duralex

uguaglianza discriminata

la cittadina reversibile

marzo 1974

Anche per quanto riguarda il diritto di cittadinanza, la donna in Italia è una cittadina di seconda classe. Mentre il cittadino italiano (il cittadino di sesso maschile) perde la cittadinanza solo per rinuncia volontaria, la cittadina italiana (di sesso femminile) la perde automaticamente quando sposa uno straniero il cui paese estenda, altrettanto automaticamente, la cittadinanza alle mogli straniere dei suoi cittadini. In questi casi, la soluzione ovvia sarebbe che lo Stato italiano prevedesse la doppia cittadinanza: ma non la prevede.

La perdita della cittadinanza comporta, come si può immaginare, tutta una serie di conseguenze. E’ il caso di Albertina Del Lungo. Cittadina italiana, sposa nel 1969 un cittadino spagnolo; e, secondo la legge spagnola, acquista automaticamente la cittadinanza spagnola: e, secondo la legge italiana, automaticamente perde la cittadinanza italiana.

Albertina Del Lungo non si è mai mossa dall’Italia, dove il marito lavora come giornalista. Anche Albertina lavorava, come insegnante. In quanto «automatica» cittadina straniera, non ha il diritto di insegnare in una scuola italiana; e viene estromessa dalla professione. Un’unica ironica compensazione: Albertina mantiene il suo nome da ragazza, perché la legge spagnola non prevede l’assunzione del cognome del marito.

 

il carico fuori serie

Non bastano quelle esistenti: anche le nuove leggi non perdono l’occasione di introdurre ulteriori disuguagliante tra uomo e donna. Come sottolineano varie lettere di protesta di numerosi gruppi di donne lavoratrici, la legge 597 del 29 settembre 1973, che disciplina l’imposta sul reddito delle persone fisiche, ripropone unicamente nel marito la figura del capo “miglia, e nella moglie quella del «coniuge a carico», trascurando in modo palese la parità giuridica dei coniugi voluta dalla Costituzione.

L’articolo 11 della legge concede al marito la detrazione di lire 36.000 sull’imposta da pagare. Nessuna detrazione viene concessa alla moglie che lavora, e che paga le sue tasse per intero.

 

la pensione irreversibile

I provvedimenti sulle pensioni approvati recentemente dalla Camera hanno riconfermato una discriminazione più volte messa in luce da tutte le organizzazioni femminili: oggi, al solo capo famiglia, identificato «de jure» nel marito, viene garantita la certezza che, in caso di sua morte, verrà corrisposta una base pensionistica, una volta maturati i minimi di legge, al coniuge e ai figli minori. Alla donna coniugata che lavora questo diritto essenziale di assicurare un minimo di pensione, frutto del proprio lavoro, al coniuge e ai figli minori, non è concesso (la sola eccezione è rappresentata dal caso di assoluta indigenza del coniuge superstite). Anche qui, cioè, il lavoro della donna viene valutato di meno, con una palese violazione dell’uguaglianza salariale tra uomo e donna, poiché infatti la pensione non è altro che salario differito. Sempre a proposito di provvedimenti sulle pensioni, vale la pena di ricordare che era stata presentata alla Camera una proposta, che è stata respinta, di diminuire, per la donna, da 40 a 35 anni il periodo contributivo necessario per ottenere il massimo di pensione. Questa proposta potrebbe apparire come il tentativo di introdurre una disuguaglianza, questa volta a favore della donna. In realtà, se pensiamo alle difficoltà che la donna incontra sul mercato del lavoro, al fatto che spesso riesce ad inserirsi in un lavoro fisso, a tempo pieno, e fuori casa, solo quando i figli sono almeno in età scolare, la proposta non faceva che rispecchiare una realtà di fatto; e quindi, non solo non era discriminatoria, ma anzi tendeva a sanare questo squilibrio. Pochissime donne oggi arrivano all’età pensionabile avendo raggiunto il periodo necessario per godere del massimo di pensione.