Virginia Woolf

un suicidio di libertà

luglio 1974

 

Studiando la letteratura inglese alla università, non mi ero molto soffermata su Virginia Woolf. Avevo letto « La Signora Dalloway », ma non mi era venuta voglia di approfondire la conoscenza di questa scrittrice che mi era parsa difficile, troppo preoccupata della tecnica dello scrivere, troppo sicura di sé e consapevole dei moti della sua coscienza: insomma una sdegnosa creatrice di avanguardia letteraria, che apparteneva a una élite, a un piccolo gruppo di scrittori che scrivevano per una minoranza di lettrici.

L’idea che mi ero fatta di lei dai libri di storia della letteratura era quella di una pigra, ricca donna vittoriana, senza figli, che guardava dall’alto del suo naso aquilino, criticando tutti coloro che non la pensavano come lei o che non appartenevano alla sua stessa classe sociale.

Poi un giorno, casualmente, mi trovai a leggere « Una stanza tutta per sé ». Mano a mano che gli occhi scorrevano sulle pagine la mia eccitazione e il mio entusiasmo crescevano. Possibile che questa donna cosi diversa da me e da tutto ciò che fa una donna moderna, avesse raccolto queste idee che facevano parte della vita quotidiana di una femminista?

Nel libro, basato su due conferenze tenute a Cambridge, Virginia Woolf delinea la posizione sociale della donna nella letteratura. Sarebbe difficile trovare un attacco più radicale e più deciso, un quadro più attento sulla soggezione delle donne. Pur rendendosi conto della sua condizione privilegiata (aveva ereditato un vitalizio di 500 sterline l’anno da una zia e si era così liberata non solo dello sforzo e della fatica, ma anche dell’odio e della amarezza: « non ho più bisogno di odiare nessun uomo; nessun uomo mi può più ferire; non ho più bisogno di lusingare nessun uomo: nessun uomo mi può più dare niente»), non per questo ignorava la condizione delle altre donne. Non si era dimenticata di quando guadagnava la vita « facendo lavoretti per i giornali, la cronaca di uno spettacolo qui, di un matrimonio là; avevo guadagnato qualche sterlina scrivendo indirizzi sulle buste, leggendo libri per le vecchie signore, facendo fiori artificiali, insegnando l’alfabeto ai bambini dell’asilo », le principali — se non le uniche occupazioni che si offrivano alle donne prima del 1918. Lungi dal considerarsi una persona intellettualmente superiore, continuava a sentirsi male istruita, perché i suoi fratelli erano stati mandati all’università, mentre lei e sua sorella avevano dovuto rinunciarvi.

Ecco una donna che conosceva quali erano i problemi delle altre donne: problemi economici, problemi di pregiudizio, mancanza di cultura, mancanza di intimità. Jane Austen ad esempio aveva scritto i suoi romanzi in un angolo del salotto di casa, coprendoli con un foglio di carta assorbente ogni volta che qualcuno entrava, perché si vergognava quasi, come se stesse commettendo una brutta azione. Una donna — afferma Virginia Woolf — per poter lavorare intellettualmente ha bisogno di una stanza tutta per sé.

Virginia Woolf era nata nel 1882, figlia di Sir Leslie Stephen, uno scrittore vittoriano specializzato in biografie di personaggi illustri, libero pensatore ed appassionato di montagna e di Julia Jackson. Fin dalla sua infanzia Virginia ebbe una natura segreta, intensa, come animata da una sua peculiare musica interiore. I momenti più felici della sua infanzia e giovinezza li visse nella nebbiosa e ombrosa casa che i genitori possedevano in Cornovaglia, a St. Ives. Ricordi di questi suoi soggiorni si ritrovano in quasi tutti i romanzi.

Nel 1912 sposò Leonard Woolf, un funzionario dell’amministrazione coloniale britannica che era vissuto diversi anni a Ceylon, ma i cui interessi intellettuali avevano alla fine prevalso su quelli per la carriera. Con il marito, Virginia fondò una casa editrice, la Hogarth Press ed entrò a far parte del famoso gruppo letterario di Bloombury, cui appartenevano anche Henry James, T.S. Eliot, James Joyce. Nel 1932, a 50 anni, Virginia aveva completato 6 romanzi ed era una donna famosa. Ma il successo non poteva placare la sua febbre interiore, accresciuta dall’angosciosa crisi politica di quegli anni. Mentre l’Europa precipitava verso i fascismi e verso la guerra, Virginia Woolf cominciò a scivolare verso l’autodistruzione, verso « un desiderio di morte », come scrisse lei stessa. « Avvertiva — ha scritto di lei un suo biografo — che si correva al rogo di un immenso sacrificio umano ».

Le voci del passato le parlavano sempre più spesso. Il 28 marzo del 1945, Virginia Woolf, dopo aver scritto due lettere al marito e alla sorella, si incamminava verso il fiume Ouse, che scorreva vicino alla sua casa di campagna, lasciava il suo cappello e il suo bastone da passeggio sulla riva e spariva nelle acque scure che tante volte erano state descritte nei suoi romanzi.

Il suo suicidio parve ai più l’insano gesto di una donna ammalata di nervi, ma per noi oggi esso ha il valore di una testimonianza suprema e disperata del suo impegno sociale per un mondo in cui l’uomo sia fratello aM’uomo ed in cui « la ragion d’essere di una donna non consista nell’essere sostentata dall’uomo e di accudire ai suoi bisogni ».

Questa visione del mondo e della società, che caratterizza Virginia Woolf come una vera femminista, appare non solo nei suoi saggi, ma anche nei suoi romanzi. Basta ricordare che in un suo libro si legge che « Olimpia piaceva a Chloe » e questo in un’epoca in cui era ancora un tabù pensare che le donne potessero amare le altre donne e non essere soltanto rivali per amore di un uomo. E in polemica col pregiudizio corrente, che si fonda sul fatto che non c’è mai stata tra le donne un Mozart o un Leonardo, la Woolf sottolineava che le donne preferiscono scrivere piuttosto che dipingere o comporre musica perché la carta costa meno dei colori e delle orchestre.

Nei suoi romanzi ella descrive la vita di ogni giorno che trovava così ricca di gioie e di terrori. I suoi personaggi sono donne comuni: la ragazza che scrive buste per il movimento delle suffragette, la studentessa brillante, la ragazza che non desidera altro che il matrimonio e il tennis, le poetesse, le vecchie signore: certo un mondo borghese, ma era l’unico mondo che conosceva.

La Woolf è stata inoltre una delle prime scrittrici a cogliere il legame tra il bambino e l’uomo: gli amori taciuti, le rivalità, le ostilità tra genitore e bambino. Non aveva figli, ma era stata una bambina attenta e si ricordava della sua infanzia e dei suoi rapporti con i genitori.

Dice di lei la critica e femminista Margaret Drabble: non bisogna cercare nel suo lavoro una donna moderna che conduca il genere di vita che noi conduciamo. Ciò che possiamo trovare è una profezia di noi stesse e lei è stata la nostra profetessa. Ai suoi giorni non c’erano donne pro- fessioniste che si bilanciavano tra casa e lavoro con l’aiuto di cibi sur-,* gelati e macchine lavatrici, non c’erano donne d’affari; non c’erano scrittrici con molti figli che correvano dalla macchina da scrivere alla scuola, al macellaio… non c’erano molte donne impegnate politicamente. Ma stavano per nascere, e lei ha preparato la strada e ha contribuito a crearle. Pur avendo tracciato nei suoi romanzi il ritratto di una società moribonda, e in cui non voleva mischiarsi perché non la approvava ed avvertiva che stava per. finire, Virginia Woolf amava la gente e la società. « Se po

tesse vederci ora, mentre combattiamo, tra mille difficoltà, per le nostre nuove libertà sarebbe certo al nostro fianco ad aiutarci e incoraggiarci. Ed anche se non siamo ancora riuscite a costruire il tipo di società che ella desiderava, e che il suo momen

to storico le negò, possiamo già avvertire quanto ella abbia contribuito a crearlo; possiamo avvertire quanto abbia contribuito a farci quelle che siamo, quanto le dovremo ancora se riusciremo a restarlo ».