in aula, compagno professore

novembre 1980

II 10 ottobre si è aperto a Milano il processo a carico di Giuseppe Saracino, detto Poppi, accusato di violenza carnale da una studentessa del II Istituto Tecnico per il Turismo. Eccone la cronaca.

 

Per l’ “intellighenzia” radical-chic di Milano si è trattato di un ghiotto avvenimento un po’ piccante e mondano e di un perfetto spunto per conversazioni, pettegolezzi e squallidi toto-sentenze. Per le donne è stato un processo forse più amaro di tanti altri analoghi, un’esperienza triste e lacerante come sempre e più di sempre. 1 fatti: ai primi dì giugno Simona R., una ragazza romana di 19 anni da pochi mesi a Milano, dove vive con il fidanzato medico, ultimo anno dell’Istituto per il Turismo, denuncia Giuseppe “Poppi” Saracino, suo professore di geografia, 33 anni, un passato di “leader” del “68 e un presente fatto di un impegno politico molto meno intenso e abbastanza confuso. Alle spalle, una fama di grande “scopatore”, ma anche di persona violenta, strafottente, un po’  megalomane.  La  denuncia-querela presentata da Simona parla di stupro e di lesioni su tutto il corpo. Simona prende subito contatto con l’UDI  per essere assistita da un avvocato e chiederà  poi  di  essere  appoggiata  dalla presenza  delle  donne  al processo. La stampa milanese sì scatena), il “giòco delle parti” è cominciato, Saracino è di nuovo un eroe, come ai tempi del processo Trimarchi. Un eroe positivo o negativo, a seconda dell’ottica da cui ci si pone. Poi c’è il mandato di cattura, la sua latitanza, il silenzio in attesa del processo, fissato per il 10 ottobre. Alcuni giorni prima, Saracino  (la cui “latitanza” si era svolta quasi sempre a Milano, non esitando a mostrarsi al Festival dell’Unità e altrove) annuncia la sua costituzione la mattina del processo. E così avviene: in un’aula gremita da centinaia di donne (molte altre devono accontentarsi di stare nell’atrio, controllate a vista dalla polizia), perlopiù studentesse del II Turismo, da avvocati (spesso reduci del ’68, ora “democratici e garantisti”, ma spudoratamente  partigiani  di  Saracino per solidarietà di maschi), da amici e amiche di Saracino (quasi tutti nomi altisonanti  della  borghesia milanese),  da giornalisti e fotografi che lo bersagliano per oltre mezz’ora di flash, Saracino, manette ai polsi, fa la sua comparsa nella gabbia degli imputati. Nonostante quanto scriveranno all’indomani i giornali, e quanto forse auspicato dalla difesa dell’imputato (due grossi nomi del foro milanese, Contestabile e Isolabella, quest’ultimo non certo in odore di democraticità e garantismo, se mai molto vicino all’ Arcivescovado)  per poterlo meglio vittimizzare, il suo ingresso in aula è accolto dal più totale silenzio. Il processo si apre con la richiesta di UDÌ, MLD e Collettivo Donne II Turismo di costituirsi parte civile, rappresentate dagli avvocati Bianca Guidetti Serra e Giulia Zambolo. La richiesta viene rapidamente respinta e si passa subito all’interrogatorio di “Poppi” Saracino: è la prima volta che dà la sua versione. Ha avuto 4 mesi di tempo per studiarsela e adeguarla, fin nei minimi particolari, al racconto di Simona. Ma Saracino sembra aver scelto una linea “suicida”: il tono gronda prosopopea, a tratti è anche maleducato e arrogante; il linguaggio sembra rivelare pessime letture, di romanzetti porno-rosa “fin-de-siècle” e degno più di un fumetto che di un professore di scuola media secondaria, con un passato di rivoluzionario: “La signorina R. mi lanciò uno sguardo lungo, profondo  e  inequivocabile… io  ebbi una sbandata, arrossii… »; « la signorina mi disse che prendeva la pillola e che viveva con il fidanzato… tracciò un quadro della sua emancipazione che mi turbò ». I particolari erotici si sprecano, sempre pronunciati con arroganza. Il professore dichiara di essersi fermato in terza fila per dieci minuti in una delle strade con più traffico a fare il “petting” con la “signorina R.” ma di non aver osato parcheggiare la macchina « per paura che si potesse creare una situazione imbarazzante ». Poi, a casa di lui, « l’amore fatto in modo travolgente, signor Presidente: sul tappeto, sulla moquette, sul divano, in piedi, sul letto ». Prima dell’accoppiamento, « una gran manata sulle natiche » (per giustificare le lesioni con l’impronta della mano rilevate alla visita medica). Il professore non tralascia gli approcci: « Lei mi disse “Professore la penso sempre e quando la penso mi viene la tachicardia”; io le risposi “Anch’io la penso signorina, per lo più nuda”; poi ci misimo (sic!) sul divano ». Il “lei” è di prammatica e il professore sembra non accorgersi del ridicolo di un “amore travolgente” vissuto e parlato dandosi del “lei”. D’altra parte deve pur giustificare il fatto che, dopo la violenza, Simona gli lascerà sul letto un mucchio di libri buttati lì con rabbia e un biglietto: « Ecco a che cosa serve la sua cultura ». Poi è la volta di Simona, tranquilla, serena, sommessa, l’opposto di lui. La sua deposizione conferma punto per punto la denuncia fatta ai primi di giugno, le “avances” del professore, sulle prime gentile e corretto, poi il caffè a casa sua, il tentativo di baciarla, il rifiuto di lei, la violenta reazione di Saracino e tutto quello che segue. In aula si sprecheranno le solite umilianti considerazioni sul collant e il vestito intatto (ma era stata Simona stessa a consegnarli spontaneamente al giudice istruttore), sul fatto che le lesioni erano “compatibili con un rapporto violento, ma consensuale”. Le si rimprovererà persino di avere resistito per un’ora, subito dopo però affermando che vi e violenza solo laddove vi è resistenza. Alle undici di sera la sentenza, attesa da un pubblico sorridente di amici di Saracino, convinti che il professore se la caverà con un’insufficienza di prove: ci sono grossi nomi dell’editoria, dello spettacolo, del mondo universitario, anche della moda. In una aula in cui nessuno sembra aver creduto, nel corso di quella massacrante giornata, alla verità di Simona, e meno che tutti i giudici, viene pronunciata la condanna di Saracino a quattro anni dì reclusione. Impassibile lui, stravolti gli avvocati, improvvisamente invisibili gli amici, stanca, distrutta e per niente trionfante Simona, che dirà più dardi: «sono solo contenta che sia stata fatta chiarezza; di essere stata creduta, il resto non mi interessa».

L’indomani i giornali si scatenano e sfornano l’immagine dell’eroe: Saracino è una vittima, la condanna è una condanna politica (Lotta Continua), le donne hanno fatto , pressioni sul tribunale, l’atmosfera era “isterica” in aula e fuori, le femministe hanno insultato Saracino, il povero Saracino è costretto « a dormire su una branda, in una cella di San Vittore » {Corriere della Sera), « nemmeno a un ladro vengono dati quattro anni » (sempre il Corriere, come se rubare fosse più grave che stuprare). Il fondo viene toccato dal cronista del Giorno, Benito Sicchiero, che definisce « anomalo » il processo Saracino per violenza carnale: « Non c’è stata l’azione vile del gruppo; non ci sono stati segni sulla vittima che non potessero essere attribuiti a un rapporto sessuale normale “violento”; non ci sono stati testimoni richiamati dalle urla; non ci sono stati abiti e biancheria intima strappati: vestito, collant, mutandine, sono stati sciorinati, intatti, in aula.- C’è stato invece un certificato medico stilato dai colleghi del fidanzato di Simonetta… E c’è stata l’ampia partecipazione dei movimenti femministi che hanno fatto di Simonetta un simbolo. E un clima che gli avvocati della difesa, nel difficile compito di proteggere il loro cliente, hanno definito di “isteria” ». E’ questo forse il pezzo più vergognoso e pieno di falsità che sia stato scritto su questa drammatica vicenda. All’indomani del processo, Saracino è diventato una vittima della “giustizia delle femministe” che, improvvisamente onnipotenti, sarebbero addirittura riuscite con la loro sola presenza a intimidire il tribunale tanto da far condannare un Saracino innocente. La pietà si spreca per il professore, costretto a stare in galera « come un delinquente comune » (sempre Benito Sicchiero sul Giorno). Ma nessuno sembra ricordarsi più del dramma di Simona, costretta per una giornata intera ad affrontare la curiosità morbosa e 1′ atmosfera ostile del tribunale, ad ascoltare le volgarità della deposizione di Saracino, a ripetere il racconto della violenza, continuamente sollecitata dal presidente (che più di una volta l’ha chiamata “imputata”, con un ‘lapsus freudiano” che certo non. può far pensare a connivenze con il movimento femminista) e dalla difesa di Saracino a parlare “a voce alta”. Nessuno sembra più capire l’inevitabile sofferenza che tutto questo le ha provocato e nessuno pare interrogarsi sul motivo per cui una donna giovane, bellissima, con una serena vita sentimentale e sessuale, avrebbe dovuto sconvolgere la sua vita e affrontare l’umiliazione di un processo inventandosi una violenza mai esistita. La dignità di Simona è stata calpestata due volte, la prima da chi l’ha stuprata, la seconda dalla stampa quasi unanime, a sinistra come a destra, nel distruggerne la credibilità.

La condanna di Saracino non è stata una condanna esemplare, né tantomeno politica, perché Saracino non rappresenta più nessuno, ormai, all’infuori di se stesso. Saracino, e chi si lamenta oggi della pesantezza della condanna dovrebbe tenerne conto, ha avuto il minimo della pena possibile. Gli sono state concesse le attenuanti prevalenti sulle aggravanti. Con i reati che si ritrovava, nessun giudice poteva condannarlo a meno di quattro anni. Comunque non li farà, perché sicuramente gli verrà concessa la libertà provvisoria.

Resta l’amarezza di un processo che ancora una volta, con i suoi strascichi, ha visto sconfitta la dignità della donna. E se la giustizia (come la bellissima requisitoria del PM. ha dimostrato) sembra volersi adeguare ai tempi mutati, la stampa ha dimostrato ancora una volta il suo enorme potere nel manipolare l’informazione e la verità, facendo un processo “a latere”, certo molto più crudele di quello celebrato dal tribunale.

Resta anche il fatto che, come hanno scritto all’indomani del processo il Collettivo Donna II Turismo, l’UDI e 1’MLD in un comunicato alla stampa, «il dover ricorrere a un processo per difendere la propria dignità e affermare il proprio diritto alla libertà sessuale è sempre un dramma per l’individuo e una sconfitta per tutta la società».