la rivolta degli automi

aprile 1975

 

Con questo titolo, polemicamente fantascientifico, voglio significare un radicale rivolgimento di valori avvenuto attraverso l’acquisizione e poi la mutazione di una sorta di automatismo che si è culturalmente organizzato con la costituzione stessa delle società «umane».

Ritengo, cioè, che l’unione volontaria fra più individui si sia basata essenzialmente sulla predominazione del più forte, inteso in senso strettamente fisico agli inizi (la muscolatura e ‘la struttura ossea del maschio sono incontestabilmente assai più resistenti di quelle della femmina) e anche psicologico in seguito. L’automatismo consisterebbe nel fatto che, nonostante tutto, è ancora questa predominanza, attuata senza più un intervento cosciente dell’uomo, il perno sul quale girano — o tentano di girare — le attuali società, ignare della quasi totale perdita di senso che ha subito tale automatismo. In questo finisce col non riconoscersi ormai neppure il «maschio» che lo ha provocato, così come lo sente del tutto estraneo la «donna» che prenda coscienza di sé nei confronti di se stessa oltre che nei confronti del’ uomo» — più o meno sapiens. Intendo dire che una convivenza per poter sussistere in un ambiente duro e ostile come sappiamo essere quello cosiddetto preistorico doveva assolutamente avere come epicentro una forza che fosse sufficiente a controbilanciare e, spesso, a superare quella «esterna» al fine di garantire la sopravvivenza dell’individuo: che di sopravvivenza di individui si tratta e non della fantomatica” specie”. Era, cioè inequivocabilmente evidente che a forza bisognava opporre forza, e chi ne aveva in misura maggiore diventava per «diritto di natura» il «capo», cioè colui che si dimostrava in grado di far fronte alla necessità di conservare la vita dei- propri compagni. Questa prerogativa di «conservatore della vita», attribuita al maschio di una società primitiva per ragioni del tutto obiettive, ossia inerenti alla sua complessione fisica, si è andata gradatamente trasformando di pari passo con il mutamento dell’ambiente esterno (fattosi meno pericoloso per la sopravvivenza della comunità) e del rapporto tra esso e l’ambiente ‘«interno» creatosi nella progressiva e sempre più efficiente strutturazione delle comunità sociali. Si configura così un automatismo di tipo fisiologico che tiene in piedi queste comunità con l’istituzionalizzazione della forza fisica come condizione necessaria e sufficiente per il mantenimento della comunità stessa. Questo modello stereotipato diventa da necessità obiettiva un fatto soggettivo nel momento in cui le condizioni ambientali non giustificano più il bisogno di contrapporre forza a forza, e nel momento in cui l’urgenza di difendersi si è costruita e trasferita negli utensili nelle abitazioni nelle «norme» di comportamento: a questo punto, cioè, — salva restando la possibilità di sopravvivenza per ognuno — il «diritto naturale» del «capo» si fa «diritto sociale» e quanto prima era necessità diventa ora privilegio, che viene sempre riconosciuto al maschio come a colui che ha permesso la conservazione della vita. A mio parere nel gioco sempre mutevole del rapporto società/ambiente naturale sono da ricercarsi le ragioni delle odierne distrofie: è come se si fosse introiettato il bisogno di avere la meglio sulla natura per non venire sopraffatti; e ciò esprime una specie di desiderio di rivalsa che se aveva un senso reale fino a qualche millennio fa, oggi potremmo catalogarlo fra i nonsensi. Potrei dire che la classe dei sensi attribuibile al significato /Uomo/ ha avuto un cambiamento fondamentale per la perdita di alcuni, dei sensi e per l’inclusione di altri sensi nuovi, dove i «sensi» stanno a indicare le «situazioni» possibili in un ambito culturale determinato. Questo per dire che come continuiamo a usare la parola «uomo» attribuendole automaticamente sempre lo stesso significato, così di fronte alle circostanze sociali mutate continuiamo a comportarci senza prendere atto di un cambiamento che è già avvenuto di fatto. Il fulcro di una simile trasformazione va visto nelle successive diverse strutturazioni che hanno assunto le società in seguito a:

1) superamento del rapporto difensivo nei confronti dell’ambiente naturale;

2) riconoscimento tuttavia dato al maschio attribuendogli il potere di «capo»;

3) incremento sempre crescente del numero degli individui con parallelo ma non sufficiente incremento delle organizzazioni comunitarie;

4) la quantità finisce col fare la qualità.

Spiego quest’ultimo punto chiarificando gli altri.

Abbiamo ragionevolmente supposto che la quantità di forza fosse l’elemento determinante per l’istituzione di un «capo», ed è contemporaneamente ovvio che all’interno dì una comunità i maschi sono più d’uno, ma quando le condizioni ambientali sono ancora tanto aspre da richiedere l’egualitaria unione di tutti i maschi per la difesa dall’esterno l’attributo di «capo» va esteso al maschio in quanto tale per le sue caratteristiche fisiche. Quando, però, «mondo esterno» e «mondo interno» hanno raggiunto un equilibrio rassicurante, il privilegio del comando, ormai arrogato dal maschio come un diritto, va a quello di essi che dimostra più «intelligenza» nel senso di una maggiore abilità nell’adoperare i mezzi di sussistenza già approntati. Mezzi e relativi metodi che, se sono utili per la difesa e la conservazione dì un certo numero di individui, si rivelano insufficienti e inadeguati per un numero maggiore e sempre crescente. La cosa più logica, allora, sarebbe cambiare mezzi e metodi, e non solo attraverso una loro reinterata e sempre più espansa applicazione. Ma, evidentemente, sembra più semplice — o più comodo — eliminare la causa apparente della distrofia, ossia l’eccessivo numero degli individui che le «normali» affezioni mortali non riescono a mantenere entro limiti controllabili. Penso che si debba a questa ragione l’«invenzione» della guerra, occasione nella quale c’è, oltretutto, il modo di rinverdire il crisma del potere: la forza fisica e intellettiva. Così il privilegio diventa sopruso e i frutti di una potenza fisica si trasmutano negli attributi di una potenza «psicologica», che resta inevitabilmente appiccicata come un’etichetta alla figura del maschio, ormai demiurgo incontrastato dei destini dell’umanità, nella quale — a onor del vero — sono comprese anche le donne. L’osservazione non vuole essere soltanto faceta ma anche funzionale. Tant’è che il termine «Uomo» sta a designare sia l’individuo di sesso maschile appartenente alla specie dei Primati di un certo tipo, sia l’intero genere umano; posizione, questa, che Lo colloca a un tale livello di supremazia da venir così definito dalla voce del Dizionario., Enciclopedico Italiano: «Essere cosciente e responsabile dei suoi atti, capace di distaccarsi dal mondo organico oggettivandolo e strumentalizzandolo; come tale, comunemente considerato soggetto di atti non immediatamente riducibili alle leggi che regolano il restante mondo fisico». E così stando le cose, alla definizione di «Donna»! non possono restare che quattro parole, testualmente sempre dal Dizionario Enciclopedico Italiano:-«La femmina dell’uomo». Insomma, dati certi presupposti, la storia non poteva essere fatta che dai maschi, ma i presupposti sono cambiati, e da tempo, sicché è ora di prenderne coscienza, se si vuole decisamente contribuire a fare una Storia di tipo diverso, dove la donna non si definisce solo in funzione dell’uomo e dove il potere economico — che della primitiva potenza fisica del maschio è la metafora — non sia l’unico parametro secondo il quale calcolare l’«utile» sociale.