donne e pazzia

radical therapy

aprile 1975

Come abbiamo già premesso, iniziando il dibattito su «donne e pazzia» nel numero di febbraio, l’argomento è così complesso e si presta ad essere analizzato da punti di vista così numerosi che su EFFE possiamo soltanto affrontare ALCUNI (1) dei temi che ci sembrano fondamentali.

In questo numero vogliamo presentare il contributo di alcune femministe americane, contributo insolito perché non si limita a denunciare d’oppressione di cui soffrono le donne negli ospedali psichiatrici e negli studi di psicoterapeuti sessisti, ma propone una forma diversa di psicoterapia di gruppo: «una psicoterapia femminista». Questa psicoterapia femminista deriva teoricamente da una sintesi tra le analisi femministe sulla condizione della donna e le critiche alla teoria e alla pratica della psicoterapia tradizionale mosse da un movimento di contestazione chiamato «radical therapy»; operativamente risente dell’influenza delle nuove terapie di gruppo che danno maggiore importanza alle emozioni, alle sensazioni corporee, ‘all’analisi transazionale, ai processi di comunicazione verbale e non verbale, e dell’esperienza delle donne nei gruppi di autocoscienza. La «radical therapy», nata negli Stati Uniti alla fine degli anni sessanta, rappresenta il punto di riferimento di un gruppo di psicologi, psichiatri e assistenti sociali, che criticano l’uso della psicoterapia come strumento di adattamento a una realtà sociale che invece va mutata. Dietro il loro slogan: «terapia significa cambiamento, non adattamento» questi operatori sottolineano che il bisogno di terapia di molte persone deriva dal fatto che esse sono socialmente e politicamente oppresse e che soltanto un cambiamento radicale delle condizioni sociali potrà diminuire l’esigenza della terapia. Inoltre essi evidenziano come la categoria dei terapisti sia quella che trae i maggiori vantaggi economici e sociali da una diffusione di massa della psicoterapia, e che le teorie intra-psichiche aiutano i pazienti a concentrarsi, sulle determinanti interne del loro disagio, ignorando o dando poca importanza ai fattori sociali. I terapisti radicali mettono in discussione la «terapeutiche» di una situazione in cui esiste una grossa disparità di potere e status tra terapeuta e cliente, e un contratto di tipo privatistico. Sostengono che i servizi d’igiene mentale dovrebbero essere gratuitamente disponibili a coloro che ne hanno bisogno e che le «conoscenze e le tecniche terapeutiche» dovrebbero essere condivise con i clienti in modo che questi possano diventare terapisti di se stessi. Oltre a lottare per mutamenti all’interno delle esistenti istituzioni psichiatriche e nel campo della psicoterapia privata, i terapisti radicali hanno creato «centri alternativi», dove hanno cercato, tra l’altro, di elaborare principi e metodi di psicoterapia che integrassero il politico e il personale. Utilizzando queste nuove elaborazioni terapeutiche, un collettivo femminista ha dato vita qualche anno fa a Berkeley ai primi gruppi di «psicoterapia femminista».

Tra i concetti principali della radical therapy e della terapia femminista è che l’alienazione è il risultato di oppressione mistificata (oppression + deception = alienation), cioè se una donna si sente infelice perché obiettivamente è oppressa da condizioni di vita che non le permettono di realizzarsi, ma viene convinta da chi le sta intorno che la colpa della infelicità è dentro di lei, che è lei che va cambiata, in un certo senso questa donna viene ingannata, se accetta queste spiegazioni mistificatorie si sentirà alienata dalla sua stessa esperienza di infelicità. Partendo da questa premessa, la terapia femminista considera necessario prima di tutto rendere consapevoli le donne della loro oppressione e delle ragioni dell’oppressione. A questo primo passo seguirà quasi sempre l’emergere di un sentimento di rabbia per l’inganno subito. Il sentire questa rabbia è considerato un primo necessario momento del processo terapeutico; il secondo e il più importante è quello del «contatto» con altre donne oppresse per lavorare per la comune liberazione. Dato che la presenza degli altri è un elemento indispensabile in questo tipo di terapia, la terapia femminista è praticata esclusivamente in gruppi. Inoltre aderendo all’ideologia della radical therapy, le terapiste femministe cercano di trasmettere le conoscenze e le tecniche che costituiscono la base del potere e del privilegio del terapeuta, e soprattutto di demistificare il «mistero» che circonda la psicoterapia. Ecco come una partecipante descrive l’atteggiamento delle terapiste femministe: «Oltre ad aiutare le donne con la terapia di gruppo, insegnano a poco a poco tutto quello che loro stesse hanno imparato da altre donne… durante gli incontri di gruppo spiegano ogni teoria, ogni metodo con grande chiarezza… gli incontri sono sempre guidati da due terapiste. La radical therapy crede che una sola terapista potrebbe diventare oppressiva verso il gruppo; se le terapiste sono due, viceversa, l’una può ascoltare ed osservare l’altra, aggiungere informazione, aiutarla a lavorare senza diventare oppressiva verso il gruppo».

In alcuni aspetti un gruppo di terapia femminista è simile ad un gruppo di autocoscienza. Un piccolo numero di donne, da sei a dodici, si riunisce settimanalmente e parla delle proprie esperienze, nella sicurezza che non sarà criticata e che verrà ascoltata con attenzione. Il ruolo iniziale delle terapiste, preso via via da tutte le partecipanti è quello di aiutare la donna che «lavora» (che sta cioè rivivendo un’esperienza od un’emozione) a identificare nella sua situazione specifica i condizionamenti culturali che l’opprimono e che lei ha interiorizzati. Di solito questi condizionamenti si riconoscono nelle frasi che cominciano con «dovrei… ma», ad esempio «dovrei sposarmi», «dovrei essere meno aggressiva», «dovrei essere più magna» ecc. La donna che parla spesso non si rende conto di non esprimere un suo vero desiderio, una sua vera emozione, e il gruppo l’aiuta a differenziare tra i suoi bisogni genuini o i suoi bisogni indotti. Altri esercizi hanno lo scopo di rimettere in discussione il modo in cui ogni donna si vive nei suoi aspetti di «genitrice», di «adulta» e «di bambina», il modo in cui si permette di vivere alcune emozioni (ad esempio la tenerezza) e ne blocca altre (ad esempio la rabbia) ecc. L’accento è sulla legittimità delle proprie emozioni, sull’accettazione del proprio stato presente, come presupposto per poter mutare. Una strategia per favorire il cambiamento è quello di stipulare dei «contratti», in cui ogni donna chiarisce al gruppo quali atteggiamenti e quali comportamenti vorrebbe cambiare. Le altre s’impegnano a sostenerla e a incoraggiarla. Soprattutto le donne apprendono a chiedere al gruppo quello di cui hanno bisogno. Ecco come una partecipante descrive questo processo: «Le terapiste dicono spesso a chi «lavora»: «Hai chiesto quel che vuoi?». «Il gruppo ti sta dando quello che vuoi?». «Sei consapevole di quel che vuoi e di come te lo possiamo dare?». A volte la partecipante viene incoraggiata a scrivere le sue esigenze, con la mano sinistra per entrare in contatto con la parte più infantile. E il gruppo per contratto cerca di soddisfare questi bisogni infantili, comportandosi come un genitore benevolo. Se una donna dice che vorrebbe essere coccolata, il gruppo la vezzeggia e le parla dolcemente come a una neonata. Se una donna dice che vuole provare a dire cose negative, al riparo da conseguenze spiacevoli, il gruppo le assicura il clima di permissività e di protezione in cui può permettersi di esercitare queste sue capacità sopite. Ovviamente questo processo di «accomodamento» del gruppo ai bisogni di una singola partecipante, -scatena a volte reazioni negative che vengono successivamente aiutate ad essere espresse. Se una donna per esempio ha prima aderito a «giocare la parte» della mamma affettuosa per una donna che aveva chiesto affetto e poi mentre faceva il suo ruolo, si scopre piena di risentimento, si cerca di esplorare con lei nella situazione di gruppo, o in fantasia la sua irritazione e di aiutarla a vivere pienamente ed accettare anche questo stato d’animo negativo, senza colpevolizzarsi o cercare di sfuggire. Di solito un incontro di terapia di gruppo femminista finisce con una serie di «esercitazioni» chiamate «strokes» cioè rinforzi positivi verbali o non verbali. In una società competitiva come quella americana è raro che la gente si senta approvata dagli altri o approvi se stessa, che ‘parli liberamente dei suoi e degli altri aspetti positivi. Prima di terminare la seduta, le donne si dicono se ne sentono il bisogno e il desiderio l’un l’altra quello che hanno percepito di positivo, nella serata, l’una dell’altra. Oltre a dirselo, se per esempio hanno sentito affetto, lo esprimono con carezze, abbracci, baci ecc. Sembra che questo esercizio sia: «il momento più bello dell’incontro, quello che dà ad ogni donna un senso profondo di sorellanza, calore, e potere. Tutte si sentono più capaci di tornare alla vita al di fuori del gruppo e combattere per quello che vogliamo». Leggendo le versioni femministe della terapia radicale io sono rimasta personalmente un po’ perplessa per il tono trionfalistico, tono che probabilmente risente dell’euforia che spesso provoca un nuovo tipo di terapia che sembra dare dei frutti. È chiaro che la terapia femminista resta un approccio tutto da elaborare, criticare, reinventare insieme. Tuttavia alcune applicazioni di cui ho diretta conoscenza, ad esempio gruppi di donne incinte, di nuove madri, di donne di mezza età che si sono formati in varie città americane, integrando metodi del piccolo gruppo e i principi della radical therapy in versione femminista sembrano aver aiutato un buon numero delle partecipanti. Soltanto attraverso la sperimentazione di alcune di queste tecniche nei nostri gruppi potremmo accertarne la validità per ognuna di noi.

A questo proposito vorrei notare che anche in Italia si cominciano a fare dei gruppi sui ruoli personali e ruoli sociali della donna, tenute da terapiste donne. Un gruppo di cui sono a conoscenza si terrà dal 7 al 12 maggio a Ghirla (Varese).

A cura di Donata Francescato con contributi di Stella

(1) Vorremmo ringraziare le donne e i gruppi che ci hanno inviato materiale e i cui contributi abbiamo cercato di utilizzare scrivendo questi articoli anche se non sempre abbiamo potuto pubblicarli per ragione di spazio (grazie specialmente a Monica Berretta per il suo saggio sull’analisi transazionale).