andare a Copenhagen

settembre 1980

Alla prima riunione, al Ministero degli Esteri, fornirono un po’ di materiale: la “Convenzione contro tutte le discriminazioni”, la Dichiarazione e una parte del Piano mondiale votati a Città del Messico, la Convenzione sui diritti politici delle donne (chissà perché solo quella?), l’Agenda dei lavori della Conferenza di Copenhagen.
Dopo di che, non si sa se per noncuranza, incompetenza, supponenza maschile, o piuttosto per un calcolo ben preciso — quello di formare una delegazione addomesticata che magari se ne andasse a fare shopping o turismo lasciando gestire ai funzionari del Ministero nel modo più indolore e servile, una conferenza da far dimenticare al più presto — piuttosto che ad illustrare gli scopi di questa grande assise internazionale si badò a sottolineare i limiti della partecipazione italiana.
Alla seconda riunione distribuirono poche copie ed incomplete del Programma d’azione. La dott.ssa Cao Pinna disse che lo scopo della conferenza era l’esame e l’approvazione di quel programma, ma invece furono messi in piedi tre gruppi per redigere un documento sui tre temi: del lavoro, della sanità e dell’istruzione (1).
Quando poi, nella riunione del 7 luglio si seppe finalmente come sarebbe stata composta la delegazione governativa italiana — una donna per ciascun partito politico, e per ciascun sindacato e per le Aci, una per ogni grande associazione femminile e femminista {UDÌ, CIF, MLD, CNDI) — fu preannunciato un ultimo incontro fra le delegate, che però poi non si tenne.
Sicché neanche un giorno è stato dedicato alla lettura del Programma d’azione, a preparare gli emendamenti da proporre, a discutere collettivamente le decisioni sui temi più scottanti. Neppure un’ora a riflettere sugli argomenti che sarebbero stati trattati — come era scritto sull’Agenda — nei giorni 22, 23 e 24 luglio: l’apartheid, e l’assistenza alle donne palestinesi.
Questo spiega ma non giustifica le litanie di alcune componenti là delegazione, che hanno continuato a ripetere che la Conferenza era politicizzata, che non si poteva intervenire, che invece di parlare di “donne” si parlava delle donne dell’Africa Australe — donne che vivono chiuse nei bantoustans, specie di riserve dove lavorano la terra senza remunerazione in condizione di schiavitù per mantenere se stesse e i figli, sempre sole, lontane dai loro mariti, perché solo gli uomini nei Paesi dell’ apartheid possono, anche se sottopagati, lavorare in città (2), — o delle “rifugiate” cioè delle donne che sono dovute uscire dai loro Paesi per ragioni politiche e sono soggette a violenza, sfruttamento, prostituzione coatta, sterilizzazione forzata.
Questo spiega ma non giustifica il malcontento e il velleitarismo di certe componenti la delegazione che si fossero letta l’Agenda, che anche se non ampiamente illustrata era stata comunque fornita, <e magari il n. 5-6, maggio-giugno 80 di Effe) avrebbero tenuto conto del fatto che i lavori della “Conferenza mondiale dell’ ONU” consistevano nell’esaminare, discutere, emendare ed approvare in due sedute quotidiane dal 14 al 30 luglio, i 216 articoli del Programma d’azione perché l’obiettivo della Conferenza di Copenhagen era quello dì valutare a 5 anni da Città del Messico i progressi compiuti e gli ostacoli incontrati e di esaminare perché in molti Paesi ai progressi in campo legislativo non sono seguiti progressi reali e addirittura in certi casi ci sono stati peggioramenti nella condizione di vita delle donne sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, e nel mettere a punto strategie nazionali e internazionali per i prossimi cinque anni.
Fra dì noi, in effetti, ci sono quelle che credono — come io credo — che le delegazioni, anche alle conferenze degli Stati, devono essere formate dal maggior numero possibile di donne e di femministe, che devono essere donne e non esperti/e, a discutere questi temi, che un sempre crescente numero di donne deve entrare a far parte degli organismi nazionali e internazionali in cui si programma e si decide “a favore delle donne” per farvi penetrare la cultura e il punto di vista delle donne.
Ma ci sono altre che invece ritengono che tutto ciò, non è da “femministe”. Può darsi. Il manuale della perfetta femminista non è stato ancora scritto.
Il problema era perciò quello di conoscere per scegliere se accettare o non di far parte della delegazione governativa.
Come leggendo il programma di un convegno, (o per esempio di un concerto o di un viaggio organizzato), si decide di partecipare o non partecipare sulla base dell’adesione agli scopi, del gradimento del programma, così anche a questo Convegno mondiale si doveva andare in base ad una scelta consapevole.
E quindi con intenti adeguati.
Perché una cosa è ripromettersi di battersi per far passare contenuti nuovi, legati alle analisi che il Movimento ha portato avanti in questi anni, o lottare contro funzionari degli Esteri, inspiegabilmente riluttanti, per ottenere che il Governo italiano firmasse la Convenzione contro tutte le discriminazioni, o fare — come Maria Magnani Noja ha fatto a nome dell’Italia — un discorso nel!’ assemblea plenaria completamente diverso dagli sproloqui trionfalistici degli altri Paesi. Altro è lamentare sterilmente che quella non era una conferenza di donne, che non si poteva parlare liberamente.
Infatti non era una conferenza di donne ma la Conferenza mondiale del decennio delle Nazioni Unite per le Donne. La conferenza parallela (o Forum, o Tribuna Libera), si svolgeva all’Università di Copenhagen. Lì la ricerca, l’analisi, il confronto fra le donne di tutto il mondo si svolgeva ricco ed interessante. Lì, ogni minuto libero, le delegate alla Conferenza ufficiale andavano a raggiungere le altre, a respirarne la atmosfera.

  1. Il lavoro di questi gruppi però non è andato perduto. Lottando per giorni contro, gli ostacoli e l’indifferenza dei funzionari della Farnesina le componenti la delegazione sono riuscite ad ottenere che il documento fosse tradotto e presentato. E’ stato così pubblicato a cura del Segretariato della Conferenza e inserito tra i Rapporti, rimediando in parte al fatto che l’Italia non avendo risposto al questionario (vedi Effe n. 5/6) non figurava nei documenti forniti dall’ONU nei quali invece erano presenti le risposte di piccoli Paesi del Terzo Mondo.
  2. Il documento fornito dall’ONU su questo argomento è tragico e affascinante. Come tutti gli altri è a disposizione delle lettrici nella Biblioteca di Effe.