alle armi, alle armi!

La rimessa in discussione degli equilibri politici ed economici internazionali e io sviluppo incontrollato e gigantesco della tecnologia hanno dato vita a una eclatante fase di riarmamento generalizzato. Ecco una prima analisi del problema, suffragata da alcuni dati. Tutta aperta rimane la questione de! ruolo che possono svolgere le donne per una politica di pace nel mondo. Con questo contributo apriamo la discussione.

luglio 1980

Nel maggio 1977, pochi mesi dopo la sua elezione a presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter dichiarava: “Per troppi anni abbiamo adottato le tattiche dell’avversario dimenticando che diversi sono i nostri valori; per troppi anni abbiamo combattuto il fuoco con altro fuoco, senza pensare che il fuoco si combatte meglio con l’acqua”.
Tre anni dopo ascoltiamo lo stesso Carter pronunciarsi così in un messaggio alla nazione; “Siamo pronti a pagare qualsiasi prezzo pur di rimanere la più forte nazione del mondo; ogni attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti verrà respinto con tutti gli strumenti necessaria compresa la forza militare”. Nei tre anni in questione non è cambiato solo l’atteggiamento o il pensiero dell’uomo Carter, è cambiato anche il quadro politico internazionale nel suo insieme, sono mutati i rapporti di forza tra le varie aree del globo, è peggiorata la distensione est-ovest, non è migliorato il dialogo nord-sud, sono aumentati i conflitti guerreggiati nel terzo mondo e così via. Potremmo continuare ancora per molto ad elencare tutti i problemi che stanno sul tavolo dell’odierna crisi internazionale. E’ certo che negli ultimi anni una crescente diffusa insicurezza e sfiducia reciproca ha mutato profondamente quella relativa stabilità che, dopo il secondo conflitto mondiale, si era faticosamente raggiunta agli inizi degli anni ’70. Sul piano est-ovest la distensione, intesa come un tentativo di trovare un accomodamento, un modus vivendi alla continua rivalità dei due blocchi politici-militari-economici contendenti, è entrata in una nuova e difficile fase che vede le due potenze leaders — Stati Uniti e Unione Sovietica — afflitte da una pesante incomunicabilità; impegnate in una pericolosa corsa al riarmo difficile da controllare; protese ad assicurare sicure fonti di energia e di materie prime anche al rischio di internazionalizzare l’instabilità di una regione (ad es. Golfo Persico).
Che la sicurezza del mondo industrializzato non potesse più essere definita esclusivamente in termini di conflittualità est-ovest lo avevamo già capito fin dalla crisi energetica del 1973, ma l’affacciarsi sulla scena internazionale dell’interlocutore meridionale, magari ricco di materie prime ma comunque bisognoso di aiuti allo sviluppo, anziché spingere il nord industrializzato alla cooperazione ha provocato un’accresciuta competizione tra i paesi industriali nei rapporti con quelli non industrializzati. Ed anche quando nel terzo mondo l’interlocutore meridionale non è unico ma diviso da grosse rivalità tribali, religiose, ideologiche o egemoniche, in un mondo talmente interdipendente anche questi conflitti interni intaccano gli interessi delle potenze esterne del nord sviluppato, facendo entrare in gioco rivalità e competizione di nuovo est-ovest.
E in tutto questo intrecciarsi di dinamiche e conflittualità abbiamo notato negli ultimi anni una maggiore volontà e disponibilità ad usare Io strumento militare nella ricerca dei propri interessi. La storia ha dimostrato che per influire o promuovere la stabilità nel terzo mondo sono favorite quelle potenze che hanno a disposizione altri strumenti oltre alla forza militare. Malgrado ciò abbiamo visto fare ricorso sempre più spesso all’uso delle armi. Il fare affidamento dell’URSS sulla propria forza militare (come in Afghanistan) non ha certo dimostrato l’utilità di questa, piuttosto la mancanza di strumenti alternativi di questo Stato per esercitare la sua influenza. Anche nelle situazioni in cui era chiaro che la scelta di usare Io strumento militare avrebbe prodotto più rischi che vantaggi (intervento militare in Iran) la forza militare è stata scelta per tentare di rassicurare gli alleati o l’opposizione interna. Al contrario, il successo diplomatico ottenuto in Rhodesia, che ha radicalmente evitato la possibilità di intervento militare esterno in quel conflitto, ha dimostrato che la via del negoziato — meglio del più credibile spiegamento di forze — potrebbe permettere di raggiungere ad esempio un compromesso soddisfacente per tutti sulla questione palestinese, la stabilità del medioriente, quella del Golfo Persico e così via.
Parallelamente, in tutti questi anni, gli apparati militari industriali, che comprendono non solo gli eserciti ma ancor di più le industrie belliche, sono cresciuti e si sono diffusi quasi ovunque. La crescente insicurezza, i balzi in avanti incontrollati e giganteschi compiuti dalla tecnologia, il blocco delle trattative sul controllò degli armamenti hanno dato vita ad una eclatante fase di riarmo generalizzato, ad una dilatazione della corsa agli armamenti sia in senso verticale (categoria di armi) sia in senso orizzontale {aree geografiche), sia nel campo degli armamenti convenzionali che nucleari. Le spese militari mondiali si sono più che quadruplicate dalla fine della seconda guerra mondiale in poi: oggi ammontano a circa 500 miliardi di dollari, pari al 6 per cento della spesa mondiale globale.
Dopo un quinquennio di stasi (dal 1968 al 1973) le spese militari mondiali stanno aumentando di nuovo al ritmo di circa 1 per cento all’anno. Le spese americane hanno ripreso a crescere nel 1977 dopo un periodo di continua flessione iniziato nel 1969 e coincidente con il graduale disimpegno dal Vietnam e, dopo la flessione del 1978, si prevede aumentino ancora. Le spese dei paesi europei della NATO sono in aumento da sempre, in particolare dopo il 1970 l’incremento medio annuo è del 3 per cento. Sono in aumento anche le spese militari del Patto di Varsavia anche se, in mancanza di cifre ufficiali, le stime occidentali divergono sull’entità dell’aumento. Sono spaventosamente aumentale le spese militari in Medioriente e in Africa e. in generale non c’è zona del terzo mondo dove le spese militari non siano in crescita, anche se a ritmi meno folli.
Le vendite di armi sono aumentate ancor più vertiginosamente. Secondo i dati del SIPRI (Stockolm International Peace Research Institute) il totale delle armi esportate è stato l’anno scorso del 500 per cento più alto rispetto al 1969 e 1200 per cento rispetto al 1959. Due terzi di questi armamenti vengono e-sportati dai paesi industrializzati a quelli del terzo mondo. Ogni anno si producono mediamente circa 120 miliardi di dollari di armi e le loro esportazioni costituiscono il 17 per cento del commercio mondiale. Aumenta rapidamente anche il numero di paesi dotati dì una consistente industria bellica, in grado di produrre i maggiori sistemi d’arma (aerei, carri armati, missili e navi); oggi sono 56 e di questi 24 sono paesi del terzo mondo.
Questo è il quadro reale in cui si discute oggi di pace. Possiamo discutere sui dati; possiamo discutere sulle valutazioni che a questi dati vogliamo dare; possiamo vedere quali sono le motivazioni che portano al riarmo e alla corsa agli armamenti; possiamo discutere anche sul come cercare di incidere contro queste tendenze; addirittura considerare se allearci o meno e con chi in questa lotta per la pace. Ma prima di tutto dobbiamo dire un no. Non solo perché siamo genericamente favorevoli alla pace e al disarmo, come tanti, ma in quanto donne che lottano per la loro liberazione, per un modello di società in cui non c’è spazio per a logica che vede l’uso dello strumento militare negli inevitabili rapporti di forza che si creano a tutti i livelli della società civile (dai rapporti interpersonali ai rapporti internazionali tra Stati). Non ci interessa ridurre il nemico all’impotenza, né costringere con la forza l’avversario alla nostra volontà, perché potremmo definirla in centomila altri modi ma questa sempre guerra è. Mi sembra che la storia del ‘movimento delle donne di tutti questi anni abbia dimostrato di saper trovare tanti e tali strumenti per far politica da poterci permettere il gusto di rifiutare l’uso dello strumento militare, la legge della giungla che è tanto spesso usata quando sì ha l’impressione di non avere altri strumenti politici e più civili a disposizione.