divorzio e la nuova formulazione degli articoli dal 16 in poi aveva una ragione e uno scopo: svuotare la legge Fortuna, rendendo inutile il divorzio e rimandando tutti i casi possibili di dissenso nel regime delle nullità copiando e ricalcando la casistica della Sacra Rota. Mentre la legge Fortuna offre da una parte la possibilità di divorziare solo su casi precisi e dall’altra una buona protezione della donna, per la parte economica l’art. 16 nella sua formulazione sembra quasi ammettere un larvato ripudio quando parla d’impugnazione per errore sulle qualità personali e soprattutto nel capoverso ultimo che lascia all’arbitrio di giudici, parenti, singolo coniuge la richiesta di scioglimento per « altri fatti di analoga rilevante gravità » quindi, la indeterminatezza più assoluta. Il movimento femminista sarebbe del parere di abolire dunque gli art. 16, 17, 19, 20. Quanto all’articolo sui diritti e doveri reciproci dei coniugi, ritiene antiquato il concetto della fedeltà: ma la discussione è soprattutto sull’altro capoverso: « entrambi i coniugi sono tenuti ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo a contribuire ai bisogni della famiglia ». Potrebbe sembrare un bel passo avanti riconoscere in un codice l’esistenza del lavoro casalingo, ribadita anche in un altro articolo (il 29: concorso negli oneri a seconda delle rispettive sostanze e alle capacità di lavoro professionale o casalingo), ma si obietta che è pesante il margine di ambiguità e di discrezionalità lasciato al magistrato che di solito è antifemminista. Sono contestati anche i doveri verso i figli laddove si dice che l’educazione « deve essere conforme a principi etici e sociali ». I princìpi di libertà, si obietta, sono personali, quindi i capoversi citati andrebbero completamente aboliti.

A questo riguardo si fa riferimento a quello splendido manualetto che è « la legge sul matrimonio della Repubblica popolare cinese » composto di appena 27 articoli, che i nostri legulei, infarciti dai resti di una tradizione giuridica romana farraginosa e ormai decadente, dovrebbero leggersi con attenzione e meditare. Di una essenzialità sconcertante, definisce così marito e moglie: « sono due compagni che vivono insieme, e godono di una eguale posizione familiare « … hanno il dovere di partecipare al lavoro produttivo, di occuparsi dei figli e di lottare insieme per il benessere familiare e per l’edificazione di una nuova società… ». Hanno altresì diritto di libera scelta dell’occupazione, eguale diritto al possesso dei beni, diritto di usare il proprio cognome originario, non devono maltrattare o abbandonare i figli e viceversa. Sembra, una formulazione così semplice, l’uovo di colombo.

Quanto al cognome della moglie, ci si chiede perché non può tenersi il proprio; secondo l’indicazione del gruppo di studio femminista, i figli dovrebbero tenere il doppio cognome (del padre e della madre) fino alla maggiore età quando sceglieranno quello di proprio gradimento. Naturalmente, numerosi articoli aiutano a « liberare la donna » e il gruppo ne è pienamente consapevole e li accetta: così il poter decidere di comune accordo, marito e moglie sulla residenza e la possibilità per la donna di avere un domicilio diverso per cause di lavoro, mentre finora un fatto del genere poteva configurarsi in abbandono del tetto coniugale e dare l’avvio eventuale a una separazione per colpa. Così la abolizione di questo tipo di separa- v ione che viene invece richiesta indipendentemente dalla volontà di un coniuge, per « giusta causa », che allinea la nostra legislazione in questo campo al livello di quelle europee più sofisticate. Il regime normale di comunione di beni tra i coniugi va anche a beneficio della donna che quasi sempre apporta nell’azienda familiare molto meno, da un punto di vista economico, dell’uomo, relegala com’è nei compiti di casalinga o in lavori extradomestici « adatti », come l’insegnamento, e anche poco remunerativi. Lascia perplessi invece l’articolo 106, uno dei tanti che riguardano il riconoscimento dei figli. Infatti non si capisce perché non possa essere fatto dai genitori che non hanno raggiunto il 18° anno, salvo che non si sposino. Significa forse che una donna (e qui finalmente anche l’uomo viene considerato a dir poco un essere non raziocinante) diventa più cosciente se, alla stessa età invece che libera, è sposata? Significa anche sotto i 18 anni, una è in grado sì di procreare, ma lo fa tanto da non potersi accollare dissennatamente, la responsabilità di un figlio e dargli il suo nome? E’ un discorso che si riallaccia anche al nuovo regime dell’età matrimoniale, salita ai 18, cioè aumentata di due anni, rispetto al precedente codice, salvo l’intervento del tribunale che per gravi motivi permette ancora il matrimonio a sedici anni. Neppure questo progetto di riforma è riuscito a unificare le età nei vari campi sociali, lasciando molte contraddizioni e questioni aperte. L’emendamento tanto attesa sull’abbassamento della maggiore età dai 21 ai 18 anni (che avrebbe annullato tanto discrepante legislative nel campo dei minori) che avrebbe dato tra l’altro il diritto al voto, presentato dal senatore socialista Licini, è stato bocciato per voto) congiunto democristiano e comunista. Il primo voto non ha destato meraviglia, ma il secondo sì; i comunisti si sono giustificati dicendo che un argomento tanto importante ha bisogno di un esame approfondito e in separata sede e si son detti disposti a esaminare eventualmente un progetto alla Camera. Intanto però l’età maggiore a 18 anni è stato votata dal Parlamento francese proprio su progetto del Pcf, che da due anni si è vivacemente battuto per farlo approvare. I diciottenni italiani sono meno maturi dei confratelli d’oltralpe?

Il senatore Viviani ha sottolineato che è ora di dare uno strumento essenziale alla regolamentazione dell’istituto familiare, ancora retto da norme prese di peso dal codice napoleonico, cioè vecchie di oltre un secolo, odorose di naftalina; ed è anche ora di fare una riforma come si deve e non soltanto continuare a metter pezze, un decreto legge qui e uno là. Per le femministe il problema è ancora a monte e la discussione va oltre: basta a rinnovare la società un progetto di legge che metta in chiaro la posizione della donna in seno alla famiglia, che cancelli dal linguaggio quella frase tanto abusata di coniuge più debole dato che non lo sarà più, che protegga i figli di tutti i tipi, che stabilisca norme severe di gestione economica e così via? O non è piuttosto l’istituto familiare che va messo in discussione alla radice, come primo germe di una società malata? E, come tale, abolito e sostituito da altre forme di rapporto o di convivenza, forse più antiche o forse avveniristiche? La questione, per il movimento femminista, è aperta. Intanto è bene esercitare riflessione e possibilità d’intervento sulla realtà per quel tanto che