TESTIMONIANZE

perché faccio aborti

luglio 1975

 

Abbiamo chiesto ad una compagna femminista che pratica aborti in un gruppo di self-help cosa significa per lei operare in una struttura alternativa e le abbiamo espresso le nostre paure sul fatto di farsi fare un aborto da una non tecnica, anche se compagna. Le donne, dicevamo, si sono fatte maciullare sui tavoli da cucina per secoli. Che cosa c’è di diverso oggi ad abortire con una compagna? Il discorso politico, la presa di coscienza non basta a togliere la paura dei possibili imprevisti, la paura di vivere nuovamente una esperienza traumatizzante e drammatica.

«Anch’io queste resistenze le ho avute, fino a due mesi fa. Ero abituata ad assistere agli interventi fatti da medici più o meno in camice bianco, medici del Cisa, ma comunque con tutto un apparato. All’inizio, proprio perché non avevo mai visto fare aborti ma ne avevo solo letto, avevo resistenze e paure di tipo tecnico. La paura di ritrovarmi nella condizione della mammana, cioè dell’inesperta che usa le donne più o meno come cavie. Poi sono stata un mese con le compagne del MLAC a Marsiglia e ho capito tutta una serie di cose, specie dal punto di vista strettamente tecnico. Mi sono resa conto che tutte le donne non tecnico che praticano gli aborti dopo averli a loro volta subiti hanno un tale rispetto della donna che stanno operando che al limite verificano meglio di un medico se per esempio l’intervento è finito oppure no. E questo lo noto su me stessa, allorché mi riconosco nella donna che sta abortendo, rivedendomi in lei. Questo discorso viene fuori con le compagne del Cisa quando ci incontriamo alla sera e ci chiediamo: come hai vissuto questo giorno. Il fatto di rivivere momenti e condizioni da noi stesse affrontate ci spinge ad avere precauzioni che i medici non si sognano di avere. Per esempio a livello di sterilizzazione degli strumenti, noi siamo molto più scrupolose dei cosiddetti tecnici. L’unico pericolo è che anche per noi questo diventi un lavoro di routine come lo è per loro. Quando tu fai aborti da tre mesi, sei al giorno, è come andare in ufficio dalle nove alle tre, si danno per scontate tutta una serie di cose, si dimenticano precauzioni ed attenzioni per la donna su cui si opera. Ci sono dei pomeriggi in cui avverto questa mia mancanza di partecipazione verso le donne su cui opero. Per questo l’aborto secondo me va fatto veramente come militanza, prendendosi le pause quando ci si rende conto che sta diventando una routine, che si perde quella dolcezza, verso la donna, dolcezza non perché la coccoli, ma dolcezza nell’intervento. Per me è quindi importantissimo che l’aborto diventi una pratica di militanza estesa, affinché ci si possa dare i turni. Mi è capitata poco tempo fa una cosa molto bella. Stavo attraversando un momento di stanchezza, ma avevo tre interventi da fare. Non me la sentivo, mi era caduta quella tensione emotiva e di partecipazione. Allora ne ho parlato con loro. Ho detto: mi sento come una che sta timbrando, sono estremamente stanca, vi farei l’aborto solo perché siete qui. Capisco anche la vostra ansia, il fatto che abbiate questa necessità di liberarvi finalmente. Aiutatemi, discutiamone insieme. Così si è deciso di andare a mangiare insieme e abbiamo parlato. Ho esposto tutti i miei’ problemi. Ho raccontato che faccio cinque aborti al giorno e non ne posso più. Ho detto: mi sembra di considerarvi degli esemplari e di farvi l’aborto solo perché ne avete bisogno e questo non è il discorso. Perché io non sono l’abortista brava che arriva, fa l’aborto e se ne va. Ma sono una che facendo gli aborti ha una serie enorme di problemi anche suoi. Il mio è un discorso politico, di militanza femminista, non lo posso ridurre ad un semplice intervento e arrivederci. C’eravamo viste alle nove, ma l’intervento ha avuto luogo alle cinque. Dopo aver parlato era rinata la partecipazione, c’era di nuovo un senso politico. Di fatto sono le tre donne che sono rimaste maggiormente coinvolte, con le quali è proseguito l’impegno politico, insieme.