l’aspirante inquilina

marzo 1974

La gente che mi conosce la prende ormai per una barzelletta: «Che cosa fai?» mi chiede, incontrandomi per strada: «Cerco casa», rispondo io; e loro scoppiano a ridere. Spesso rido anche io, perché mi rendo conto benissimo del lato comico della faccenda: cerco casa da anni, e non l’ho ancora trovata. E per di più la cerco a Roma, dove, a giudicare dalle inserzioni sui giornali, l’offerta è praticamente illimitata, dove davvero si può trovare casa in un batter d’occhio. Se non scoppiano a ridere, i miei conoscenti mi guardano perplessi; e io capisco anche questo, effettivamente il mio cercare casa può produrre solo due tipi di reazione: mettersi a ridere, come di fronte ad una barzelletta; oppure questo, sospettare che io cerchi casa senza volerla in realtà trovare, qualcosa, cioè, che riguarderebbe uno psicanalista più che il mercato immobiliare. In realtà, le cose non sono così semplici. Il fatto è che io sono una donna sola.
Il giovedì e la domenica, leggo le inserzioni sui giornali, e vado a vedere appartamenti. Il padrone, o la padrona, dell’appartamento sono sulla soglia, e prendono ad accompagnarmi per la casa, dicendo «questo è il bagno» nel bagno, «questa è la cucina» nella cucina, «questa è la camera» nella camera. E mentre io mi guardo intorno, chiedo, con voci impersonalmente cortesi: «A chi serve?». «A me», io rispondo, guardando in giro. Sento che i loro ocelli sì socchiudono lievemente. «Per quante persone?» chiedono, e le loro voci sono impersonalmente fredde. «Per me sola», rispondo. Li sento irrigidirsi. Aggiungo subito: «Spero che ci sia posto per tutti i miei libri». Nei miei ingenui calcoli, questo dovrebbe incuriosirli. Ma i padroni di una casa sono al di là di ogni curiosità per dei libri: guardano me, da capo a piedi. Nel mio lavoro sono abituata ad essere giudicata soltanto in base al lavoro che ho fatto, se è fatto bene o se è fatto male; ma un padrone di una casa, invece, mi giudica così, guardandomi da capo a piedi. A disagio, devo accettare l’esame, fingendo indifferenza. E’ probabile che all’epoca degli schiavi la gente che comprava uno schiavo lo guardava così, da capo a piedi. I padroni di casa mi guardano dunque così, e dopo un attimo riaprono bocca. «Lei, di dove è?» mi chiedono. La domanda, la prima volta, mi coglie di sorpresa. «Sono meridionale», rispondo, sconcertata; poi, subito, aggiungo: «Ma vivo e lavoro a Roma da parecchi anni». Una delle due risposte, calcolo fra di me, andrà bene. Invece pare che non vadano bene nessuna delle due, perché i loro occhi si restringono ancora di più, attenti: «E la sua famiglia?» chiedono: «dove vive?». C’è, in tutto questo, qualcosa che sta fra la premura, la curiosità, e il terzo grado. Ma è lecito a dei padroni di una casa fare domande, perché hanno il diritto di sapere «chi si mettono in casa»; e chi aspira ad essere inquilino risponde, come anticamente uno schiavo apriva mansueto la’ bocca perché gli guardassero i denti. Così io rispondo, e, naturalmente, rispondo con onestà. Apriti cielo. Forse se i miei genitori fossero in manicomio, in un lebbrdsaio, o in prigione, i padroni dell’appartamento avrebbero nei miei confronti un moto di pietà, o di comprensione; e, in ogni caso, se avessero un moto di perplessità, sarebbero forse anche giustificati. In vece i miei genitori non abitano in nessuno di que sti posti; semplicemente, abitano anche loro a Roma Gli occhi dei padroni dell’appartamento si restringo no a due fessure; poi riacquistano le dimensioni normali, e si voltano a guardare l’appartamento di cui sono padroni. Per un attimo io penso che forse ho segnato un punto a mio favore: ho offerto una garanzia in più, la garanzia che dietro di me, nella stessa città, ho una famiglia; e che mio padre, persona responsabile e rispettabile per definizione di padre, potrà impegnarsi a pagare il mio fitto, se non dovessi pagarlo io.
Ma i padroni di una casa sono superiori al denaro. Quando si afferma che tutti i padroni sono esseri privi di scrupoli, capaci di pensare soltanto al proprio guadagno, bisogna fare eccezione per i padroni di una casa. I padroni di una casa sono persone che mettono dei principi ideali davanti ai propri interessi. La loro funzione, nella società, non è una funzione commerciale; la loro funzione è una funzione moralizzatrice. Non accettano come inquilina una donna che ha padre e madre nella stessa città in cui cerca casa, una donna che, invece di vivere con i propri genitori, vuole vivere per conto suo, «da sola». E’ ovvio, infatti, che una donna che desidera vivere sola non può desiderarlo che per due ragioni: perché ha una «relazione», o perché è una puttana. Oppure, anche, per tutte e due le ragioni. I padroni dell’appartamento si voltano dunque in giro, e dicono, freddamente: «Veramente, preferiremmo una famiglia». Difficile spiegare ai miei conoscenti che ridono che una donna sola si imbatte sempre in padroni di casa che «preferirebbero una famiglia». In principio, io sorridevo, per far finta di niente, e rispondevo: «Capisco, ma io sono sola»; e fornivo spiegazioni sul mio lavoro, sul mio tipo di vita, sul fatto che mi piace abitare da sola; facevo insieme la parte dello schiavo e dell’imbonitore, dovevo invogliarli a comprarmi; i padroni di casa mi ascoltavano, e poi dicevano, più o meno strizzandomi l’occhio: «Via, il fidanzato ce l’ha, no?». A nessuno dei miei amici maschi che hanno preso casa per conto proprio, nonostante che in Italia anche un uomo debba vivere con suo padre e sua madre fino a che non si sposa e va a vivere con la moglie a nessuno dei miei amici maschi che hanno preso casa per conto proprio un padrone di casa ha chiesto, così, «Via, la fidanzata ce l’ha, no?». Difficile far rendere conto anche di questo ai miei conoscenti che ridono.
Tuttavia ad un padrone di casa non si può rispondere male, se no ci si gioca completamente la possibilità che ti dia in fitto la «sua» casa. Non rispondo, dunque; dico soltanto «lo voglio una casa per abitarci da sola». I padroni di casa mi guardano per un momento, e poi prendono una espressione dì rincrescimento.
«Ecco, noi proprio preferiremmo una famiglia», dicono.
A lungo andare, ho imparato a ribattere chiedendo «Perché?». Mi sento rispondere che «una famiglia dà maggiori garanzie» (sì, naturalmente, sono d’accordo, ci sono anche famiglie disoneste; ma, questo, proprio ad essere sfortunati), che «si sentono più sicuri se a firmare un contratto è un uomo» (sì, naturalmente, sono d’accordo, ci sono anche uomini mascalzoni, e i rapinatori sono sempre uomini, e così quelli che gettano bombe e fanno attentati… ma, questo, proprio ad essere sfortunati) e che «ma no, che c’entra, non intendevamo affatto dire che, con una donna, si è invece sfortunati senz’altro… era un discorso così, accademico». Difficile spiegare ai miei conoscenti che ridono che una donna sola trova sempre dei padroni di casa che fanno discorsi accademici. Dopo una breve pausa, aggiungono che «in effetti, al momento sono ‘ in parola ‘ con qualcun altro».
Alla fine ho capito che trovare casa non era questione né di tenacia né di fortuna, come credevo; ma di astuzia. Al nuovo tentativo, dico al padrone dell’appartamento che la mia famiglia non abita a Roma. E’, suppongo, ineccepibile che una donna che lavora a Roma mentre la sua famiglia abita ben lontano da Roma abiti da sola a Roma, e cerchi casa, da sola, a Roma. Ci saranno certo innumerevoli donne che vengono dalla provincia e vivono sole a Roma, il padrone di casa non troverà nulla da obiettare. Il padrone di casa, infatti, non obietta nulla, è molto gentile. Dice perfino che, capisce benissimo, la vita, per una ragazza sola, è dura. Se mi può dare un consiglio, come un padre, è di riflettere bene sull’idea di vivere lontano dalla mia famiglia. Rispondo che ormai sono alcuni anni che vivo per conto mio, ho avuto ben modo di verificare la cosa. Dice che io non conosco Roma, è una città enorme e violenta, la vita, per una donna sola, è pericolosa. Rispondo che, santo cielo, Roma non è una giungla, e che comunque i pericoli esistono soltanto per chi se li cerca. Dice che queste sono proprio le idee ingenue di una bambina che non conosce la realtà. Sfuggo al tranello di ribattere che «non sono un’ingenua», e dico che vivo a Roma da vari anni, e che ho incontrato soltanto persone gentili. Dice che allora sono stata ben fortunata, ma che ritiene suo dovere ripetermi il suo consiglio, come un padre. Lo ringrazio ma, dico, mio padre mi permette di vivere da sola, e comunque sono una donna di trent’anni, e non una ragazzina di quindici. Dice che non sta certo a lui di criticare mio padre, ma che il posto della Gonna è in casa con i suoi — o con un marito; e come mai non sono sposata? Dico, sorridendo per non rispondere male, che per sposarsi occorre trovare l’uomo giusto, e non si trova tanto facilmente. Dice che, al contrario, gli uomini giusti si trovano, ci sono; sono le donne, che hanno grilli per la testa; le cose andrebbero ben diversamente, se se ne stessero in casa. Rispondo, con molto autocontrollo, scherzosamente, che infatti cerco appunto una casa, in cui stare. Il padrone di casa sorride a sua volta, e dice che per il momento è «in parola» con qualcuno, ma che mi farà sapere. Non mi «fa sapere», naturalmente, nulla. E, in effetti, non lo posso biasimare. Neanche mio padre ha ancora capito per quale ragione io voglia vivere da sola e cavarmela per conto mio; non posso aspettarmi che lo capisca un padrone di casa.
Ho deciso di dare battaglia. I padroni di casa volevano una famiglia? e avrebbero avuto una famiglia. Al nuovo tentativo, mi infilo all’anulare una fede, e dico che la casa è per me e mio marito. Il padrone di casa dice che allora vuole trattare con mio marito. Dico che mio marito è fuori per ragioni di lavoro. Dice che può aspettare. Dico che resta fuori per due mesi. Dice che allora, va bene, tratta con me, però il contratto lo deve firmare mio marito. Dico che ho una delega di mio marito per firmare il contratto. Era una cosa magnifica, come una partita di tennis fra due campioni, non sbagliavamo un colpo. Mi divertivo, perfino. Dice che va bene, posso allora anche firmarlo io, però vuole vedere i documenti, che siamo sposati. Dico che ho i documenti ancora con il nome di ragazza. Dice che allora gli porti il certificato di matrimonio. Qui credo che il ritmo della partita subisce un arresto, a nessuna delle coppie che conosco è mai stato chiesto un certificato di matrimonio per ottenere un contratto di locazione; e alcune di queste coppie non sono nemmeno legalmente sposate. Poi bleffo, e dico: «Va bene, glielo porto». Jl padrone di casa resta incerto per un momento a sua volta, e poi dice che non capisce perché il contratto voglio firmarlo io. Rispondo che non è che io voglia, è che mio marito è fuori Roma e vuole trovare la casa pronta quando rientra. Scopro con delizia che per un padrone di casa i desideri di un marito sono sacri, la volontà di un uomo è indiscutibile. Per la prima volta da quando tratto con padroni di casa mi sento dire «ha ragione», anche se la ragione è riferita a questo ipotetico marito. Dopo aver detto «ha ragione» il padrone di casa si cerca in tasca le sigarette, ne accende una elaboratamente, fuma un paio di boccate; e poi incomincia un vago discorso sul lavorare fuori città, sul vivere insieme, e che è accaduto — non nel mio caso, naturalmente, — che una donna abbia preso in fitto un appartamento dicendo che ci andava a vivere con il marito, e che ci abbia invece ricevuto l’amante. Dico che nell’avere un amante non ci deve poi essere quel gran male che si pensa, se ad un uomo vengono addirittura offerte pubblicamente in fitto delle garconnières. Il padrone di casa allarga le braccia, con senso di impotenza, e sorride: dice che il mondo purtroppo va così, l’uomo è cacciatore. Sorrido anche io e dico che, dato che la donna non è cacciatrice, dovrebbe dunque essere contento di avere il contratto firmato da una donna. Il sorriso del padrone di casa si ferma, e rientra. Poi agita scherzosamente un dito, furbetta, eh, furbetta, dice «mi piace, lei, mi piace, ha la battuta pronta»; dice che è veramente un peccato che per il momento sia «in parola» con qualcun altro, ma, se se ne libera, mi fa subito sapere qualcosa.
Difficile far capire ai miei conoscenti che una donna sola arriva a parlare con un padrone di una casa sempre quando è già «in parola» con qualcun altro.
Ho cambiato completamente sistema. Si usa in tutti i paesi del mondo, eccetto l’Italia, che due o tre o quattro ragazze prendano insieme un appartamento, dividendosene le spese. E’ una soluzione terribile, perché si hanno quasi tutti gli svantaggi e le irritazioni del vivere in famiglia, e nessuno dei vantaggi. In realtà, la cosa si è fatta anche in Italia; ed è infatti così inaudita, che una rivista femminile vi dedicò un servizio, erano un gruppo di tre insegnanti, mi pare, e il servizio era corredato di fotografie. Si correva il rischio di finire sulle pagine di Grazia, ma cercammo casa, io e altre due ragazze, insieme. Arrivammo a parlare con un padrone di casa. Il padrone della casa ci ascoltò, si compiacque con noi, per il nostro senso di organizzazione, per la nostra capacità di iniziativa, e poi disse che però, con un contratto in tre, poteva capitare che una delle tre si rifiutasse di pagare la sua quota di fitto, e lui non poteva certo correre dietro a ciascuna di noi per farsi pagare ciascun terzo di fitto. Dicemmo che questo non sarebbe accaduto, che avrebbe sempre ricevuto il fitto tutto intero, in un unico versamento. Lui disse che naturalmente, ne era già sicuro; il suo era solo un discorso accademico; tuttavia, con un contratto collettivo, il pericolo, ovviamente, esisteva, e lui non poteva assumersi la responsabilità di farci firmare un contratto collettivo. Dicemmo che a noi pareva che la responsabilità ce la prendevamo noi, ma che comunque, se preferiva, il contratto lo firmava una sola di noi. Disse che davvero si compiaceva con noi, non ci facevamo scoraggiare da nulla; però ci doveva avvertire che quella che firmava il contratto si prendeva davvero una grossa responsabilità. Dicemmo che non era più grossa di quelle che prendevamo normalmente, nella nostra vita, o in ufficio. Restò a pensare un momento, e poi disse che lui doveva purtroppo fare l’avvocato del diavolo, prospettarci tutti i rischi: poteva per esempio darsi che le altre due, quelle che non firmavano il contratto, magari per un litigio con la prima, quella che firmava il contratto, se ne andavano via, e poi arrivava una bolletta del telefono altissima e la prima gli diceva ‘ le telefonate non le ho fatte io ‘, e lui avrebbe dovuto pagare la bolletta. Gli dicemmo che questo assolutamente non sarebbe mai accaduto, che ogni conto sarebbe stato sempre 6 comunque regolato da noi. Disse che, però, anche lo stesso fitto era troppo alto per una sola di noi. Dicemmo che per questo prendevamo l’appartamento in tre. Rispose che questo era un accordo nostro, tra di, noi, e che lui non era tenuto a sapere di questo accordo, che, certo, non ne dubitava, era verissimo, ma che poteva anche — non nel caso nostro, naturalmente, — non essere vero. Dicemmo che allora dunque firmavamo il contratto in tre, come ci pareva logico e come avevamo proposto fin dal principio. E con questo eravamo tornati al principio. Il padrone della casa si compiacque di nuovo con noi, e disse che, per il momento, era «in parola» con qualcuno, ma che contava liberarsene, e, appena se ne fosse liberato, ci avrebbe «fatto sapere». Non ci «fece sapere».
Ogni volta che cerco casa, fra un tentativo a vuoto e l’altro le mie amiche e i miei amici mi danno consigli, mi rimproverano, mi incoraggiano. Mi dicono che mi creo difficoltà in realtà inesistenti; che centinaia di donne vivono a Roma da sole. E mi indicano, seduta nell’angolo di un divano, una ragazza che ha appunto appena trovato casa, due stanze e terrazza, ed è proprio una ragazza sola. Resto sconcertata; dunque allora si tratta proprio di qualcosa di sbagliato da parte mia. Mi rivolgo alla ragazza: «Hai trovato casa da sola?» le chiedo. Conferma, casa da sola. «E hai firmato tu il contratto?» le chiedo. Naturalmente, chi, se no. Sono abbattuta. «E la tua famiglia dove vive?» chiedo. A Roma, al Salario. Sono davvero abbattuta. Dunque si tratta proprio di stupidità, di inettitudine, di atteggiamento sbagliato, di chi sa che altro, da parte mia… «E non ti hanno fatto difficoltà?» chiedo (ti hanno fatto almeno difficoltà, prego). No, nessuna difficoltà. «Hanno solamente pensato che sono una puttana, ma tutto qui». «Già», dico. Non c’è altro da dire. «E quanto paghi al mese?» chiedo, così, tanto per chiedere. Cento-sessantamila. Un po’ caro, osserva, però, considerando la zona, Campo de’ Fiori… Lei considera la zona, e io, per la prima volta da quando abbiamo cominciato a parlare, considero lei; e vedo i suoi capelli curati da un parrucchiere, gli stivali da trentamila lire, la pelliccia di cavallino gettata con noncuranza sul bracciolo del divano… e vedo me come mi devono vedere i padroni delle case di cui aspiro .a diventare inquilina: i capelli lavati e pettinati da me, il golfino da 4.500 lire, le scarpe che devono sempre durare non meno di due stagioni e non costare mai più di 6.000 lire… Mi volto alla mia vicina, e, come una padrona di casa, chiedo informazioni. Segretaria di azienda, lavora per suo padre, le dà quattrocentomila lire al mese. E così io mi rendo conto, per la prima volta in tutta la mia storia, che ci sono donne sole e donne sole; e che sono le donne sole che assolutamente non possono permettersi di pagare più di sessantamila lire al mese di fitto, quelle a cui un padrone di casa non perdona di essere sole.
A questo punto, io capisco bene che non troverò forse mai casa; eppure continuo a cercarla. Nel frattempo, trovo delle soluzioni temporanee: ci sono sempre, a Roma, famiglie che vanno fuori per le vacanze, o stranieri che rientrano per qualche mese in patria, e che, per recuperare il fitto o parte del fitto, e per non lasciare la casa disabitata, cercano qualcuno che stia in casa loro, lo così sto in casa loro per due o tre mesi, qualche volta, se sono fortunata, anche per sei mesi. Poi loro ritornano, .e io cerco di nuovo casa. A questo punto mi si può incontrare, abbattuta e infuriata, per strada, con la pagina delle inserzioni del Messaggero in mano; i miei conoscenti che mi incontrano mi chiedono «che fai?»: io rispondo «Cerco casa», e loro scoppiano a ridere. Qualche volta rido anche io; sembra ormai anche a me una storiella banale e insensata ripetuta tante volte che alla fine fa ridere: oppure sembra anche a me solo una fissazione, come incontrare regolarmente una persona che abbia una valigia in mano e che costantemente stia andando alla stazione per prendere un treno e partire, e che non è mai riuscita a prendere un treno, lo ha sempre perso; alla fine anche io le consiglierei uno psichiatra, e non di guardare l’orologio. Qualcuno dei miei amici così mi dice onestamente che non crede che io voglia davvero trovare casa. E, ormai, comincio a crederlo anche io; una cosa, infatti, è certa: di trattare con un padrone di casa, non mi va. E chi altro, se non un padrone di casa, mi può dare in fitto una casa? Il circolo è vizioso. Forse continuo a cercare casa nella pura speranza di imbattermi in un padrone di casa che sia una persona educata, obiettiva, razionale. Per ora, la cosa sembra difficile. Tuttavia, continuo a cercare; in fondo, sono più cortese, nei confronti dei padroni di casa, di quanto un padrone di casa Io sia nei confronti di una aspirante inquilina: per me un padrone di casa può anche essere una persona per bene; per un padrone di casa, una donna sola che cerca casa non lo è mai.