una normale ambiguità

gennaio 1981

 

« La sincerità ha un prezzo : che la verità possa essere ridicolizzata, male interpretata, vedere un’immagine di sé che non si ama, che non si vorrebbe essere, che non ci corrisponde, ma è un rischio che sono disposta a correre ».

 

Quali sono i tratti essenziali della tua vita?

Sono nata a Firenze nel ’43 in periferia, in uno di quei villini anni Trenta che avevano costruito i miei genitori forse come senso di raggiungimento sociale. Mio padre era maresciallo dei carabinieri, mia madre una maestra elementare, tutti e due venivano dalla campagna da genitori contadini e molto poveri anche. Da qui l’idea di conquistare la città, di conquistare un loro piccolo spazio, la loro casina. Io ero l’ultima di cinque figli e ho sentito, ho respirato quest’atmosfera dell’essere appena arrivati, non ancora forse in città ma nella periferia della città. Questo per dirti che l’interesse che ho avuto poi per lo studio era in fondo l’unica arma che hanno i poveri, o le persone non troppo favorite socialmente, di evolversi, di conquistare un piccolo spazio nella società: sai un po’ la rabbia proletaria di conquistare i mezzi della cultura borghese per resistere in qualche modo. In una famiglia così che da poco era venuta via dalla campagna, dalla campagna toscana intendiamoci, stupenda, ma certamente povera e di non troppa cultura, si sentiva abbastanza questa passione per lo studio, proprio come un mezzo per acquistare quegli strumenti che altrimenti non si avrebbero per nascita. Appena laureata ho insegnato in un liceo negli anni del ’68 per cui ho partecipato con grande passionalità a questo momento politico dall’interno della scuola, con grande interesse ma anche con una grande frustrazione, una delusione immediata per la mancata riforma, per cui ho cercato altri spazi poiché nella scuola mi sembrava ci fosse una ripetitività, un affossamento di tutte quelle che potevano essere state le speranze precedenti. Allora ho cominciato a scrivere per la radio e poi sono venuta a Roma nel 71. Ho lasciato definitivamente la scuola e ho iniziato a collaborare più fattivamente con la radio, scrivendo e recitando alcune cose e da lì qualcosina in televisione, poi il teatro. Devo dire, appunto, che non prestissimo ho cominciato a fare questo mestiere, forse perché ero inibita dal fatto che mio fratello, di tredici anni più grande di me e dunque in qualche modo una figura quasi sostitutiva di quella paterna — mio padre era morto quando avevo cinque anni — mio fratello appunto già faceva questo mestiere e quando io sono venuta a Roma era già famoso, già importante e questo era un elemento a sfavore, non a favore, della mia carriera.

Mi sentivo come la sorellina un po’ scema che segue le orme di… cosa che mi è accaduta abbastanza spesso nei primi anni: « Lucia Poli virgola sorella di Paolo Poli virgola… » e poi tutto il resto; una situazione abbastanza frustrante sulla quale, per altro, ho imparato a

ridere, anche perché la cosa si è molto affievolita da quando ho cominciato a fare delle cose che mi hanno individualizzata. Questa situazione mi ha trattenuta dall’intraprendere questa carriera, per cui ho iniziato un no’ in ritardo, ma anche, se vuoi, con più maturità. Una maturità di letture, di studi, di cose che mi hanno fatto arrivare dalla parte dell’ autrice piuttosto che da quella dell’attricetta che si offre in balia di chi la scrittura, di chi la plasma e le fa fare Ofelia o Giulietta o l’avanguardia, a seconda di chi trova. Arrivando a Roma in età matura, invece, e con un certo bagaglio culturale, se vuoi scolastico, comunque non zero, ho potuto affrontare il teatro dalla parte di chi lo inventa piuttosto di chi viene inventato, di chi viene usato. Allora ho messo su un pic- cool gruppo cominciando con due spettacoli per bambini, una sorta di rodaggio perché mi sembrava meno pericoloso esporsi ad una platea di bambini. Poi mi sono accorta che il pubblico dei piccoli è esigentissimo, se non si divertono

urlano, si alzano in piedi, se ne vanno, li devi proprio divertire. Gli adulti no, caso mai sonnecchiano in silenzio, si annoiano, ma in qualche modo sono educati e per cortesia ti fanno l’applausino.

Dopo questi spettacoli ho fatto una cosina al Piccolo Regio di Torino, dopodiché mio fratello mi propose di lavorare insieme e con lui feci due spettacoli. Ovviamente erano suoi lavori, lui era il regista, come dire, servivo un po’ al suo stile, rientravo nel suo stile, però mi fu molto utile, ho imparato mol- tisismo da lui. Era molto importante per me questo confronto, lavorare con gli altri, imparare dagli altri: questo è un mestiere che si ruba piuttosto che impararlo a tavolino, si ruba in scena con un’altra persona così forte, grintosa, autoritaria, che tiene tanto magneticamente il pubblico da farti nascere dentro una certa competitività che sul palcoscenico deve scattare se si vuole essere ascoltati, si acquista, cioè, una sorta di forza scenica per cui pensi: « …mi devono pur ascoltare se ora tocca alla mia battuta, dovranno ascoltare anche me… ». Poi, ho cominciato a fare il mio teatro con il mio gruppo che si chiama ”Le parole e le cose” e con il quale lavoro dal 74.

Hai subito molto il fascino di tuo fratello?

Sì, il fascino e la pesantezza di questa sua figura…

Per la morte di tuo padre?

Certo, penso di sì. Tu sai che ogni padre è amato, è amato e odiato al tempo stesso: in qualche modo si ha bisogno di ucciderlo per esistere. Comunque esiste un grosso legame affettivo con mio fratello, al di là di quelle che sono le fatiche individuali di affermare faticosamente la propria personalità, di sganciarsi dalle tutele; al di là di questo c’è sempre stata una profonda stima reciproca, un certo rapporto intellettuale, una coni toc nza motto oc»a.

Ti sei sentita in qualche momento la sua controfigura?

No, perché poi la gente per altro vede anche le differenze oltre le nostre somiglianze.

C’è in te un certo gusto per il travestimento, per l’inversione dei ruoli: ad esempio, tu uno dei tre moschettieri, se ricordo bene, tuo fratello Milady…

Sai, in teatro ci si traveste un po’, però noi magari abbiamo un gusto particolare, specifico, per queste trasposizioni, per il travestitismo. Per me, se ripenso alla mia esperienza psicologica, credo che risalga all’infanzia, quando per esorcizzare la cosa che mi faceva più paura, il lupo cattivo o l’orco, la ironizzavo, la smitizzavo attraverso il gioco, vestendone i panni. Questa pratica dell’ironia su personaggi che sono magari il tuo contrario e di cui assumi il ruolo per rappresentarli così come loro non vorrebbero essere, mi ha portata a prendere altri ruoli, come ad esempio quello attraverso il quale viene beffato il mito della virilità.

 

Non è forse anche un modo per trasgredire la realtà attraverso il gioco teatrale?

Sì, l’ironia, in qualche modo, trasgredisce sempre la realtà. Come diceva Brecht « L’ironia è il distacco che si ha con il personaggio »; per cui là dove mi identifico in un personaggio che sento particolarmente vicino, vivendolo fino in fondo, sono stanislavskiana, nel senso che lo soffro, lo interpreto visceralmente; nel momento in cui uso l’arma dell’ironia, cioè prendo distacco dal personaggio mi identifico con « l’altro », con il «nemico» attraverso l’arma

dell’ironia lo prendo in giro, me ne burlo, lo ridicolizzo e fare questo mi affascina moltissimo. In altri termini, io opero un distacco ironico nei riguardi del personaggio, come ad esempio in Achille in Sciro, colpendolo nelle sue « verità » per riportarlo sempre ad una mia « verità »: io non credo di essere Achille, ma me stessa che prende in giro, che ironizza la virilità di Achille; in questo senso non tradisco la realtà, poiché faccio di Achille me stessa.

Un modo di beffarsi delle « grandi verità »?

Sì, penso di sì. Credo di avere una componente molto forte di ribellione, come un po’ tutte le donne oggi. L’idea di potermi permettere certe cose insolite, un frutto proibito, mi dà un senso di ebbrezza: il fascino di qualcosa che non era prevista. In questo senso, io soffro molto le fatiche di questo mestiere, ma al tempo stesso mi sembra tale un privilegio poterlo fare, avere la possibilità di giocare con la propria creatività. Quasi mi sembra di rubare qualcosa: un frutto che era tradizionalmente dell’uomo. Per questo la ribellione, la trasgressione a delle regole prestabilite mi attrae moltissimo.

Ami le donne?

Ho cominciato a scoprire e ad amare le donne molto tardi. Da bambina, forse perché non amavo me stessa, non amavo molto neppure le altre donne. Preferivo le compagnie maschili, poiché identificavo con il maschio l’autonomia, la libertà, il potere, per cui mi sembrava odioso restare tra le gonne della mamma a giocare con le bambole. Non amavo i cliché che mi venivano imposti dalla società benpensante: fidanzarsi, sposarsi, smettere di studiare. A me sarebbe piaciuto fare una vita più autonoma, come per i maschi era naturale che fosse. Poi, forse, non avevo un ottimo rapporto con mia madre. Fatto sta che ho scoperto molto tardi le donne ed è forse solo da dieci anni a questa parte che ho cominciato veramente ad amarle. Oggi sto molto volentieri con loro e nei miei spettacoli in teatro lavoro più spesso e più volentieri con donne che con uomini.

C’è un’immagine di donna che ha avuto o ha una particolare importanza nella tua vita?

Mah!… Forse questo è un limite nella mia formazione, ma io sono sempre stata una persona molto sola. Certe immagini si formano essenzialmente nell’infanzia o nell’adolescenza e molto spesso nell’ambito delle figure domestiche: il mio problema è stato appunto questo, di non potere, di non riuscire ad identificarmi con le presenze femminili che mi circondavano. Certo, oggi ci sono delle donne che stimo moltissimo e che sono molto importanti per me. Laura Betti, ad esempio, una donna piena di contraddizioni, estremamente geniale, umana, ricca di vizi e di virtù; oppure Giorgia O’Brien, un’attrice con la quale lavoro molto volentieri.

Ami gli uomini?

Moltissimo. Anche se oggi mi avvicino a loro con maggiore circospezione, sono più diffidente, sto in guardia. Io penso che molti uomini siano stati in qualche modo cambiati dalle lotte delle donne, dalle tematiche femministe; sono più sensibili a certi problemi, più disponibili nei confronti della donna, più disarmati, se vuoi, di fronte alla realtà. Rispetto

a questi uomini che tentano di ricostruirsi una propria identità, che hanno rinunciato ai miti classici della ’’virilità”, che si pongono in modo problematico e dialettico rispetto alla propria immagine e a quella della donna, rispetto a questo tipo di uomo io mi sento estremamente disponibile, estremamente vicina.

Questo diverso atteggiamento di molti uomini non è un modo, un po’ subdolo ed ambiguo, per non lasciarsi sfuggire un potere ormai vacillante?

E’ molto difficile risponderti. Io penso che se questa logica di potere esiste,

isolarsi non serve. Il confronto con le altre donne è importante, certo, ma poi bisogna viverlo questo incontro-scontro con il maschile; è necessario chiarire, affrontare certe problematiche con l’uomo, tentare di ricondurre all’interno del rapporto di coppia, ad esempio, quelle che sono le proprie individuali conquiste, e che ben vengano gli scontri, se scontri devono essere…

Ritieni dunque di poter modificare o controllare attraverso il dialogo, l’immagine della donna che nei secoli si è andata consolidando nel cervello dell’uomo?

No, ma mi confronto con quell’immagine, posso non controllarla del tutto e quindi venire a conflitto, o posso in parte modificarla col mio atteggiamento; in ogni caso la vivo e non posso fare a meno di viverla questa mia immagine interlocutoria, perché l’uomo fa parte della mia vita, della mia realtà ed a mia volta ho un mio interesse, una mia tensione ‘terso l’uomo. In qualche modo i rapporti con il maschile mi catturano, come mi cattura il rapporto con il pubblico: un rapporto duro, contraddittorio, difficile, poiché anche il pubblico tende a strumentalizzarti. Eppure io voglio, mi va di affrontare tutti questi rapporti, nonostante gli errori, i momenti di rottura, di tensione. Sicuramente, comunque, non riuscirei ad avere un discorso con un uomo che ha un’immagine di me particolarmente legata a quelli che sono i cliché tradizionali della cultura maschile; viceversa, come ti ho detto, un uomo toccato dalla crisi, che ha più

dubbi, più insicurezze, pronto a mettersi in discussione, problematico rispetto all’immagine della donna, mi corrisponde, sento che posso confrontarmi con l’immagine che lui ha di me, perché è comunque un’immagine incerta, pronta ad essere modificata e la sua posizione la percepisco meno impositiva, meno di notere.

Hai mai desiderato di essere un uomo?

Sì, da bambina, quando provavo questa scarsa considerazione di me e per la ’’femminilità” così come mi veniva imposta dalla tradizione familiare e dalla storia; allora avrei voluto essere un ragazzo, certo. Oggi non più, o solo in certi momenti in cui subisco ancora delle grosse umiliazioni sul lavoro perché sono donna. A volte provo una profonda disperazione, quando vengo trattata con disprezzo o, peggio ancora, paternallsticamente.

Forse perché non hai incontrato sul lavoro il tipo ’’compagno toccato dalla crisi…”…

No, non credere, quelli di cui parlo sono quasi tutti compagni, è che sul piano del lavoro scatta l’interesse, il potere…

Hai mai paura? La paura della vecchiaia, per esempio…

Io sono una persona invasa dalla paura: paura della solitudine, paura di fare delle cose brutte, di sbagliare, che la gente mi giudichi noiosa, paura della vecchiaia, certo. L’invecchiamento fisico

  1. temo moltissimo, pur tuttavia spero di affrontarlo nel migliore dei modi, di non regredire, di non diventare idiota.

La tua non è certo un’immagine limpida, chiara, lineare, bensì una figura piena di contraddizioni, un po’ ambigua…

Io sono molto ambigua, certo. Subisco

  1. fascino delle suggestioni, « mi piacciono — come diceva Leopardi — le parole ambigue che vogliono dire più d’una cosa ». Non un’ambiguità sessuale, ma qualcosa di più; un’ambiguità di testa, se vuoi, la capacità, quasi l’esigenza di essere in un modo e poi in un altro ed in un altro ancora. In fondo ho molta tenerezza per le persone ambigue…

E per te stessa…

Si. Un po’ di narcisismo, per questo mestiere, è necessario, ed io penso di averlo, di avere una buona dose di narcisismo che è affetto, tenerezza per se stessi.

C’è qualche momento della tua giornata in cui pensi di non recitare?

Non lo so, è sempre un problema, un mistero capire se e quando si recita. Io credo che la finzione, il mimetismo siano atteggiamenti tipicamente femminili. Amo moltissimo quel certo civettare tra donne, il gioco del ’’trucco”, quel travestirsi sempre un po’, un modo di recitare senza comunque stravolgere la realtà.

Si dice che ogni cosa ha un prezzo: qual è il prezzo della tua sincerità?

Indubbiamente la sincerità ha un prezzo; non è vero che si sia eroici ad ogni costo. La sincerità ha questo prezzo credo, che la verità possa essere ridicolizzata, male interpretata, vedere un’immagine di te che tu non ami, che non vorresti essere, che non ti corrisponde; ma è un rischio sai, ed io ci sto a questo rischio.