le donne nella Resistenza combatterono ma per chi?

aprile 1975

 

Come ogni anno la Resistenza verrà celebrata con i tradizionali rituali: si renderà omaggio ai morti; si conteranno le medaglie d’oro e quelle d’argento, si ricorderanno (questa volta, probabilmente più che nelle commemorazioni passate) anche i sacrifici delle donne. Ma tutto resterà come prima: nessuno si chiederà a quanto sono valsi quei sacrifici: quegli eroismi, quel coraggio. Nessuno soprattutto si chiederà perché dopo tanto coraggio, abnegazione, impegno, le donne che hanno combattuto siano tornate mitemente alle loro case. Non bastano pochi esempi, poche donne con cariche politiche prestigiose, per giustificare il fatto che migliaia di militanti sono ridiventate casalinghe, come se la Resistenza fosse stata una parentesi nella loro vita, un abito smesso, abbandonato in un baule. Noi femministe, invece, questo perché ce lo chiediamo e vogliamo aprire, da questo numero, un dibattito sulla Resistenza riveduta «dalla parte delle donne» per cercare di individuare perché la partecipazione coraggiosa e appassionata di tante alla Resistenza non sia sfociata, alla fine della guerra, non solo in una presa di coscienza dei propri diritti, ma nel rifiuto dell’oppressione e della discriminazione che la ruolizzazione ci impone e che anni di lotta col rischio della vita, allo stesso modo dei maschi, avrebbero dovuto se non altro intaccare. Dal prossimo numero pubblicheremo testimonianze di donne che hanno fatto la Resistenza e analisi su questo problema. Invitiamo le lettrici, le compagne che hanno combattuto allora, a inviarci materiale.

 

Chiunque intraprenda una ricerca sulla partecipazione delle donne alla Resistenza troverà subito enormi difficoltà nel reperire materiale o informazioni che facciano menzione specificamente delle donne. Eppure le donne nella Resistenza c’erano, e come.

Se si pensa che ogni uomo che operava a pieno tempo in montagna o soprattutto in città, stando a ciò che mi hanno ripetuto di recente parecchi comandanti partigiani, disponeva magari di due o tre donne che lo aiutavano nell’ombra, sembra incredibile che di queste centinaia di migliaia di donne siano rimaste così poche tracce. La ricerca delle cause di questo fenomeno ci porta immediatamente a superare qualunque tentazione di sterili recriminazioni e qualunque desiderio di rimediarvi con una generica e compensatoria agiografia.

Le donne lavoravano nell’ombra, abbiamo detto; e questo non solo per i motivi di sicurezza imposti dalla clandestinità — e che erano i medesimi per gli uomini — ma anche perché le loro mansioni erano soprattutto ausiliarie. La maggior parte di esse si occupava infatti della informazione, cioè di raccolta e diffusione di notizie e di materiale di propaganda, della sussistenza, cioè di raccolta e distribuzione di viveri, vestiario e denaro, dell’assistenza, cioè di trasmissione di ordini e messaggi, della preparazione di documenti falsi, della individuazione e pedinamento delle spie e via discorrendo.

A tutte queste cose, che non posso purtroppo descrivere in dettaglio, con tutte le enormi difficoltà, il tempo, la fatica e i rischi che comportavano e che sono facilmente immaginabili, provvedevano quasi esclusivamente le donne; sia perché, essendo esenti da obblighi militari, avevano molta maggiore facilità di circolazione, sia perché questo pareva naturale. Poteva in qualche modo rientrare nel ruolo della donna e dell’immagine che ci si era sempre fatti di lei: quella che nutre, che veste, che assiste, che cura e che sostiene; se necessario con coraggio e comunque con abnegazione.

Pareva del tutto naturale, come poi è parso del tutto naturale alle donne che in quei luoghi venti mesi avevano fatto ben altra vita, tornarsene dopo la liberazione nelle loro case a svolgere le solite mansioni più o meno subalterne o rimettersi a far figli e ad allevarli, loro compito primario e, almeno questo, di più nobile impegno. Così è parso naturale che di loro non si sia più o meno parlato mai più. Le donne sembravano paghe di sentirsi dire grazie di cuore e arrivederci alla prossima occasione. La gratificazione sul piano sentimentale rientrava, allora come in larga misura anche oggi, nell’usuale schema che regge e perpetua la società patriarcale. La guerra e la politica non sono mansioni femminili. Alle donne si chiede magari, in circostanze eccezionali, di offrirsi al piombo nemico sventolando una bandiera. Servono a dare la misura di una disperazione. Se sono giovani e belle è meglio ancora poiché servono di sprone al maschio e possono venire utilizzate come soggetto di quadri e commoventi oleografie. Ma il loro intervento diretto ha una funzione solo in quanto è eccezionale. Una volta seppellita l’eroina vittima, le compagne tutt’al più vanno a portar fiori alla sua tomba con i bambini per mano. Per parlare della partecipazione delle donne alla Resistenza non parleremo qui di quelle donne che già avevano militato nelle file dell’antifascismo, anche se ci sono grandi nomi e figure affascinanti come quelle di Teresa Noce, di Camilla Ravera, di Adele Bei, di Joyce Lussu, che del resto erano una minoranza, ma parleremo piuttosto della gran massa delle donne che presero posizione e che rischiarono, o persero, la vita dopo l’otto settembre. Perché proprio il carattere collettivo e quasi anonimo della partecipazione femminile alla Resistenza è, come molti hanno osservato — e fra questi proprio la Gobetti — la sua principale caratteristica.

Ed è appunto nelle tragiche giornate che seguirono l’otto settembre, quando regnava il caos e i militari sbandati percorrevano l’Italia senza saper che fare, .a chi dar retta, come salvarsi dalla cattura e dalla deportazione, che le donne per la prima volta si mossero numerose e assunsero un ruolo di cui finora si è sottovalutata l’importanza. Tutti gli autori che hanno narrato quelle giornate e ne hanno descritto la cupa angoscia, il totale smarrimento, parlano delle donne: di quelle donne che nascondevano, nutrivano e rivestivano con panni borghesi i ragazzi che scappavano dicendo senza crederci «la guerra è finita» e che volevano semplicemente «tornare a casa»; le donne nelle stazioni davanti ai carri piombati, le donne sotto le carceri, fuori dalle caserme, che incitavano gli uomini a scappare, a nascondersi.

Questi gruppetti di donne, anonime e unanimi come nella tragedia greca, tutti le ricordano; ma nessuno si è chiesto seriamente perché abbiano agito così e che cosa sarebbe accaduto se non lo avessero fatto.

L’affermazione che segue potrà parere esagerata, ma io sono convinta che se le donne non avessero, a rischio della vita — e lo sapevano — nascosto gli uomini, la Resistenza non sarebbe stata quella che è stata, perché le prime formazioni di montagna, per fare solo un esempio, furono costituite proprio da quegli sbandati che esse avevano incitato e aiutato nella fuga. Naturalmente l’organizzazione della lotta fu poi gestita dai partiti antifascisti che già avevano operato nella clandestinità e che nei quarantacinque giorni del governo Badoglio avevano avuto la possibilità di iniziare una ripresa, ma la massa ancora amorfa dei giovani era stata salvata dalle donne.

A questo punto vien fatto di chiedersi come mai tante donne del tutto spoliticizzate, non solo operaie, ma anche contadine delle più sperdute campagne — anzi per motivi geografici e logistici soprattutto queste — abbiano a un tratto preso posizione.

Certamente non solo perché erano «buone» e compassionevoli, desiderose di aiutare quei poveri «figli di mamma», magari nella speranza che altre avrebbero fatto lo stesso per i loro uomini, ma anche perché volevano finalmente un po’ di pace, perché reagivano all’orrore della guerra, alla miseria portata dalla guerra; certamente perché non ne potevano più e, guidate da un intuito più sicuro e da un istinto più profondo di quello maschile, sentivano che occorreva far guerra alla guerra, far guerra al fascismo che la guerra aveva portato e la miseria voluto. Sentivano che occorreva cominciare ad agire in prima persona, a disobbedire.

Forse qualcosa reagiva anche inconsciamente al disprezzo fascista per la donna, relegata nel ruolo di massaia e di fattrice (il fascismo non la considerava neppur più educatrice) e svilita a funzione di oggetto da godere. Un gran numero di queste donne, che avevano fatto la loro scelta l’otto settembre, entrarono a far parte del movimento clandestino, spinte a quella vita di rischi e fatiche spesso al limite del sopportabile, oltre che dai generici motivi d’insofferenza e di ribellione di cui abbiamo parlato, dai più diversi motivi.

Nella grande maggioranza dei casi c’era dietro un uomo: marito o fidanzato, come si diceva allora, padre o fratello, compagno di scuola o professore, amico o cugino, che costituiva per loro la principale motivazione e per loro compiva la scelta politica di uno o dell’altro gruppo clandestino. Non era sempre così, certo, e del resto anche quelle che avevano imboccato la strada per amore di un uomo, se pure l’uomo veniva a mancare, quella strada la percorrevano poi in proprio e fino in fondo.

C’era anche un buon numero di ragazze che ci arrivavano da sole per disgusto di quel che vedevano o per speranza nell’avvenire; ragazze assetate di libertà e di giustizia oppure in cerca di una più grande umana avventura. C’erano le inquiete e le curiose; c’erano, più o meno consapevoli, soprattutto le ribelli; quelle che approfittavano dell’occasione per uscire dal chiuso della famiglia e anche dal ruolo di donna come veniva configurato allora. Quelle che volevano, per una volta, vivere da uomini.

Nei miei recenti incontri con le ex-partigiane, alla domanda: ma tu perché c’eri andata?, ho ricevuto risposte così diverse e articolate che questo argomento del «perché l’ha fatto» mi è parso ancor più interessante del racconto di ciò che hanno poi fatto. E che in realtà è enorme e meraviglioso.. Ci furono donne nelle formazioni di montagna, o nei GAP e nei SAP, che combatterono, armi e plastico alla mano, insieme agli uomini e come gli uomini. Ci furono anche distaccamenti militari tutti femminili, come quello che operava in Piemonte con la formazione- «Eugenio Giambone», o come quello che a Genova portava il nome della fucilata Alice Nali, oppure quello delle operaie tessili nel Biellese. Ci furono donne paracadutiste, come la Del Din, medaglia d’oro, che dopo aver fatto un corso per paracadutisti nell’Italia già liberata, prese parte a undici voli di guerra. Le donne riconosciute partigiane combattenti furono circa 35.000, di cui 512 con il grado di commissario politico.

Questi sono dati da prendere con riserva, ma hanno almeno valore indicativo e bisogna osservare, a questo proposito che, se il numero dei combattenti per la libertà inquadrati nelle formazioni, che ammonta a circa 200.000, fu, certamente gonfiato alla liberazione, quando tutti volevano un «brevetto di partigiano», per quanto riguarda le donne è certamente successo il contrario. Una gran parte di esse non si è curata di avere il riconoscimento ufficiale. Questi dati comunque significano che per lo meno un combattente su sei era una donna. Se poi prendiamo in considerazione anche i circa 50.000 civili che operarono in appoggio ai compagni, la proporzione sale ancora perché probabilmente questi erano più donne che uomini. Sempre in base ai dati ufficiali le donne arrestate e condannate furono 4.564, le deportate in Germania per motivi politici 2.750, le fucilate o cadute in combattimento più di 2.000; 17 di esse, di cui solo quattro viventi, furono decorate di medaglia d’oro, 20 o più di medaglia d’argento. Le donne furono sottoposte a tortura ancor più frequentemente degli uomini non solo perché il sadismo dei carnefici trovava in questo, a livello psicotico, maggior soddisfazione, ma anche perché, proprio per le mansioni di collegamento che svolgevano, erano considerate la più preziosa possibile fonte d’informazione.

Né dobbiamo dimenticare le grandi azioni di massa, a partecipazione largamente femminile e spesso esclusivamente femminile, come gli scioperi delle mondine in Emilia (famoso quello della Molinella) o le manifestazioni delle donne di Carrara, che durarono addirittura tre giorni, paralizzando la città. Queste donne protestavano contro la guerra, chiedevano pane, parità di salario, maggiori razioni per i bambini, alloggi per i sinistrati.

Tali azioni collettive furono spesso organizzate dai Gruppi di Difesa, fondati a Milano all’inizio del novembre ’43 da Rina Picolato, Giovanna Barcellona e Lina Fibbi, comuniste, assieme ad Ada Gobetti del Partito d’Azione e a Lina Merlin, socialista.

Si chiamavano «Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà» e si dichiaravano «aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica che volessero partecipare all’opera di difesa della Patria e lottare per la propria emancipazione». Ad essi si unirono in un secondo tempo anche rappresentanti della Democrazia Cristiana.

Contarono fino a 70.000 aderenti e furono molto attivi a Roma e nelle città del nord (Milano, Torino, Genova, Bologna, Bergamo, Padova, Modena, Ferrara, Forlì) dove organizzarono manifestazioni e servizi d’ogni genere: comitati d’agitazione nelle fabbriche, azioni di sabotaggio e di disobbedienza civile, evasioni di prigionieri dalle carceri e dai campi di concentramento, aiuti agli ebrei, alle famiglie dei deportati e dei caduti, assistenza ai convogli in partenza per la Germania.

La loro azione ebbe peso determinante in più d’una circostanza e l’opera di propaganda capillare, esercitata anche attraverso la diffusione di stampa clandestina, influenzò larghi strati della popolazione, soprattutto femminile. Ebbero un loro giornale, «La difesa della lavoratrice» ed ebbero le loro vittime. Nel giugno ’44 furono riconosciuti dal Comitato di Liberazione dell’Alta Italia.

Anche la storia dei Gruppi potrebbe costituire un volume a sé.

Ci rimane da chiederci, per terminare, che cosa sia accaduto delle combattenti per la libertà a guerra finita. Alcune di esse parteciparono alla vita politica, ma rappresentano ancora una volta l’eccezione. Le altre tornarono a casa. Si erano guadagnate un diritto al voto che in altri paesi non era certo costato così caro e che, per altro, nel Lombardo Veneto di Maria Teresa le donne avevano già avuto. Certamente un passo lo avevano compiuto e non erano più quelle di prima, ma la maggior parte di esse fu risucchiata da quella grande piovra che è la famiglia, dove ripresero il loro posto, chinando il capo alla necessità e all’autorità. Alla secolare autorità degli uomini. E dei preti. In realtà, in mezzo a tanti problemi, il problema della donna neppure le donne se lo erano posto. Malgrado l’accenno all’emancipazione formulato dai ‘Gruppi di Difesa fin dall’inizio, di simili cose s’era parlato ben poco. Persino gli appelli rivolti dalle donne alle donne erano stati – quasi esclusivamente di tono «assistenziale»: «Donne, state a fianco dei vostri compagni in lotta!» «Donne, non trattenete il marito o il figlio che combattono per darvi un avvenire migliore!»

Ad un sommario esame della stampa clandestina sembra che solamente i pochi giornali femminili, e fra essi soltanto quelli della sinistra, affermassero talvolta la necessità di una presa di coscienza politica della donna. I più” avanzati in questo senso erano quelli di Giustizia e Libertà; il n° 1 anno I di «La nuova realtà», organo del movimento femminile di G.L., probabilmente dovuto in grandissima parte ad Ada Gobetti, è veramente esemplare e potrebbe ancor oggi costituire un validissimo «manifesto femminile». Un’altra lodevole eccezione è costituita da un articolo comparso sul primo numero del-l’«Avanti!» diffuso nella Repubblica dell’Ossola liberata. Data la brevità del testo e dato l’interesse che può avere per le compagne, lo riporto per intero: «Non si può pensare a una società concepita socialistica-mente lasciando insoluto il problema della donna. Se una rivoluzione nel campo economico avrà come risultato una trasformazione etico-sociale, è ovvio che questa trasformazione si farà sensibile anche nel campo femminile.