BIENNALE CINEMA

donne, bambini, emarginati

Assenti come produttrici e registe, presenti come oggetto filmico e spettatrici

novembre 1980

La tensione politica, nazionale e internazionale, trova sanatoria nelle grandi estati cinematografiche, momento di riposo ed oblio del corpus sociale. A Roma e Venezia, ma anche a Firenze e in altre città italiane, questo corpo stressato da una veglia agitata da licenziamenti, cadute di governo e pirotecnie agghiaccianti (di condizione femminile non si parla neanche più, e semmai si assiste alla restaurazione ecclesiastica) si cura con forti dosi di immaginario confezione filmica.

La risposta alle grosse organizzazioni di proiezioni per il vasto pubblico è stata massiccia, alla Mostra del Cinema di Venezia gli arrivi di cinefili/e di antica e nuova data ed altro materiale umano variamente interessato all’evento ha superato le previsioni e le strutture della mostra stessa.

Articolata in quattro sezioni principali (dal cinema industriale internazionale, all’internazionalsperimentale, alla retrospettiva, al cinema più emarginato presentato dall’AIACE) la mostra ha offerto terreno, oltre che ad interessanti riflessioni cartacee, al rapporto sempre più stretto tra industria cinematografi ca e televisiva, dove quest’ultima, soprattutto la privata, consuma la prima con competitività crescente rispetto ai tradizionali circuiti cinematografici, proponendosi quest’anno (nel caso della Rai, produttrice di sedici titoli presenti alla mostra) anche come produttrice di film, funzione nella, quale si sono cimentati anche enti e comuni e regioni. Questo spiega come mai, anziché produttori e starlet, ospiti spesatissimi di quest’anno siano stati funzionari Rai, presidenti, sindaci, assessori di comuni e province, eccetera. Il massiccio predominio Rai sull’industria privata (parallelo ad una più debole presenza americana) ha rallegrato alcuni, scontentato altri. I primi — gli speranzosi o quelli con le mani già in pasta — hanno celebrato quest’apertura come un’alternativa possibile all’attesa nuova legge sul cinema, innescando l’efficace oratoria sulla strada nuova da percorrere, sulla collaborazione delle due industrie, sull’evoluzione tecnica del cinema che finalmente crea una linea convergente con quella televisiva, ecc.; i secondi — quelli che invece le mani in pasta non le avevano, o non le avevano potute mettere — avvertono il pericolo di un monopolio Rai, E’ certo comunque che questa linea finanziatrice prevarrà per quanto la Rai sarà disposta ad investire. L’esperimento Antonioni, delegato a « scoprire » ufficialmente le proprietà del tape colore indica che si tratta di una volontà a lunga scadenza.

Non so bene come portare questi problemi « collettivi » nel contesto delle donne, se non per rimarcarne ripetitivamente la loro presenza irrilevante o periferica.

Per quanto quest’esclusione resta evidente, tanto però rimmagine della « donna » versione ’80 ha riempito di sé gli schermi, surclassata appena o affiancata dal più redditizio e attuale protagonismo del « bambino » (l’80 è l’anno ONU del bambino), con in coda il montante filone dell’«emarginato».

La donna, insomma, assente come produttrice e regista, è stata presente come oggetto filmico e spettatrice.

L’immagine filmica femminile ha subito brillante processi di perfezionamento — tutti prevedibili e previsti — rispetto alle immagini piattamente problematizzanti che se ne sono date a partire dal 1976 (anno della donna, per l’ONU). Ora non viene più vista solo in funzione delle crisi più o meno autoca-stratorie che innescava nei partners maschili, ma, eccola, vera donna, con i suoi problemi, le sue frustrazioni, la sua aggressività, i suoi amori, i suoi immancabili figli, scolpita a tutto tondo da coscienziosi registi.

II filone del femminismo latente

In “Lena Rais” (Germania Federale) abbiamo la madre di tre figli, moglie, che inizia a ribellarsi all’ «ordine che la degrada ad oggetto e che la fa funzionare a garanzia di quest’ordine» (parola di catalogo), ostacolata dal marito che crea delle vere e proprie congiure sociali fino a farla ammalare, in un susseguirsi di riprovevoli azioni di maschilismo — la cui descrizione non è più ritenuta didascalica, ideologica o eccessiva — che si concludono con la separazione dei due. L’istituzione matrimoniale è ugualmente vacillante nel “Kontrakt” polacco.

La Iugoslavia presenta “La corona di Petrjia”, tragica vita di una contadina analfabeta con tre uomini in una cittadina mineraria. L’Ungheria è presente con “Cest la vie”, in cui una Ginette indipendente e testarda « lotta per costruirsi una vita a modo suo. Ma quale vita? Bisogna lavorare o dedicarsi ai figli? Restare con un marito che limita la propria libertà o farsi mantenere da un amante devoto? Accettare la tenerezza burbera ma stimolante della sua amica Simona? Cosa scegliere? Come scegliere? » si interroga il catalogo della mostra. Ce lo chiediamo anche noi, con partecipazione diversa da quella del regista che ha avuto l’idea del film dopo aver ascoltato alla radio la confessione di una giovane donna: « Ho spento la radio — dice — l’idea mi è venuta subito, improvvisa, perentoria, di ricavarci un film ».

“Un giorno speciale” (Ungheria), premiato come opera prima, racconta di una maestra d’asilo impegnata in diverse ma parallele vicissitudini. Da questi ed altri esempi si può parlare di un filone del “femminismo latente”, ossia di quei registi che ci presentano con candore donne cui cade in testa la tegola della liberazione e che non hanno alcun rapporto col peraltro innominato movimento. L’isolato e goffo “Masoch” non manca di analizzare femministicamente la triste vita della contessa VonSacher. Il perfezionamento del protagonismo femminile e commerciale tocca però il suo vertice in “Gloria” (USA), dove Gena Rowlands impugna la pistola, non sbaglia un colpo e se non la fermano ripulisce l’America dalla malavita, il tutto per salvare un infante odiosissimo. Come se l’inoffensività dei modelli femminili “virilizzati” (si parla di campionature sociologiche) non fosse già assicurata dalla provenienza di queste proposte e dalla volubilità del mercato, ad ogni buon conto vengono affiancati da bambini.

La bambmizzazione

La bambinizzazione colpisce pesante in “Voltati Eugenio” (il Kramer sessan-tottardo all’italiana) o sordamente nei coprotagonismi simbiotici (raramente la donna di quest’anno non è madre, o vice madre) o intelligentemente nella fusione nell’adolescente femmina dei topoi donna-bambino: la scelta di proiettare

“Lolita” in memoria di Sellers può essere indicativa, mentre il gustoso’ e profondo “La petite sirène” (Francia) e l’interessante “La ragazza di via Millelire” (Italia) lo comprovano. Sempre la Germania offre “Charlotte”, sulla difficoltà di una pittrice ebrea ad affermarsi, che si conclude tragicamente con la morte in un lager.

Coprotagonismi antitetici

Altro gioco narrativo è quello dei coprotagonismi antitetici, coppie di donne con ruoli tradizionalmente opposti. “Richard’s Things” (Gran Bretagna) mostra moglie e amante che, dopo la morte del loro comune lui, si ritrovano amandosi e odiandosi in un’irresolvibile contrasto lunatico giocato su lenti PJ., contrasto risolto anche troppo ottimisticamente invece in “L’altra donna” (Italia), dove la padrona bianca altolocata e la cameriera nera contadina finiscono, nella diversità e nella sofferenza di una separazione e di un aborto, per solidarizzare. La coppia antitetica torna divisa in “Addio, pellegrino” (USA), contrasto madre cancerosa anticonformista-figlia nevrotica omosessuale, che si conclude con l’inevitabile morte della madre. La morte della madre, trattata con edipico orrore e rispetto, rappresenta un altro microfilone, comparendo in “Guns” (Francia) e nell’italiano “La Brace dei Biassoli”.

La continuità originale del discorso, unico merito del cinema d’autore, si frantuma a favore di un’attualità recepita come moda in queste ricorrenze tematiche troppo coincidenti. Più serie, almeno perché restano nel loro, le ricostruzioni storiche in costume di sapore televisivo o Ì film relativi ai problemi dei Paesi da cui provengono.

L’emarginato anziano fa capoEno in “Going in style” (trad. Morire in bellezza, USA), e “Atlantic City” (Canada), quasi a prevedere il prossimo anno ONU, mentre l’emarginato omosessuale e proletario lo troviamo nel “Due leoni al sole” francese.

A proposito di leoni, (il reinstaurato premio) ex aequo la giuria ha assegnato un leone ai succitati USA e Canada, mentre vince II leone più consistente “O Megalexandros” (Grecia), sul conflitto tra un capopopolo brigante e autoritario e un maestro patteggiante e comunitario sulla gestione di un paese: strage finale, ma « dalle macerie un bimbo di nome Alessandro si solleva e si allontana al galoppo su un cavallo bianco. E” il futuro di un progetto di società », alta metafora vincente che significativamente sussiste senza bisogno questa volta di presenze femminili.

Il bilancio della mostra ha ampiamente sfondato il tetto dei 600 milioni, prevedendo per l’ospitalità un 40 per cento del totale. Ci sono ospiti e ospiti. Quelli emarginati presentati sullo schermo tentavano nella realtà di passare la notte nelle sale di proiezione e finivano in spiaggia, e pagavano il biglietto, gli altri dormivano all’Excelsior e avevano gli inviti.

Poi la mostra è finita, gli ospiti sono scomparsi, come le immagini colorate delle pellicole cinematografiche, che stanno disastrosamente cancellandosi con 1’andar del tempo.