Il terrorismo femminile
per fare i conti con la violenza armata
Il terrorismo femminile è, per certa stampa, prima di tutto un fatto contro natura. Secondo noi è qualcosa di molto diverso e di gran lunga più complesso. Cerchiamo insieme il modo per capirlo e per combatterlo.
Il 5 febbraio un commando composto di sole donne dell’organizzazione «Prima Linea» spara alle gambe di Raffaella Napolitano, una sorvegliante delle carceri Nuove di Torino. Si realizza così quel «salto di qualità» (due donne sparano, e contro un’altra donna), che per la stampa è l’occasione per tornare ad attaccare con violenza e sommarietà il movimento femminista. I fantasmi evocati dal femminismo possono finalmente essere esorcizzati: da una parte, criminalizzando il movimento, cui viene riconosciuta un’ideologia capace di produrre tali forme di violenza, dall’altra negando il fenomeno stesso fino ad ipotizzare che non si trattava di donne. Più complessa è la posizione di chi fa ricorso a categorie morali, filosofiche e biologiche. Data la natura della donna come «buona» e «positiva», «portatrice d’amore e tenerezza», si criminalizza qualsiasi comportamento deviante, fuori della norma, delle donne, negandolo come non con-
naturale al suo ruolo biologico. «Se l’esercizio maschile dell’aggressività è maligno, quello femminile appare addirittura empio e costituisce uno dei sintomi più inquietanti del processo di disgregazione della convivenza civile… e non è per maschilismo, semmai per la valutazione del principio femminile e del suo ruolo incomparabile nel processo di incivilimento della specie (A. Todisco, Corriere della Sera del 7 febbraio «Un brutto giorno se la donna spara» ). E continuando, Todisco afferma che «la donna attraverso l’evoluzione della cura dei piccoli, appare nella nostra specie come la fonte primaria dell’atteggiamento da cui scaturiscono tenerezza, simpatia, amore, generosità, altruismo». E, ancora una perla, che «uno degli aspetti più calamitosi della società moderna è la progressiva distruzione del “codice mammifero”». La donna è e deve essere madre, moglie, tenera, affettuosa portatrice degli affetti familiari. La gravità di questo
tipo di analisi (ma il termine analisi ci sembra anche troppo elevato per le «tesi» di questo signore) oggi non sta soltanto nel fatto di ricondurre la donna al ruolo imposto dalla storia degli uomini, ma dal tipo di reazione che ci può suscitare istintivamente (per usare terminologie che per Todisco possono essere comprensibili!): come dire che per controbattere diventiamo tutte fiancheggiatrici del terrorismo. Ci spieghiamo: ‘rifiuto della naturalità di un ruolo — accettazione della violenza —, le femministe entrano nella clandestinità! Se la biologia viene chiamata in causa per sottolineare l’impossibilità che un episodio come quello di Torino si verifichi, la coscienza che le donne si sono conquistate in questi anni, è «interpretata» da un Todisco per spiegare, trovare cioè delle cause, «agli aspetti più calamitosi della società moderna». Questo tipo di discriminazione non solo ci sembra si ritorca su tutte le donne in generale, ma soprattutto e specificamente contro quelle che rifiutando il dato biologico e scoprendo là politicità degli atti del nostro quotidiano, stanno cercando spazi vitali propri e indipendenti. Quello di Todisco comunque non è che uno degli esempi che si possono citare, da stampa e mezzi di comunicazione di massa in generale, i Bocca e i Gustavo Selva insegnano. D’altra parte ciò che si è verificato a Torino, la «specificità» dell’atto: due donne che sparano contro una donna, è stato rivendicato come atto di provocazione per «imporre nel movimento una discussione» secondo le parole del volantino di «Prima Linea». Nella situazione attuale la «risposta» del movimento chiamato in questione è Stata — per lo meno a Roma — quella di ritornare nelle sedi usuali per continuare un dibattito sulla, violenza, che in realtà non si era mai chiuso. t)n anno fa il convegno sulla violenza di Roma che si era svolto in pieno caso Moro, aveva risposto alle sollecitazioni di schieramento rivendicando tempi e modi autonomi, sottolineando tuttavia la rete di violenza sotterranea e continua, sostrato di tutte le altre forme di violenza di questa società, terrorismo compreso. Oggi, anche se l’atteggiamento della stampa è cambiato, fino a riconoscere il terrorismo femminile; anche se due donne sparando ci chiedono la discussione; di fatto ci è imposto lo stesso pronunciamento: o con lo Stato o con le Br.
Già il collettivo «Donne e Politica» di Roma aveva risposto in un documento sul caso Moro: «Nella vita politica è ormai continua la richiesta di schieramenti: bisogna connotarsi, qualificarsi, firmare. Decidere subito, ma cosa? Per il sì o per il no. Ci si schiera per appelli nominali; si finisce per non socializzare la politica offrendo soltanto la finta tranquillità dell’omologazione. Tutti uguali, indifferenziati» (vedi Effe, giugno 1978).
Oggi, ancora, anche se da una posizione ben diversa, e più vicina a noi, Rossana Rossanda, in un articolo comparso sul «Manifesto» dell’8/2 scorso, dopo un’analisi di quella che lei stessa definisce «la più interessante spia di una crisi profonda di civiltà» cioè il movimento femminista, aggiunge «se alcune donne pensano di percorrere la via (ndr. della violenza armata), è che non hanno capito nulla di questo loro movimento e si muovono, tradizionalmente gregarie, su modelli altrui» concludendo però «ma le altre non consentano che la trappola scatti. Dicano no, sole o in compagnia, con il movimento o senza».
Il fatto è che anche se rischiamo di farci ridere in faccia, rispondendo col richiamo alla nostra tradizionale non violenza, non è indolore pronunciarsi «senza movimento». Anche per noi, come dice Rossana Rossanda, «quel che è da salvare è molto». Nello stesso documento le compagne di «Donne e Polizia» -dicevano: «In questa situazione è importante riuscire a mantenere un margine di ambiguità: ci sono io soggetto e c’è un processo che rischia di risucchiarmi, di divorarmi se io non lo attraverso e quindi lo trasformo, proprio tenendo aperte le contraddizioni». Questa è stata la nostra pratica e questa vogliamo mantenere. Quello che possiamo fare — oggi — è individuare i problemi, gli interrogativi; centrare dove e come assumere il problema terroriste o non invece il terrorismo tout-court.
Se il terrorismo e la scelta delle Br o di «Prima Linea» ci impongono ancora una volta un aut-aut e un restringimento degli spazi vitali di espressione e di confronto, d’altro canto il nostro schieramento contro una scelta di morte come quella di chi fa la lotta armata, non vuol dire l’arroccamento in difesa di un assetto istituzionale.
Il problema del confronto o dello scontro con le istituzioni (chiedere una legge” e difenderla o rifiutare questa via, per esempio) è un problema tuttora aperto e irrisolto nel movimento. Il caso dell’aborto è esemplare in proposito: in alcune situazioni lavorare nei consultori o negli ospedali (scelta istituzionale) è quasi una via obbligata, determinata dall’esterno. In altre, più «avanzate», è ancora possibile porre il problema «istituzioni» nei termini in cui il movimento l’aveva posto inizialmente di rapporto tra emancipazione/liberazione. Per ciò se non possiamo schierarci nettamente con lo Stato, senza negare una grossa parte della nostra storia fondamentalmente anti-istituzionale, è indubbio tuttavia, che la presenza di donne nelle organizzazioni armate, e soprattutto di donne che si definiscono femministe, rilancia una serie di problemi al movimento.
«Come femminista poi sono chiamata in causa da tutto questo anche specificamente (…) perché il terrorismo rappresenta oggi un fenomeno con il quale non confrontarsi vuol dire rion capire cosa può e deve essere la lotta politica fuori dalla logica o dello Stato o dei terroristi». (M. Fraire, // Manifesto, 22-2-79).
Il che significa proseguire sul terreno politico della risposta politica attraverso un lavoro separato di donne, in gruppo e collettivi. Elaborare risposte autonome, ripercorrendo le nostre storie, dando voce ai fantasmi di morte che la violenza armata e la violenza quotidiana ci suscitano, non avendo paura di ammettere che, a modo nostro, siamo un movimento violento quando lottiamo per l’abbattimento della famiglia, e dei ruoli. La. nostra scelta di non violenza non è un’a scelta «morale», ma una scelta che deriva da una storia di violenza subita ma anche praticata seppure in forme non mortifere.
Da sempre le lotte delle donne hanno assunto forme anche violente. La presenza femminile all’interno della resistenza e dei movimenti di liberazione del terzo mondo, è sempre stata consistente, anche se la Storia l’ha negata. Un’approfondita ricerca storica può chiarirci quanto specificamente femminile sia stata questa partecipazione. E’ certo però che anche alle origini del nostro movimento è esistita la violenza fisica. Le suffraggette inglesi incendiavano case e chiese, senza mai uccidere nessuno, avendo individuato nella proprietà privata un momento dell’oppressione delle donne e, funzionalizzando la violenza alla propria lotta specifica. Detto questo non accettiamo certo la violenza fisica come una pratica politica. Ma riteniamo necessario affrontare e cercare di capire quello che è uno dei nodi più drammatici per il femminismo. Il movimento a Roma, in questi giorni ricomincia a riunirsi in assemblea.