quella corda doppia che si chiama coppia

novembre 1976

ci scontriamo sempre, nel pubblico come nel privato, con questo fantasma, esorcizzato sempre, criticato, superato ancora mai, che è la coppia eterosessuale. La coscienza della sua crisi storica analizzata e sviscerata fin troppo; spesso nel privato non ci aiuta, e come donne sappiamo che è nel privato che passano quelle contraddizioni che ci danno, sì, la rabbia per agire nel politico, ma spesso ci chiudono a livelli di angoscia e disperazione dai quali a fatica riusciamo a tirarci fuori.

Andiamo esplorando nel nostro piccolo gruppo — tutte in crisi, lacerate, irrisolti i consueti problemi — le nostre difficoltà di coppia, la nostra voglia-angoscia di trovare soluzioni nuove, più nostre, perlomeno vivibili. Ognuna di noi ha i propri modi di essere in crisi, le proprie soluzioni-per-soffrire-di-meno, i propri compromessi per sopravvivere al rapporto, che oggi è per definizione, ripieno delle consuete contraddizioni, affettive, storiche, economiche, di tempo e spazio reciproco, di reciproca autonomia. L’altra sera abbiamo provato a fare una specie di tentativo di sintesi sui livelli cui ognuna di noi era arrivata; ne è uscita una discussione lunga lunga, piena di dubbi e incertezze, che cerchiamo di riportare qui.

Innanzitutto l’omogeneità sostanziale di tutte nel non riuscire più a chiudersi in una soluzione «unica adesso per sempre», limitata, che ci impedisce di conoscere situazioni e cose nuove, che ci fa dimenticare l’importanza di aver scoperto (almeno ideologicamente) la castrazione che deriva o può derivare da un vincolo esclusivo, che da un certo punto in poi rischia di autoperpetuarsi per paura.

Così siamo passate a guardare tutte insieme la soluzione opposta, l’apertura ai rapporti per i rapporti, la totale liberazione del corpo e della mente, e questo per molte di noi, che hanno fatto il ’68 è stata una strada già percorsa, una via già teorizzata, una soluzione che ha già ferito tempo fa molte di noi, una prospettiva che non riusciamo a vivere da quindicenni (ne abbiamo in media 25 di anni). La nostra età vuol dire tutte le contraddizioni culturali del 68, fino al femminismo, schiacciate su abitudini ed educazione, tutte pre-sessantotto, su modi di incertezza e di possesso, terribilmente laceranti. Fare i conti con la gelosia e l’abbandono, quindi vivere la discrepanza tra la libertà che si vorrebbe avere e la libertà che si è disposte a concedere (i maschi, più lucidi, più abili nel gestire un potere affettivo nel quale noi ci giochiamo tutto, per costume, e che ci vede quindi immensamente più vulnerabili).

Fare i conti con una autonomia sessuale, quando esiste, così difficile, gestita così male, sempre subordinata alla storica autonomia maschile, automatica, per niente faticosa. Così insieme, ci siamo dette della paura dell’abbandono, del «dirsi tutto fino in fondo», del reggere situazioni a tre… tutte noi a questo punto a parlare insieme delle proprie esperienze, tutte ansiose, la rabbia dell’impotenza, i dubbi sulle possibilità di cambiare. Il suggerimento (provocatorio?) di una di noi «allora niente, allora chiudiamoci ad un rapporto con i maschi che spesso ci fa così male». Ma come è difficile, di nuovo, chiudersi a relazioni ancora tutte da capire, da esplorare, da lottare, per poterle poi criticare o ‘rifiutare. Tutte noi immerse in rapporti in cui il livello di «dibattito ideologico» urta costantemente con i condizionamenti affettivi e culturali.

Altre vie? Teorizzare (alcune compagne sembra riescano ad andarci avanti) un rapporto privilegiato oltre il quale permettersi altre storie-esperienze, esplicitandole al coniuge-privilegio, soltanto quando il livello di coinvolgimento raggiunga una intensità non più tollerabile (recupero ottocentesco?); questa prospettiva è venuta fuori da una di noi che si sente annientata dall’esigenza del suo compagno di renderla costantemente il referente principale di tutte le proprie storie esterne. Esplicitare, non farlo?

Soffrire, ribellarsi, tollerare, vendicarsi, Nessun punto di arrivo, nessuna omogeneità, nessuna soluzione, forse neanche molte ipotesi, su di un modo di uscire vincenti da situazioni difficili come la nostra. La ricerca è aperta. Certo, siamo sì consapevoli di quanto sia di transizione, dura e incerta la nostra situazione di femministe oggi; ma siamo anche sempre più certe dell’importanza e della portata rivoluzionaria che la consapevolezza delle nostre contraddizioni porta con sé,. così come la volontà di cambiamento che nasce oggi dalla nostra stranita esistenza di persone-donna.