cinema: la donna soggetto

le donne nel cinema ci sono e vogliono restarci. Attraverso 158 film fatti da donne o sulle donne il primo tentativo di ricostruire una storia del cinema al femminile.

gennaio 1977

rinomata, la rassegna che si è svolta a Roma e a Milano dal 15 novembre al 18 dicembre, sembra aver colto di sorpresa la critica italiana. La rassegna ha dimostrato che la donna è sempre stata presente in modo attivo in un mondo, quello del cinema, tradizionalmente ritenuto maschile. I critici sono stati quindi costretti a scoprire l’esistenza di Alice Guy, per esempio, che fu la seconda persona al mondo a realizzare dei films: infatti il suo film Fée aux choux fu realizzato all’inizio del 1896, qualche settimana prima del debutto di Georges Méliès, da sempre considerato come il vero creatore dello spettacolo cinematografico. Sono stati costretti a scoprire la presenza significativa delle donne all’interno della varie «avanguardie». Per esempio Germanie Dulac, francese, che gira il suo primo film (Ames de fous) nel 1917 e che fu la prima voce contro la produzione di film commerciali e la prima a denunciare nel suo film La souriante madame Beudet (del 1922) — che è stato presentato alla rassegna — la condizione di una donna costretta in un matrimonio con un uomo disgustoso e opprimente, dalle convinzioni di un ambiente piccolo-borghese e provinciale, Per esempio Maya Deren, di cui è stato presentato il film Meshes in the afternoon (del 1943), una delle principali animatrici, teoriche e organizzatrici dell’avanguardia americana degli anni ’40; fondatrice nel ’54 della Creative Film Foundation, che aveva lo scopo di sovvenzionare il cinema indipendente.
Dobbiamo d’altronde dire che di molte delle critiche che abbiamo letto, avremmo fatto volentieri a meno, per la superficialità, la malafede, la sciatteria e l’ostentata ignoranza. Ci viene il sospetto — e quindi la rabbia — che i «Nostri» si siano concessi una — come dire? •— vacanza di impegno, per il semplice fatto che la rassegna è stata organizzata da due donne, poco conosciute e senza un apparato industriale alle spalle. È questo atteggiamento della critica che vogliamo sottolineare, non fare sfoggio di «cultura» a nostra volta. Vediamo un po’.
L’Unità, 26 novembre ’76: il signor David Grieco, tanto per cominciare, traduce tranquillamente il titolo di uno dei più importanti film presentati, Legacy (Eredità) di Karen Arthur, con «Legata». Prosegue introducendo il sospetto che in realtà Karen Arthur sia riuscita a. fare bene questo film solo per l’aiuto del direttore di fotografia, John Bailey («un fedelissimo di Altman, non a caso»).
A suo avviso inoltre questo film e quello della norvegese Anja Breien, Wives (Mogli), non sono stati pensati come prodotti autonomi, ma in risposta al cinema maschile. Infatti non manca di trovare dei «doppi» nel cinema serio; per Legacy il corrispettivo sarebbe Images di Altman, per Wives, L’ultima corvée di Ashby. In realtà le cose stanno diversamente. Legacy è in un certo senso il tour de force di due donne: Karen Arthur che organizza, finanzia attraverso sorgenti private, produce e dirige il film e Joan Hotchkins che per quattro anni si isola per ideare la sceneggiatura e creare la parte di Byssie, un’americana dell’alta borghesia di cui viene descritta una giornata-tipo e tutto il vuoto, l’isolamento, la nevrosi, il razzismo, l’insoddisfazione sessuale, che compongono la sua vita di donna.
Wives racconta la storia di tre compagne di scuola che, soffocate dalle restrizioni imposte dai rapporti familiari, decidono di rimanere insieme e di abbandonare per un po’ mariti e figli, per inventarsi un modo nuovo di stare insieme fra donne. Le tre giocano per le strade, discutono, scherzano, vivono insieme, scoprono una nuova dimensione. Non ha nulla a che vedere, quin di, con la storia di due carcerieri e un carcerato (come nell’Ultima corvée), che scoprono in bagordi tutti maschili una solidarietà che saranno costretti a negare.
Corriere della Sera, 6 dicembre ’76: per l’autorevole giornale milanese la rassegna è stata poco più di un avvenimento folcloristico. Ne ha affidato il commento a Lietta Tornabuoni, nota per i suoi pezzi di costume sul femminismo, e totalmente a digiuno anche di cinema. La nostra amica definisce la rassegna «una preziosa kermesse culturale». Dopo un rapido (e superficiale) resoconto dei dibattiti, si lancia in un altrettanto rapido (e superficiale) resoconto dei film che l’hanno maggiormente colpita.
Ad esempio sembra non aver gradito il film Daguerrotype, di Agnès Varda, significativa rappresentante del cinema francese degli ultimi anni. Il film è una carrellata di tipi umani che vivono nella Rue Daguerre, dove la Varda abita da molti anni, e documento della Parigi popolare. Il film viene da lei definito pieno di «insopportabili lirismi», termini che oltre a non spiegare nulla del film, sono in sé formulette para-intellettuali, paravento del vuoto. Giovanna Gagliardo, su Rinascita del 3 dicembre a proposito della Varda dice: «talento, tecnica e impegno si uniscono, dando una prova lampante di cosa significhi fare cinema, essere donna, porsi il problema della condizione femminile e disporre dell’intelligenza e della capacità creativa per saper esprimere tutto questo». L’Espresso, nn. 50 e 51: Alberto Moravia dedica due articoli a ben tre film della rassegna: Je, tu, il, elle e Jeanne Dielmann, 23 quai du commerce, 1080 Bruxelles della regista belga Chantal Ackermann e Legacy.
Bisogna riconoscere che il Nostro ama le donne.
Le ama a tal punto da augurarsi che una volta esaurite le rivendicazioni e le polemiche delle femministe, si giunga a scoprire che esiste una «natura femminile» al di là dei condizionamenti storici, sociali, culturali, al di là del bene e del male. Moravia trova contradditoria l’affermazione e la rivendicazione di una «sensibilità femminile»: «la sensibilità femminile, almeno secondo le femministe, sarebbe un prodotto storico dovuto all’emarginazione secolare della donna. Una volta integrata nella società, la donna ovviamente perderebbe questa sua particolare sensibilità prodotta dall’emarginazione e fatta soprattutto di natura intatta e ribelle». È a questo punto che si augura una natura femminile naturalmente diversa.
L’errore logico — e di disinformazione — sta nel termine integrazione. È vero. che tutto ciò che è «femminile» dipende in gran parte dall’emarginazione, cioè dall’essere non-valore, ma «le femministe» (cioè noi) non lottano per l’integrazione in un complesso di valori maschili, ma piuttosto per l’ampliamento di questa scala di valori, in cui trovi posto anche la sensibilità, — maschile o femminile che sia —. In parole povere essere femministe non significa voler diventare uomini, come sembra credere Moravia quando afferma che «la donna attraverso la sua integrazione nella società scoprirebbe di essere un uomo».
Come se non fosse già abbastanza limitativo il suo concetto di sensibilità femminile, limita la «visione femminile» all’assenza di «pregiudizi maschili». L’affermazione, oltre ad essere generica, ci risulta oscura, perché non ci spiega in cosa consistono questi pregiudizi. Nel fare la recensione del film di Chantal Ackermann Je, tu, il, elle, che attraverso l’uso del tempo reale e delle inquadrature fisse, mezzi propri del cinema underground, ci trasmette l’angoscia della ripetitività, la difficoltà di avere un rapporto paritario con un uomo e la complessità di un rapporto omosessuale, individua la capacità dell’autrice di superare questi pregiudizi maschili (?) solo per aver mostrato una scena di amore fra donne senza morbosità.
Così facendo, Moravia dimentica completamente il resto del film, insistendo «morbosamente» — e non a caso — solo su questa parte del film che rappresenta meno di un terzo di tutta l’opera. Questa e solo questa è per lui una realtà «strettamente femminile» (sic).
Ci sembra che il Nostro per giudicare la visione femminile di una regista si basi non tanto sul modo in cui usa la cinepresa, quanto sui temi che affronta. Che è come dire che una donna è veramente femminile quando culla un bambino, e non quando pulisce un pavimento.
D’altra parte, identifica il cinema femminista esclusivamente con il cinema di denuncia «Mentre il film della Ackerman ci fa vedere qualche cosa (l’amore lesbico) con occhi e sensibilità femminili, e dunque può essere definito un film femminile; il film della Arthur è invece un film femminista, perché denunzia l’alienazione della donna nella società americana… I due film ci coinvolgono in due maniere diverse, il primo per il suo modo di sensibilità, il secondo per la sua polemica». A questo punto ci complimentiamo con Moravia per aver così brillantemente risolto il problema di quale sia la differenza fra cinema femminile e cinema femminista e di che cosa sia sensibilità femminile.
Noi, invece, che abbiamo seguito tutti i dibattiti che si sono svolti a Palazzo Taverna, a Roma, dal 19 al 23 novembre, non osiamo contrapporre altre definizioni. E con noi, tutte le altre donne (registe, produttrici, spettatrici) non se la sono sentita di chiudere in etichette definitive le tematiche di un dibattito che è appena ai suoi inizi. A Palazzo Taverna abbiamo discusso della realtà della donna nel mondo della produzione cinematografica; ci siamo poste il problema se inserirci nelle strutture esistenti o piuttosto creare un circuito alternativo; abbiamo cercato di capire perché ancora le donne hanno paura della tecnica; ci siamo chieste se basta essere un collettivo di sole donne per fare un film femminista o non occorre invece ridiscutere e reinventare il linguaggio stesso delle immagini. Volevamo capire perché le donne non vanno al cinema da sole e  spesso  delegano  la  scelta  del film al compagno. Volevamo capire come tutte noi introiettiamo i modelli che il cinema ci propone; se è possibile inventare una nuova critica cinematografica che ci permetta di scoprire il nostro inconscio (più o meno collettivo), e di ricostruire la nostra storia di donne. In questo clima, in cui abbiamo cercato di mettere in comune le nostre esperienze per crescere insieme e in cui non pretenedevamo di sfornare un nuovo Vangelo, ci sarebbe piaciuto confrontarci con Moravia, ma non c’era. D’altra parte, evidentemente, non partecipare ai dibattiti ha una sua utilità: non si corre il rischio di essere smentiti. A noi i dibattiti e i film che abbiamo visto hanno fatto venire in mente che il problema di fare cinema come donne è una faccenda complessa. Non si esaurisce nell’affrontare un tema piuttosto che un altro, nel parlare esclusivamente di donne o di sfruttamento della donna, non è solo un problema di contenuti. Se è vero che il cinema si fa con le immagini, dobbiamo cercare di scoprire modi nuovi di guardare le cose, tutte le cose ,modi nuovi che ci appartengano fino in fondo. E siccome non è automatico essere donne e saperlo esprimere per immagini, ma occorre invece un lungo lavoro di studio, di confronto, di pratica e di discussione per tirar fuori la nostra creatività anche con la cinepresa, preferiamo lasciare a Moravia e ai suoi amici la soddisfazione di aver capito tutto.