carceri

testimonianze

aprile 1975

Ho ventisette anni, sono nata in provincia di Cagliari, e sono stata subito messa al brefotrofio. Non ho altri ricordi d’infanzia che lunghe ore di paura e di preghiere in ginocchio ai piedi del letto con le monache che ci sorvegliavano e decidevano che non avevamo abbastanza raccoglimento durante le preghiere e quindi le prolungavano per chissà quanto. Non capivamo niente delle parole che ci facevano dire: erano una formula, uno scongiuro, un mistero… erano però soprattutto una punizione faticosa e umiliante. Eppure, adesso che ci penso, dopo tanti anni, io ci credevo perché avevo paura. Tanta paura. Paura del nero, della notte, del peccato e della colpa, paura perché rispondevo e paura perché non rispondevo.

Le mie compagne a scuola parlavano del babbo e della mamma e io non sapevo neanche che cosa volessero dire quelle due parole. Quando più tardi dal brefotrofio mi trasferirono al cottolengo (e non ho mai saputo il perché), mi affidarono ad una donna che loro consideravano pazza e che invece mi difendeva quando le compagne più anziane venivano a picchiarmi. E io le chiedevo: che cosa vuol dire «babbo»? che cosa vuol dire «mamma»? Devo essere nata ribelle di carattere, perché tutte le volte che non riesco a capire il perché di un ordine, di una imposizione, di una limitazione, io mi ribellavo e mi ribello. Datemi una ragione, ed io accetterò questa ragione; ma non ditemi: devi, perché devi. Questa è l’imposizione ed io non l’accetto.

A dieci anni improvvisamente mio padre e mia madre decisero di venire a cercarmi. Ed io ebbi paura di questa novità che mi venne comunicata una sera. Chi erano e che volevano il mio «babbo» e la mia «mamma»? Così me ne andai a capo chino, tutta ben vestita, lavata e pettinata (le monache mi strigliarono a dovere quel giorno) in parlatorio a vedere queste due persone. E ne ebbi una paura tremenda. Io non volevo andare con loro. Non volevo assolutamente andare. Per.quanta paura mi facessero le monache e per quanto odioso mi fosse il luogo dove stavo, però era la mia casa, era la tana in cui mi nascondevo quando finalmente la sera era possibile cacciarsi sotto le lenzuola con la testa ben nascosta. Ma questi due signori dove mi avrebbero portato e che cosa mi avrebbero fatto?

Li segui piangendo a capo chino quando le monache mi dissero che avrei dovuto andare via per sempre con loro.

A casa — che cos’è una casa? — trovai uno stanzone abbastanza mal tenuto, con un lettone in cui dormivano mio padre, mia madre e altre due fratellini; un mio fratello, appena di poco minore di me, ed io dormivamo insieme su un pagliericcio. Il pavimento era di terra battuta. Alla mattina si usciva tutti in fila e mia madre andava a chiedere l’elemosina con i due ragazzini più piccoli. Mio padre ed io si andava a far legna nel bosco. E mio padre era sempre molto severo e mi sgridava e mi picchiava quanto più poteva. Quando mia madre tornava con i denari che aveva rimediato durante il giorno, mio padre andava a comprarsi il vino e le sigarette per sé, e se restava qualche cosa portava a casa un pezzo di formaggio, se non restava niente non portava niente. Lui era sempre ubriaco quando tornava e ci picchiava tutti. Mia madre faceva una zuppa di erbe per noi ragazzi e avevamo tutti sempre fame. Poi mio padre mi ha violentata. E così son ricascata in collegio. Perché sto qui — dici? Beh, adesso per truffa alla stato. Ho spacciato banconote false. Ne avevo per duecentomila lire, ma ne ho dato via una sola che subito mi son venuti addosso i carabinieri. Non mi ci far pensare che m’incazzo ancora. Che jella! Mo’ perché ridi? Ah lo so, pensi che è una truffa piccolina. È come la storia della «pistolera». Sai perché mi chiamano la pistolera? Perché un amico mi aveva regalato una pistola ad acqua di quelle di plastica, e io giravo per Firenze fingendo di sparare a tutti. Come mi divertivo! Sceglievo bene, sai! Mah! Tutta la vita l’ho fatta in collegio. Sempre con ‘ste monache addosso. Cattive come le zanzare. Poi mi mandarono a lavorare, ma i soldi li pigliavano loro, però. E così son scappata. E allora mi hanno messo in correzionale e qui mi sono ribellata e allora mi hanno spedita al manicomio criminale, a Pozzuoli. Sai le botte che mi hanno dato? Perché non volevo allungare le gambe per farmi legare m’han spaccato un ginocchio. Guarda come ce l’ho. Guarda a forza di iniezioni che facevano infezioni, guarda che culo mi han conciato, tutto segnato di cicatrici e buchi. Guarda che laparatomia m’han fatto quando hanno dovuto togliermi un’ovaia. Ma che so io perché? Guarda che pancia, sembra una trincea. Per tutta la vita m’hanno tormentata. E poi protestano perché mi ribello. Ma che devo fa’ secondo te? Devo pure dirgli grazie?

Ho ventisett’anni e si può dire che tra brefotrofio, cottolengo, collegio, correzionale e carcere ne ho passati dentro 25. Fuori e dentro, fuori e dentro, per furto, per fumo, per truffa, per prostituzione. E che devo fa’ se non m’hanno mai insegnato niente di buono in tutti quegli anni di collegio? La serva? Beh, io no. Io faccio marchette. Non vi piace? E mi dichiarate semi-inferma di mente perché non mi piace fare la serva a nessuno?

Ma va, vien via, che l’è una vergogna della società che ci sia al mondo una Maria Manca, la pistolera, che con tutto quel nome lì terribilissimo non è stata neanche capace di sparare a chi dice lei.

Testimonianza raccolta da Adele Faccio durante il soggiorno a Santa Verdiana, carcere femminile di Firenze.

Mi è sempre sembrato ingiusto parlare della mia esperienza carceraria perché in qualche modo significa falsare tutto. Il carcere è un evento estremo e ho paura che se ne colga unicamente la parte aneddotica. Il carcere si subisce sulla pelle con dolore. E’ la presa di potere assoluta da parte delle istituzioni morali della società su un individuo. Sono incapace di non emozionarmi e incazzarmi pensandoci, perché di nuovo mi sento male fisicamente.

Uno spazio di tre metri per tre, un cesso dietro un paravento a fiorellini di plastica, un freddo incredibile, l’impossibilità di comunicare perché sì è in segregazione, l’acqua gelata, il cibo di merda( ma chi può mangiare…) è il panico, soprattutto il panico di impazzire; di non farcela, di non sopravvivere e di sentirsi in trappola senza via d’uscita. Per tre giorni sono rimasta rinchiusa in quella cella; come unico contattò con l’esterno le monache e la «scopina» (la scopina è la detenuta che lavora per 15.000 lire al mese circa, come addetta alle pulizie della sezione; serve spesso anche il cibo, il che la rende un personaggio molto» importante). Finalmente è arrivato il giudice. Con l’interrogatorio del Sostituto Procuratore finisce la segregazione. La prima cosa diciamo positiva. Dal momento dell’arresto si può comunicare con le altre detenute, si può uscire dalla cella. Si dice spesso che la prigione è l’utero materno, invece per niente l’utero è una realtà ovattata, acquatica, calore, pelle, gesti al rallentatore, gran caldo, è già la sessualità vissuta. Il carcere è il padre-cazzo, ha il potere, cioè ha sempre ragione, possiede la giustizia, la legge. Il carcere è il ritorno alle proibizioni e ai tabù dell’infanzia. Infatti ero ridotta allo stato infantile, dovevo chiedere il permesso per tutto, per mandare un telegramma, per ricevere un pacco, per ricevere soldi bisognava fare la domandina scritta al direttore. Si va avanti a furia di domandine. Rebibbia è divisa in tre piani, oltre il piano terra. Il primo piano raggruppa le lunghe pene; I superiori… superiori sono quelli più agitati, raggruppano tutto il resto; ladre, prostitute, truffatrici, drogate e zingare.

Il piano terra è quello delle nuove arrivate che escono quasi subito o sono mandate ai piani superiori. Si comincia così una vita quasi comunitaria con un tempo nuovo. Il momento cruciale intorno al quale gravita tutta la giornata è l’ora della chiamata delle «liberanti» quelle che devono uscire dal carcere. Si urlano i loro nomi come si urla tutto, visite degli avvocati, arrivo dei pacchi, colloqui. Si urla sempre da un piano all’altro, da una cella all’altra. Succedono almeno 4-5 liti al giorno, di cui alcune sanguinose. Nel pomeriggio il ronzio penetrante, ossessionante delle monache che insieme alle detenute recitano a mezza voce le novene. Durante la notte le grida di quelle che stanno male o hanno avuto un incubo, oppure quella che ingerisce una lametta per farsi portare all’ospedale. Il suono rimbomba in questa immensa gabbia, non esiste la solitudine, non esiste scappatoia a questo continuo rumore. Con curiosità all’inizio guardavo le altre detenute e chiedevo a ognuna per che cosa stava lì dentro. La risposta era identica per tutte «sono innocente». Bisogna essere molto ingenui per pensare che la loro innocenza non sia reale. In una società moralistico-cristiana e capitalistica, dove regna l’ideologia della sofferenza, della punizione, della paura nonché del denaro, della competizione, del potere, qualsiasi persona che cerca un suo spazio al di fuori di queste regole è colpevole per la legge. Qualsiasi persona imbevuta invece dell’ideologia del sistema e non appartenente alla classe giusta cioè dominante, cerca di uscire dalla sua misera condizione con i sistemi che le indica la società, ed è incarcerata e punita. Per le donne invece incarcerate a Rebibbia, la grande maggioranza è dentro per reati legati al loro uomo. Per esempio non esiste una omicida per lucro, per rapina, insomma per soldi, ma sempre per amore, hanno ucciso il loro uomo che stava per lasciarle, sia che fosse l’amante o il marito; insomma sempre crimini passionali. Lo stato d’ignoranza e la mancanza di vita sociale imposti alle donne è evidente anche in carcere. Per le ladre e le truffatrici sono i soliti reati di complicità o rifiuto di denunciare l’uomo. Solo le tenutarie di case squillo e le prostitute hanno sempre commesso in prima persona i loro reati ma in questi due casi siamo davanti alla donna oggetto. Mi ricordo di avere scritto delle lunghe lettere d’amore a dei vari Tonino, Giovanni… Parecchie di queste donne anche se sanno scrivere non osano redigere una lettera da sole e chiedono alle «letterate» di scriverle per loro per fare «bella figura». Le prostitute con le zingare sono le più disgraziate nessuno manda mai loro un pacco e rimangono in quel freddo pazzesco con delle minuscole mini-gonne senza potere mai cambiarsi. Quelle che ricevono regolarmente soldi e pacchi sono le ricche e si fanno servire dalle più povere in cambio di cibo e di sigarette. L’omosessualità è spesso questo terribile rapporto di quella con soldi che si sceglie una povera.

E io andavo a messa; nessuno ti obbliga ma quasi tutte ci vanno perché la cappella è nel settore dove alloggiano le monache, di conseguenza è riscaldata così si può godere di mezz’ora per scaldarsi le ossa e anche perché andando a messa si è ben viste dalle suore. Inoltre c’è una sottilissima rete di ricatti: essere benviste dalle suore significa avere privilegi. Ma mi rendo conto di avere dimenticato le ore interminabili di noia, di vuoto, la sensazione di girare su se stessa. E così un giorno, grazie a Valpreda e a tanti altri (mi rifiuto di dire legge Valpreda) mi hanno concesso la libertà provvisoria, mi hanno trascinata in questura, impronte digitali, foto segnaletiche, tutto lo stesso assurdo cerimoniale da capo. … Ed ecco, ero libera. Mi ritrovavo sola per la strada con tre sacchi di plastica pieni di vestiti che mi pesavano sulle braccia. Me ne fregavo dei grandi spazi, di correre, di vedere il mare, tutto quello che era stato il mio delirio per tanti e tanti giorni in carcere. Desideravo solo un buco nero ove nascondermi, un corpo contro il quale poter accovacciarmi, succhiar freneticamente il mio pollice, e così rassicurata, circondata d’amore e di calore, poter finalmente lasciarmi andare.