Garantismo? violenza? Sadochismo, desiderio

novembre 1980

Queste discussioni testimonianze del Collettivo Donne II Turismo, la scuola di Simona e Poppi Saracino, sono state raccolte in un ciclostilato che ci hanno inviato e del quale pubblichiamo ampi stralci.

 

Si sa che solitamente, per come sono le leggi e per com’è il costume, i processi per stupro diventano processi contro le donne. Naturalmente non è facile ribaltare questa situazione né è privo di problemi chiedere — come si fa quando si sporge denuncia — la punizione di qualcuno. Il caso di Simona Ronconi, « una donna-ragazza che denuncia uno stupro » (questo il problema, non, come titola la stampa, « il caso Saracino ») è un esempio di questa complessità e difficoltà ma anche di una ferma deliberazione: quella di non tollerare più rapporti di violenza, di ruolizzazione, costi quel che costi, pur nella consapevolezza che tante possono essere le ambiguità, le complicità delle donne-vittima con i loro oppressori.

« Mutare tutto questo è un processo storico molto lungo, rispetto al quale condannare chi violenta è un momento necessario e non evitabile… Sarebbe ben strano affermare che si vogliono rapporti diversi tra le persone e non trarne le conseguenze che primo passo di questo cammino è non ammettere situazioni in cui ogni dialettica è ^annullala, perché rimane una sola persona in condizioni di esprimere se stesso: com’è appunto nello stupro», dice Linda in una delle testimonianze che qui pubblichiamo. E’ vero, i costumi e le mentalità si modificano lentamente, ma certo molte cose sono già cambiate se è possibile discutere di violenza sessuale nei termini in cui io fanno queste donne, che sanno interrogarsi con lucidità e partecipazione.

 

Giulia

Gli aspetti di questo dibattito sono soltanto e solo politici. Intanto la.questione del garantismo, che si è prospettata subito in primo piano: come l’hanno agita e vissuta nella riflessione le donne. Donne che sì sono riconosciute con unità di intenti nel collettivo, ma anche donne « altre », quelle che si sono sempre qualificate « democratiche ». Garantismo — si è detto subito — deve esserci là dove si accusa qualcuno di un reato: si deve presumere l’innocenza prima di una condanna. Principio inalienabile sostenuto nel collegio dei docenti (il collegio è stato convocato per discutere dell’eventualità di deferire Saracino all’autorità scolastica ndr.) da molte donne: non sì è voluto fare la parte del magistrato. C’è anche chi, tra le donne del collettivo, ha esplicitato nel Collegio questo non voler prestabilire un giudizio nel senso di non volersi far « Stato »: lo Stato, l’istituzione (autorità scolastiche, magistratura) faccia la sua parte: non ci si vuole identificare con esso, né tantomeno accollarsi il compito che esso si è dato di normalizzatore della devianza.

Nel collettivo donne ci si è tenuto il diritto di giudicare-valutare. Perché valutare significava non solo non prestabilire colpevole o innocente l’accusato ma mettersi in relazione con l’altro termine della dialettica: non vedere solo l’accusato, ma far esistere raccusatrice, denunciatasi, con la denuncia, vittima prima.

Caso dunque complesso di garantismo quello sotto esame, dove accusatore non è il « Potere », ma una donna che denuncia un abuso di potere: soggetto non facilmente collocabile in una questione in cui c’era da pronunciarsi come garantisti. Il collettivo donne l’ha risolto non schierandosi per principio contro l’accusato, ma facendo esistere il polo dell’accusa e prendendo poi posizione a fianco della parte lesa, individuando in essa la vittima.

Farsi garantisti molte donne invece l’hanno inteso come esserlo nei confronti dell’accusato, unico gesto possibile in.una dialettica che si esauriva in lui visto come vittima. Esse non hanno voluto fare un discorso di valutazione dell’accaduto, in nome del fatto di non voler dare fiato alle trombe di una caccia alle streghe, dentro e fuori la scuola.

E’ vero, molta stampa, e non solo questa, ha voluto montare il caso, buttarsi su un personaggio (l’ex-sessantottino) per levarselo dai piedi.

E’ vero tutto questo, ma noi non vogliamo in nome di una pretesa serenità dì giudizio, semplificare i termini delle questioni, o dimenticarci che da sempre si è fatto dì tutto per distoglierci dall ‘individuare oppressi e oppressori, vittime e carnefici, e conseguentemente dì schierarci.

 

Laura

Per capire quello che veramente significa questo episodio è importante non ragionare in modo schematico almeno su due punti, questi, l’uomo, non è il classico sottoproletario o fascista facilmente riducibile a mostro e la violenza non ha l’aspetto del massimo sadismo possibile. Questi due elementi hanno gettato e gettano molta gente nella confusione. L’operazione che molti fanno, siccome gli elementi sono piuttosto complessi, è quella di cancellare con un gesto infastidito la ragazza, ì suoi diciotto anni, la non libertà del rapporto e la violenza (che la denuncia e i cinque giorni di prognosi testimoniano) e di lasciare solo la figura dell’uomo, la complessità del suo desiderio, « forse » non corrisposto, i problemi giuridici del garantismo.

Mi sembra che il discorso più corretto, e che temo il più difficile ancora per una società distratta come la nostra su questo tipo dì valori, è quello del diritto della donna ad essere considerata persona con una sua volontà.

Non è importante perciò il grado di conoscenza, stima o interesse esistente tra i due, quello che è decisivo è che una persona-donna possa scegliere di mangiare con un uomo e di non avere con lui un rapporto e può decidere di fronte ad un’imposizione violenta, di dichiarare pubblicamente che il limite è stato superato; unico modo di « non starci » dopo che la violenza è stata subita.

Intendiamoci, le riflessioni sulla complessità del rapporto uomo-donna, sadismo-masochismo, desiderio-ripulsa, non sono cose -senza importanza ma come non accorgersi della loro ambiguità quando servono a non accettare” qualcosa di dichiarato esplicitamente, a non tener conto della volontà chiaramente espressa da una persona? Sono importanti tutte le sottigliezze psicologiche, ma quando la « vittima » non è consenziente e lo dice, credo che meriti il rispetto di essere presa sul serio.

Per questo ritengo difficili battaglie come queste in cui in fondo il problema è se una donna è o no padrona di sé, e se quando accetta di salire a casa di uno a bere un caffè può bere effettivamente un caffè. Forse è difficile condividere l’importanza di una denuncia di questo genere, proprio perché questo tipo di violenza piuttosto sottile, ma neppure troppo invisibile, è spesso presente nella vita delle donne, magari con persone non estranee con le quali si convive.

 

Marina

Le immagini della sessualità e della donna che mi restano dopo i discorsi iniziati in questi giorni sono troncate come fossero frutto di un’autocensura: non sì può parlare di un desiderio cosciente della donna perché la ricerca di un rapporto con l’uomo è descritta come inganno o mimetismo rispettò al desiderio maschile, in rapporto al quale la seduzione femminile è un ruolo obbligato. Un rapporto è gratificante per l’uomo in quanto lo scambio avviene rispetto ad un ruolo interiorizzato e qualsiasi risposta diversa non è intesa in relazione alla  persona  ma  alla  crisi  di  questo

stesso ruolo, non solo a quello sociale più esplicito ma a quello di identità più profondo. Il problema è perché ciò comporti un atto che cancella l’altro soggetto la donna, risposta distruttiva e senza ritorno per l’uomo perché obbligata a scegliere le perpetuazioni di questo stesso ruolo… Di fronte a questo fatto (la violenza) anche per le donne lo scoprirci soggetti era solo una possibilità e cercarci in questa occasione era anche assumersi la responsabilità di parlare per sé e bastarsi: in questo trovare un’autonomia di giudizio, capire « oltre » senza però negarsi.

Mi rendo conto che parlare pi sé nei momenti tesi che abbiamo vissuto non era forse sempre possibile, ma io vorrei riflettere su alcune cose accadute: sul disintegrarsi di forme di rapporto tra donne nate anche dall’esperienza del femminismo, sul rapporto contraddittorio di identificazione ma anche di diffidenza nei confronti della donna che ha subito e denunciato la violenza, sull’emergere di grosse differenze su cosa significasse per ciascuna di noi la domanda che il suo gesto ci pone, che non è né di riparazione né consolatoria.

Penso che nel riserbo di molte donne nel non voler partecipare alla «distruzione » dell’altro soggetto (l’accusato), che si è manifestata nella sospensione di giudizio, ci siano stati per alcune il rifiuto ad una « ripetizione » della violenza verso la donna e una sensibilità estranea al rito dello sdegno formale e dell’allontanamento da sé del problema; per altre/ì il considerare che fosse in gioco solo la persona dell’uomo.

In chi ha sospeso il giudizio credo anche sia presente la figura di una donna-riparatrice che non rompe neppure nel linguaggio il rapporto madreggilo (non in senso biologico, ma più generale) capace di tolleranza e di accettazione dell’altro anche quando ciò avvenga contro sé stessa, con una speranza continua di una possibile modificazione. Il filo di questo rapporto è spezzato, ribadirlo è forse ancora un potere, ma ambiguo, perché non riconosce l’uomo come persona autonoma e separata (che invece è), ma come figlio. Potere ambiguo, perché il rapporto con il « diverso », con l’uomo che in questo caso ha infranto le regole, è riportato dentro di sé, vivendone la contraddittorietà come una propria responsabilità.

Una cosa importante che ho capito attraverso questa vicenda è che la coscienza di sé e i mutamenti che investono una struttura così profonda come la sessualità, occorre siano « detti » per esistere per sé e per gli altri, che questo atto ci divide anche se poi ricostituisce una comunicazione più autentica: mi chiedo perché tutto ciò debba ancora passare, deformandosi dolorosamente, attraverso un meccanismo giudiziario, anche se so che per un lungo momento storico non è saltabile.

 

Linda

Credo che anche nella sessualità, come nel resto, ciascuno deve essere l’artefice della propria liberazione e che nessuno può farlo .al posto di un altro. Questo io dico non perché penso che Simona avesse del desiderio sessuale verso Saracino e che non volesse riconoscerlo, ma perché credo che ad alcuni sia venuto ni mente che potesse essere così e mi preme chiarire che, se anche così fosse, ciò non avrebbe influenza sull’affermazione che c’è stata violenza e coercizione della volontà.

E’ importante e positivo che a tutti sia riconosciuto il diritto di fare del sesso con chi vogliamo, indipendentemente da ogni considerazione accessoria (tipo se è del proprio o dell’altrui sesso, quanti anni ha, se lo si ama profondamente o no, se la cosa ha unta continuità o meno, ma, per l’appunto, se lo vogliamo).

Naturalmente queste considerazioni chiamano in causa un’altra faccenda: è necessario che talvolta uno autoreprima i propri desideri, nel caso cioè che questi si scontrino con un rifiuto da parte dell’altro, sia esso espresso a parole o trasmesso con gesti, atteggiamenti etc.

Non penso proprio che una colpa valga l’altra; anzi mi preme ribadire che nella varietà di prevaricazioni che in campo sessuale si possono fare agli altri c’è una soglia in cui la variazione quantitativa di violenza diventa salto di qualità.

Perciò è giusto che si facciano processi per fatti di questo tipo: per sancire l’inaccettabilità sociale del praticare il sesso contro il volere di una delle parti, e non per volontà di punire e per fiducia nei benefici effetti della galera. E neppure per dire che Giuseppe Saracino è una persona del tutto diversa dalle altre, che ha fatto qualcosa che si pone su di un piano estraneo al comportamento degli altri in campo sessuale; tutto al contrario, la sessualità di molti, per lo più uomini, contiene numerosi elementi di violenza, di ruolizzazione, di autoaffermazione, costi quel che costi, come- quella di molte donne ha in sé complicità verso questi atteggiamenti, masochismo e simili.

Mutare tutto questo è un processo storico molto lungo e intricato; rispetto al quale condannare chi violenta è un momento necessario e non evitabile; anche se questo non deve essere una scusa per non impegnarsi a trasformare anche tutto il resto. Ma sarebbe ben strano affermare che si vogliono rapporti diversi tra le persone, e non trarne le conseguenze che un primo passo di questo cammino è il non ammettere situazioni in cui ogni dialettica è annullata, perché rimane una sola persona in condizioni di esprimere sé stesso: come è appunto nello stupro.

Alcuni ritengono che una dialettica in questa vicenda c’era, perché l’andare in giro insieme, andare in casa di qualcuno sono dei messaggi; ed è ben vero che lo sono. Di certo sono messaggi di interessamento e spesso questo ha contenuto sessuale più o meno latente. Ma possono esserci fraintendimenti nella lettura di tali messaggi, che, in particolare nella fase di avvicinamento, conoscenza, di interesse, di seduzione tra due persone, sono per loro natura molto ambigui: si trasmettono spesso il proprio affascinamento, la propria gioia di piacere all’altro, ma anche la propria paura, i propri dubbi sulla natura sessuale o meno della faccenda; e anche nel caso in cui uno sia sicuro dei propri desideri (cosa che comunque non può essere posta come obbligatoria, dato che uno ha anche il diritto di cercare se stesso), c’è sempre una parte di sé che va in senso opposte: poi, volta per volta, ciascuna sente, capisce, decide quel che è prevalente, se l’attrazione o la repulsione in rapporto a qualcun altro,

E’ quindi evidente che la lettura di simili messaggi è assai difficile: si fraintende spesso, per es. nel leggere un solo aspetto e nel non capire che non è l’unico né il prevalente oppure si legge il messaggio da un punto di vista erratoli più banale, molto diffuso, è il far conto su convenienze prefissate, tipo «se viene a casa mìa, o se mi invita a casa sua, è perché vuole fare l’amore con me »: come se esistesse solo il messaggio in sé e non il soggetto che lo emette; come se i messaggi avessero un valore fisso, e piuttosto che di messaggi si trattasse di simboli di un codice.

Un’altra fonte di accecamento nel leggere i messaggi che si ricevono è il vedere solo sé stessi: alcune persone sono così attente a sé, così innamorate di sé, che fanno fatica ad immaginarsi l’esistenza di un desiderio diverso dal loro; a forza di guardare se stessi, finiscono per riconoscere l’esistenza delle altre persone solo in quanto specchi che riflettono la loro immagine e che quindi non possono che avere desideri speculari e convergenti su di loro.

 

 

“Non ho violentato signorina”

Questa che segue è l’autodifesa che Saracino ha pronunciato in aula durante il processo. Non la pubblichiamo per mettere a confronto due tesi o per non togliere la parola a chi è accusato: sarebbe falsa obiettività. Oltrettutto, il confronto è in modo schiacciante in perdita per Saracino, quasi patetico nel suo linguaggio mescolato stranamente di espressioni burocratiche (cattedra, terminai il rapporto…) di satanismi (Dracula, Vampirella o addirittura D’Annunzio sono le sue fonti? è tutta un avvinghiare, mordere e prendere la sua testimonianza) con qualche debito verso Woody Alien (e la moda dell’americanismo) ma solo per il numero dei nescafé. É triste che un tale personaggio sia preso a simbolo della cultura del riflusso, della generazione del ’68 che avrebbe potuto e invece… L’autodifesa di Saracino vale quel che vale, si potrà forse leggerla in controluce più per quello che tace o sottintende che per quello che dice. La pubblichiamo non per un tentativo di ristabilire un polo dialettico (l’altro in questo caso il colpevole) ma solo per illuminarlo meglio questo “altro” pur nei limiti e le deformazioni che una situazione singolare — autodifesa in un processo in cui si è imputati — determina.

 

Io non ho violentato la signorina Ronconi. Le cose di cui sono accusato le ho sentite solo adesso, formalmente. La signorina Ronconi era una mia allieva della classe 5C. Era il primo anno che era una mia allieva, veniva da Roma. E’ una ragazza abbastanza diversa dalle sue compagne di classe, sia per l’atteggiamento verso gli altri con cui non aveva rapporti sia per l’atteggiamento verso la cattedra, cioè con me: e anche per prestanza, scioltezza, ecc. Il 23 gennaio facevo le ultime interrogazioni del primo quadrimestre… Vicinissima alla cattedra al primo banco stava la signorina Ronconi. Incrociando i suoi occhi, colsi un’occhiata lunga, profonda, inequivocabile (risate dal pubblico; viene ripetuto: « lunga, profonda, inequivocabile »). Ho abbassato gli occhi, perdendo anche il controllo della classe, forse arrossendo. Poi l’ho guardata io, fino a che lei non ha abbassato gli occhi… Il 6 febbraio, mercoledì,… terminata la lezione di geografia esco in corridoio e mi si fa incontro la signorina Ronconi: « Le porto i saluti di Bonelli e della Raffaella ». Ma queste sono persone con cui da tempo ho rotto qualsiasi rapporto e che assolutamente non mi salutano… Siamo usciti assieme dalla scuola… ho pensato di offrirle un passaggio, anche se io abito in centro e lei doveva andare verso viale Zara. Ci accordammo per un passaggio fino a piazza della Repubblica. Durante ìl tragitto facemmo normalmente conversazione, di cui ricordo alcuni elementi. Senza che io glielo avessi chiesto mi disse: « Sa professore, io prendo la pillola ». Poi mi disse che conviveva con un medico, che usciva la sera con Bonelli, insomma mi tracciò un quadro della sua emancipazione con alcuni elementi per esempio la storia della pillola che mi turbavano.

In via Vittor Pisani parcheggiai in terza fila perché avevo un impegno e per farle capire che… non… non volevo trovarmi in una situazione troppo chiusa. Non volevo che fermandomi, la situazione… non so, dopo quei discorsi sulla pillola… ma lei mi guardò negli occhi, io la guardai. Ci baciammo, più volte. Sulla bocca, in bocca, sul collo. La toccai mi toccò. Ad un certa punto, dopo circa 5 minuti, smettemmo di baciarci, lei aprì lo sportello, si alzò e se ne andò dandomi del lei: «Buongiorno professore! »…

Il 7 maggio… andai a scuola, feci lezione. Uscimmo insieme dalla classe, le dissi di aspettarmi e la invitai a mangiare in corso di Porta Vigenitina… Finito di fare colazione le dissi che sarei andato a casa per fumarmi un sigaro, lei mi seguì in auto. Salimmo a casa mi feci un^ sigaro, dopo un caffè decaffeinato, poi misi un pezzo di musica classica. Le offrii un sigaro, lei si schernì dicendo che erano troppo forti, ma poi le dissi che erano (e dice una marca di sigari, ndr) lei lo accettò. Misi un pezzo di musica, ballammo, ci baciammo… Devo andare avanti?

Lei si spogliò, io mi spogliai. Facemmo l’amore in maniera assolutamente travolgente (presidente: « Eravate in camera da letto? »). Lo facemmo in piedi, sul tappeto, sul divano, dappertutto, giocando anche. Ci sarebbero tanti altri particolari ma lasciamoli perdere. Alla fine ero coinvolto, eravamo sul tappeto, ci stavamo baciando. La stavo baciando sul collo, le guardavo la bocca, le chiesi la bocca. Ma lei mi disse: v< La mia bocca è di un altro ». Trovai questa cosa assolutamente volgare ed anche incomprensibile. Comunque le resi la cortesia per un breve momento e poi invece terminai il rapporto…

Il 28 maggio in classe erano pochissimi, lei c’era: Uscimmo assieme, facemmo colazione al Motta, poi andammo a casa mia. Il solito Nescafé, lei era seduta sul divano io la raggiunsi. Lei disse: « Professore io la penso sempre e quando la vedo mi viene la tachicardia ». Ed io: « Anch’io la penso sempre ma più che altro nuda ».

Lei si alzò in piedi fece un mezzo giro su se stessa mi guardò e disse: « Facciamo la lotta? ». Mi alzai, le andai incontro, ci avvinghiammo, ci rotolammo per terra. Poi mi alzai e mi spogliai. Spogliai lei, ci mettemmo a giocare in maniera travolgente. Andammo poi in stanza da letto, percorrendo il corridoio: lei per prima, io la raggiunsi. Sul letto lei, stando carponi, girò la testa verso di me: « Ti piace la preda? » al che le diedi una gran manata sulla natica destra e poi avemmo il rapporto. Le detti poi dei baci sul collo, la sua schiena contro il mio ventre, poi mi distesi e mi girai su un fianco. Era tardissimo, dovevo essere a scuola per le quindici… Dovevo scegliere, se restavo perdevo gli scrutini e quindi corsi via, sperando di tornare il più presto possibile. Invece feci tardi. Quando tornai trovai dei libri posati sul letto e c’era anche un biglietto con scritto: «Ecco a cosa serve la sua cultura».