perché “le streghe”

cronaca del viaggio in Sicilia del Gruppo Romano di Teatro Femminista «Le Streghe»

novembre 1976

delle streghe si è parlato parecchio in questi ultimi tempi. Sappiamo che, nell’arco di alcuni secoli, ne furono mandate al rogo qualcosa come otto milioni. Con loro si voleva spegnere quel tessuto contadino ricco di superstite paganesimo, che aveva la sua medicina e i suoi riti campestri, così poco controllabili dal potere cittadino e clericale. La repressione della chiesa, come sempre, colpì le donne con particolare insistenza, riversando su di esse teorie e torture indiscutibilmente sessuofobiche. Perché dunque le streghe? Tre anni fa è stata la volta della denuncia: «Storia di una cosa», spettacolo semiserio sui ruoli della donna. Ci univa la voglia di riconoscerci, non meno che quella di giocare un gioco nuovo.

È difficile lavorare insieme quando ci si conosce .poco: sono nati odii ed amori, l’aria era spesso carica di tensioni. No, così non va, bisogna fare piccolo gruppo.

Ed eccoci lì a fare le ore piccole, a volte discutendoci, ma a volte avendo solo voglia di mangiare la pizza, andare a spasso e divertirci insieme. È stata una scoperta.

Pian piano abbiamo ritagliato nel tempo e negli affetti uno spazio tutto nostro, di gioia, di complicità; uno spazio stregonesco.

Abbiamo letto e discusso. Ci siamo convinte che la stessa complicità aveva unito le streghe, in un mondo che, allora come adesso, non dà spazio alla allegria. È questa la ragione de «Le Streghe», del Gruppo Romano di Teatro Femminista.

Lo spettacolo è semplice. Racconta i dialoghi delle donne al fiume, fatti di fiato e non di comunicazione. Racconta l’ansia di libertà e l’inquietudine che pian piano spinge le donne fuori dal villaggio, a notturni incontri nel bosco, dove chi non è strega lo diventa ben presto, imparando a curarsi e insieme ad amarsi. Coi processi la ricostruzione fantastica cede il posto alla storia. Ai grotteschi magistrati le donne oppongono a volte ingenuità e paura, a volte invece una coscienza incrollabile: «Voi non avete più potere su di me, perché io sono quella che sono». Scene, costumi, dialoghi, improvvisazioni, regia, musica, grane e contentezza sono lavoro di gruppo.

Compagne che leggete e che avete rabbia e voglia di vivere eravate con noi e non lo sapevate! In ogni nostra parola ai bambini e alle donne, in ogni esplosione di gioia e di meraviglia, nella prontezza dell’organizzazione, nei nostri corpi liberi e vivi c’era la forza della dimensione donna! — Io sono quella che sono — diceva Gemma e abbiamo cantato ins Sicilia, nelle piazze di Palermo, Terrasini, Ci-nisi, Castellammare, Partinico, piccoli paesi patriarcali, abbiamo cantato dell’omosessualità, delle fughe dalle famiglie per amore di noi stesse, dei nostri

corpi fonte di vita e di piacere, della nostra oppressione, della nostra ribellione.

Arrampicate sul pulmino, a stendere fili, a scaricare e ricaricare, ognuna responsabile e quindi libera, ognuna attenta all’altra e quindi libera, ognuna felice e quindi libera. Nessuno ha organizzato il nostro viaggio, qualche telefonata, il nostro desiderio di fare, di esprimerci, e il desiderio delle compagne siciliane di aggiungere un tassello alla loro attività, alla loro presenza, al desiderio di essere soggetti attivi ha aperto uno sprazzo di alternativa: partecipazione negli interessi, nei desideri, nella gioia. Ma ci pensate? Nessuna di noi attrice, ognuna di noi soffocata dall’alienazione di una realtà che non ci appartiene, che non ci dà spazio, che rifiutiamo, con il disagio profondo che ne deriva, op-là, abbiamo fatto il salto. Bambine di nuovo, sì, ma non più indifese, con una profonda coscienza conoscenza e riconoscimento della diversità degli «altri», e di conseguenza con una profonda coscienza di «noi» che finalmente ha potuto venire fuori, trovare uno spazio e perfino socializzarsi! Sono stati solo dieci giorni, il futuro è incerto, il malessere riaffiora, ma adesso sappiamo che è possibile fare qualcosa! Avevamo .sempre recitato al chiuso, relativamente sicuro dei teatrini romani, mica tanti, due-tre, la parola d’ordine era: l’importante è esprimersi e stare bene tra noi, il pubblico reagisca come vuole. Poi la faccenda ha cominciato a starci un po’ stretta. A Partinico la prima esperienza di piazza, a momenti affogavamo in un mare di gente, nella villa comunale, noi che avevamo rifiutato uno spazio rialzato e avevamo scelto di stare tra la gente: forse millecinquecento-duemila persone lungo due ali di cento-duecento metri e noi a correre su e giù ripetendo le battute, il latinorum dei processi anche se parodiato e grottesco assolutamente impraticabile e giù a cambiare, ad urlare in faccia alla gente.

Nel vento della sera il calderone si è infiammato: due torce a vento, quattro candele, dell’erba secca per le pozioni, una fiamma alta e larga, noi e la gente affascinati dal fuoco, il sudore ci grondava giù: lo sapevate che il sudore può non dare fastidio, essere parte di noi, può fare piacere, come una liberazione? Uno dei segni dolorosi del ritorno alla «realtà» è stato l’uso del deodorante, falso, osceno; alienazione come il trucco che non ci appartiene, quello usato solo per piacere agli altri.

A Palermo, in piazza Marina, eravamo tutti su un rialzo, noi e il pubblico. A Laura avevano scippato la borsa due ore prima: duecentomila lire di perdita complessiva. Tra noi c’era una tensione che rasentava l’isteria. Credo che alcune di noi vivessero il fatto come una punizione alla ribellione alla provocazione all’eversione, poi finalmente la stessa Laura ha rotto l’incantesimo è scattata aggredendo la gente con il lungo bastone e i nastri multicolori protesi a dire — guai a voi! e abbiamo cominciato a fluire, cariche come molle compresse. Quelli della casa dello studente che non avevano voluto accettare le cinquecento lire del biglietto di ingresso a provocare dalle finestre, io all’improvviso, con le mani sui fianchi — Scendi giù, qui c’è spazio per tutti, noi stiamo lavorando, tu che fai lassù, stronzo! — e la gente — stronzo! — e lui zitto. Io donna ribelle, quasi strega ormai, ossessionata dai mostri che mi impedivano di rialzarmi dopo le percosse, i nostri mostri: cartelli impugnati dalle compagne:.la mamma di Wilma, vecchietta bianca con grosse lacrime azzurre, quella che appare in

sogno — perché te ne sei andata, mi hai lasciata sola! — la mummia bianca, il niente che ha portato me sulla soglia della follia, culmine della deprivazione. A me da bambina dava fastidio la sabbia adesso non più: trovare la capacità di rotolarmi sull’asfalto della strada è stata una scoperta molto simile. Abitavamo a villa Fassini, ospiti, ma non è un termine giusto, perché ci sentivamo a casa nostra. Nella grande casa non c’era acqua e ci davamo grandi secchiate d’acqua dal pozzo — acqua fredda, brividi risate —. Prendevamo il sole nude sulle grandi terrazze da dove si vedevano solo giardini di palme, mare, montagne, mangiavamo insalate e latte appena munto, e il giorno passava a ridere, a cantare, a «chiacchierare». Proprio streghe, unite e isolate dal resto del mondo. Poi la sera si partiva sul pulmino verde con sopra uno scatolone enorme e un po’ scassato, con nastri colorati che scappavano fuori e sventolavano. E si andava a dire che la gioia esiste, che vivere è bello se distruggiamo in noi la paura della paura ed i suoi monumenti, che sognare e vivere è possibile.

A Terrasim c’era un uomo con noi, un grosso bambino calvo profondamente malato — quel profondo senso di solitudine incolmabile, quante di noi lo hanno provato, incapacità nostra o degli altri? dipendenza-solitudine, alternativa insuperabile. Lui, famoso popolare e riconoscibile nascosto per sua scelta e sua preoccupazione dietro un lenzuolo, lui che trova la sua unica autentica dimensione aggrappato ad urlare e/o piangere e/o lenire il suo dolore aggrappato ad una chitarra. È stato bene con noi, solo per due giorni: ha accompagnato Christine nella ninnananna della malcontenta, ha cenato con noi dopo lo spettacolo: perché sentiva che ci volevamo bene, mi ha detto, perché sentiva insieme solidarietà gioia e vitalità. Chissà se è riuscito a strapparci il segreto? Vorrei che non stesse più tanto male, perché odio il dolore, sempre, ovunque, lo odiooooo. A Castellammare c’era un vento secco, forte, dopo tre ore di esposizione prima dello spettacolo io mi sentivo — avete presente quei gusci di lumaca vuoti secchi e quindi fragilissimi che si vedono in campagna? — ecco, così.

Poi lo spettacolo, qualche maschio stronzo che disturbava, noi ci guardavamo con muta reciproca interrogazione, perché c’era qualcosa. Io ho chiestoa Christine — che succede? — Ci sentivamo uno strano silenzio dentro e fuori ,eppure oggettivamente tutto era normale. Chissà, Castellammare è un paese spinto dalle montagne alte e incombenti verso un mare enorme a centottanta gradi, il vento si incanala nelle gole il mare si increspa e in mezzo il paese e noi. — Qualche «presenza» — ha detto Christine, chissà.Una ragazza a Terrasini ci ha chiesto quando saremmo risalite — domenica — ho risposto. E lei — vorrei venire con voi. In pulmino non c’è posto, ma una di noi potrebbe fare il viaggio con te in treno — e lei — si tratterebbe di scappare, capito? — Io ho rivisto i nostri mostri, la mamma, il niente: i mostri vanno combattuti, guai a fuggirli. Abbiamo parlato un po’ della sua situazione. L’ho rivista a Cinisi, le ho sorriso un po’ stregonescamente, le ho chiesto se voleva i nostri indirizzi, li ha segnati, chissà. Una bambina a Terrasini mi ha chiesto in dialetto perché non portassi il reggiseno, a dire il vero sembrava un pò scandalizzata, avrà avuto cinque, sei anni. Io le ho chiesto a cosa servisse il reggiseno, lei ha capito a spiegarmi che cosa fosse, e io a ripeterle la domanda. Arrivate finalmente alla conclusione che l’odioso strumento serve a stringere le «zizinne» — e lei a mimare la compressione con annessa contrazione delle mascelle — e che le mie erano piccole e quindi esenti, e che comunque le zizinne hanno diritto alla loro ed alla nostra libertà, — avete ragione —, m’ha detto, convinta finalmente.

A Terrasini, mentre rispondevo a Christine — donna amore che l’amore che aveva creduto di ricevere non era amore perché il vero amore non chiede rinunce e sacrifici e che l’amore vero è ancora tutto da scoprire, all’improvviso mi sono girata, di scatto, verso tre-quat-tro donne che assistevano e ho detto — «Vero, signò, che l’amore è difficile da trovare?», e loro a fare di sì con la testa, due tre volte. A Palermo siamo andate in questura per l’autorizzazione senza rinunciare a niente di noi: né Gemma alla sua sensualità, né Laura alla sua eterna (o quasi) espressione di stupore, né Wilma al suo piglio battagliero ed efficiente, né Christine alla sua grazia maliziosa ed intelligente, né io alla mia aria di arcangelo che avevo scoperto nuova di zecca mettendomi una lunga camicia-da-notte-della-nonna di Gemma e alla quale non avrei rinunciato per niente al mondo.

A Cinisi è stato l’ultimo spettacolo siciliano, è andato tutto bene: avevamo perfino le luci! Abbiamo distribuito qualche tamburello alle ragazze che erano venute a vederci: «Per favore, suonate durante il sabba, il nostro registratore non funziona». Era vero, ma per l’occasione scoprivamo la gioia di far partecipare la gente, le compagne, un desiderio che abbiamo sempre ma che non vogliamo teorizzare né imporre. C’è stata qualche perplessità iniziale, un po’ di timidezza, ma al sabba abbiamo avuto molta musica, proprio una sarabanda.

Luciana, alla sua prima esperienza: che dici, Gemma, lo dico che lui mi penetra ma io non voglio più, non mi piace, si potrà dire?». «Perché no, se lo vuoi dire, dillo» e l’ha detto, e nessuno ha fiatato, in quel paese a 40 km da Palermo, dove, oltre a un gruppo di compagne in gamba, esiste un gruppo di ragazzi che fanno autocoscienza. Erano infatti stranamente non aggressivi nei nostri confronti, a differenza degli altri compagnucci che ci avevano prese per ricche nababbe un po’ matte in gita di piacere per la Sicilia. E invece di soldi ne avevamo pochini; lo scippo di Laura e il pulmino fuso al ritorno ci hanno dato un bel colpo. «Gli dei patriarcali all’attacco» dice Gemma, ma noi nonostante tutto avevamo sempre una grande gioia dentro e mangiavamo e ridevamo.

Alla gente lo spettacolo è piaciuto: alla fine qualcuno è venuto a salutarci, si sono formati capannelli di discussione, ed è stato questo soprattutto che ci ha dato più soddisfazione. «Ma comu, già finiu?» è stata la critica più bella che ci è stata fatta da una donna anziana. Abbiamo sentito una donna ripetere più volte di seguito: «Millenni di cultura basati su una ridicola appendice», in dialetto che qui non sappiamo riprodurre.

E le compagne siciliane, belle, belle, belle, brave, con un’energia, un entusiasmo, una voglia di fare incredibili. A Castellammare sono riuscite a procurarsi una quantità incredibile di sedie di legno pieghevoli per gli spettatori, e avevano stampato perfino i biglietti con tanto di scritta «Le Streghe» in caratteri gotici! A Palermo Antonia e Peppina: ci hanno ospitato, ci hanno seguito per tutto il nostro soggiorno in Sicilia, hanno organizzato il volantinaggio per la propaganda allo spettacolo, e noi dietro a loro, alla SIAE, in questura.

Con i soldi degli incassi abbiamo potuto pagarci le spese di viaggio ed anche le compagne siciliane hanno potuto trattenere qualcosa per recuperare, almeno in parte, le spese sostenute. Un’esperienza che vogliamo assolutamente ripetere. Non è difficile: sono necessarie le autorizzazioni della questura e delle autorità comunali (se lo spettacolo si fa in piazza) e il pagamento soltanto della tassa generale della SIAE: infatti il copione e gli [effetti musicali sono nostri. Noi tutte lavoriamo e quindi siamo libere per i fine-settimana. Per le città più lontane bisognerebbe sfruttare qualche «ponte», Abbiamo bisogno soltanto di alloggio e del rimborso delle spese di viaggio.

Questo è solo un resoconto-lampo: ne avremmo di cose da raccontare! E forse lo faremo un’altra volta. Per informazioni o qualsiasi altra forma di presa di contatto, ecco i numeri di telefono di alcune di noi: Anna: 3586060 (la mattina presto -Wilma: 4740396 – Gemma: 655827. Vi regaliamo una canzone che ci è venuta fuori durante il viaggio, sul pulmino, sull’aria di «Ama chi ti ama»:

Ama chi ti ama

non amare chi ti vuole male

specialmente il capitale

ed i maschi che sfruttano te

Te lo dice una donna

che ha lasciato il proprio marito

l’ha lasciato e vive sola

e ha trovato la propria realtà.

Ama chi ti ama,..

Te lo dice una figlia

che ha lasciato la propria famiglia

l’ha lasciata per amore

per amore soltanto di sé

Ama chi ti ama…

Te lo dice una vecchia

che ha finito di stare coi figli

se n’è andata per il mondo

e ha scoperto che vecchia non è.

Ama chi ti ama…

Te lo dice una puttana

che vende il suo corpo la sera

c’è una parte di ogni donna

che il maschio comprare non può

Ama chi ti ama…

Te lo dice una compagna

che s’è rotta de sta’ al ciclostile

tra panini e volantini

ora lotto ora lotto per me

Ama chi ti ama…

Te lo dice una donna

che ha scoperto di amare una donna

è finita la vergogna

com’è dolce l’amore così

Ama chi ti ama…