donne e pazzia

quando i nervi cedono

marzo 1975

Se non hai soldi, non hai studiato, vieni da un ambiente del proletariato o sottoproletariato, e”dai fuori da matta”, ti spediscono, come abbiamo visto il mese scorso nei lager psichiatrici dove vieni”curata” a base di farmaci, elettroshock e letti di contenzione. Ma se sei un pò istruita appartieni al ceto medio, hai un pò di soldi perché lavori, o hai qualche uomo che te li può dare, quali sono le alternative che hai di fronte quando la sofferenza, la confusione, la stanchezza cominciano a opprimenti? quando i tuoi nervi”cedono”, quando”hai l’esaurimento nervoso”, quando non ce la fai più e ti”sembra d’impazzire?”. A seconda della gravità del tuo”esaurimento” (è un tuo privilegio di classe l’essere etichettata «esaurita» e non «malata di mente») puoi essere spedita (o entrare volontariamente) in una di quelle amene «case di cura» che popolano i dintorni delle nostre grandi città. A seconda del prezzo che sei disposta a pagare (dalle trenta alle centomila lire al giorno, esclusi i farmaci) avrai la televisione in camera e l’infermiera che ti «sorveglia a vista». In quanto a cure però starai solo lievemente meglio che al manicomio, perché nelle case di cura Italiane prevale ancora l’impostazione «medica» dei disturbi mentali, per cui verrai imbottita di sedativi, e se sei particolarmente depressa ti faranno un bel po’ di elettroshock. Nelle cliniche più avanzate avrai la possibilità di discutere il tuo caso con qualche medico, che ti potrà raccomandare una cura psicoterapeutica da seguire dopo le dimissioni. Nelle altre ti rispediscono a casa nello stesso ambiente che ha contribuito a provocare la tua prima «crisi» in attesa che tu ne abbia «una seconda» e «una terza». Più crisi tu hai, più degenze fai e più gli affari prosperano. Non esistono dati in Italia sul volume d’affari delle cliniche psichiatriche private e sul lavoro dei liberi professionisti terapeuti, né cifre precise sul loro numero. La tariffa d’uno psicoterapista varia da 5.000 a 30-40.000 per cinquanta minuti di seduta individuale, da 3.000 a 10.000 per una di gruppo, a seconda dell’autovalutazione che il terapista fa del valore del proprio tempo, e a seconda del suo prestigio di mercato. Di serie A sono senz’altro gli analisti di formazione ortodossa freudiana, che anche per rifarsi dei lunghi anni e milioni spesi nell’apprendimento della tecnica psicanalitica, sono quelli che chiedono le parcelle più salate. Poi ci sono gli analisti non formati nelle «scuole ufficiali», quelli che s’ispirano a Jung, Reich, quelli che sono psicoterapeuti per auto-definizione (dato che in Italia la professione dello psicologo, terapeuta o analista non è regolamentata legalmente), ecc.. La stragrande maggioranza di loro si ispira alle idee delle sacre scritture freudiane più o meno degeneri. Come questi grandi uomini considerassero la donna viene illustrato nel riquadro a parte, e indica più o meno che tipo di considerazione i loro seguaci possano avere per donne loro pazienti, e quanto sia difficile che possano contribuire al processo di presa di coscienza dell’oppressione sociale che è tra le cause primarie dei disturbi psichici femminili. Oltre che ad ispirarsi a teorie non solo antifemministe, ma anti-donna, questi psicoterapeuti maschi condividono ovviamente in gran parte gli stereotipi culturali maschili e femminili. Richiesti di definire una persona «matura», un uomo «maturo» e una donna «matura», un gruppo rappresentativo di psicologi e psichiatri ha elencato pressa-poco le stesse caratteristiche come essenziali per un uomo maturo e per una persona matura (sesso non specificato). Quando si è trattato di definire la donna matura i criteri sono cambiati: matura è stata descritta la donna che è più sottomessa, meno indipendente, meno obiettiva, meno avventurosa, meno competitiva dell’uomo, ecc. (1) Come questi pregiudizi sessisti si traducano in terapie più o meno deliberatamente orientate a far accettare alla paziente i suoi ruoli di «moglie e di madre», a sublimare le sue «componenti castratrici», a farla adattare all’uomo e alla società come sono, emerge sia dalle testimonianze allegate, sia dai sacri testi a cui i terapeuti si ispirano.

Con il declinare dell’influenza religiosa la psicoterapia si è diffusa moltissimo, specie nei paesi anglosassoni e ora anche da noi. E nei paesi dove si sono raccolte statistiche è risultato che la stragrande maggioranza dei pazienti (quasi i 2/3) sono donne. Come mai? Secondo la psicologa Chester (2) le donne entrano in terapia come nel matrimonio, perché sono le due maggiori istituzioni socialmente approvate pelle donne. Donne separate o divorziate cercano aiuto più frequentemente degli altri gruppi, come se l’essere non sposati fosse vissuto come una «malattia» di cui ci si deve curare. Sia la psicoterapia sia il matrimonio isolano le donne l’una dall’altra, privilegiano soluzioni individuali piuttosto che collettive ai problemi delle donne. Ogni donna, ogni paziente pensa che i suoi sintomi siano unici e in fondo tutto sia «colpa sua». È nevrotica invece che oppressa economicamente e psicologicamente e dal terapista vuole quello che spesso non può ottenere dal marito: attenzione, comprensione, una soluzione personale insomma tra le braccia del marito GIUSTO, sul divano dell’analista GIUSTO. Ambedue le istituzioni possono essere viste come la ridrammatizzazione del rapporto bambina-papà, in una società dominata dai maschi, e sono basate sulla debolezza della donna e sulla sua dipendenza da una figura autoritaria più forte, un marito o uno psichiatra. Mentre opprimono la donna, matrimonio e psicoterapia, sono al tempo stesso i due rifugi sicuri che la società offre alla donna: in psicoterapia ad esempio la donna può esprimere la sua rabbia e la sua infelicità senza rischi di essere punita.

In entrambi i casi la donna è incoraggiata .a parlare — spesso incessantemente — invece che ad AGIRE. Inoltre l’incontro tra analista e paziente rappresenta ancora un altro esempio di rapporti ineguali, in cui la donna è sottomessa e l’analista dominante. Secondo la Chesler questo tipo di struttura molto difficilmente può incoraggiare l’indipendenza o una dipendenza non nevrotica: «Mi domando che cosa può apprendere una donna da un terapista maschio che (nonostante le buone intenzioni) condivide i valori sessisti della società, che è stato condizionato a considerare le donne come inferiori, minacciose, infantili, castranti, come altro da sé. Quanto liberi possono essere una donna paziente e uomo terapista da questi condizionamenti sociali?».

Andare da un’analista donna non garantisce di per sé che non sia anch’essa orientata in senso maschilista, che non sia stata anche lei indottrinata a considerare le donne come «inferiori». Che fare allora? Prima di tutto occorre difenderci da terapisti particolarmente sessisti, e soprattutto continuare il lavoro di critica alle teorie psicoterapeutiche, per farne risaltare i pregiudizi e l’ascientificità. È necessario inoltre elaborare forme di incontro psicoterapeutico di gruppo, che ci aiutino non ad «adattarci» a questa società, a questo tipo di ruoli e di rapporti uomo-donna, ma a riscoprire quello che, in noi, è oppresso, nascosto, svalutato. Insieme possiamo aiutarci a chiarire le ragioni sociali dei nostri problemi individuali, possiamo far riemergere la nostra forza, la nostra vitalità, in modo da poter lottare per i cambiamenti sociali, politici-personali, che, meglio di qualunque terapia, ci aiuteranno a vivere in modo veramente diverso.

Nel prossimo numero di EFFE presenteremo alcuni di questi lavori critici e descriveremo varie tecniche terapeutiche elaborate da femministe di vari paesi.

a cura di Donata Francescato con contributi da Lieta Harrison

(1) Inge Broverman e al. Sex role stereotypes and clinical judgements of Mental Health, Journal of Consulting and clinical psychology, 34, 1970.

(2) Chesler P. Marriage and psycho-therapy. The Radicai Therapist, New York Ballantine, 1971.